L’escalation della tensione nello Stretto di Formosa
Le ultime due tessere che in ordine di tempo stanno componendo il mosaico della crisi in atto tra Cina e Taiwan giungono dai fronti diplomatico e militare.
Oggi la Russia ha chiarito ulteriormente la sua posizione rispetto alla questione delle “due Cine”. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha affermato in conferenza stampa che “proprio come la grande maggioranza degli altri paesi, la Russia vede Taiwan come parte della Repubblica Popolare Cinese. Questa è la premessa da cui procediamo e continueremo a procedere nella nostra politica”.
La seconda tessera invece è rappresentata dalle esercitazioni della Fanteria di Marina cinese che hanno visto ieri la simulazione di sbarchi sulle coste della provincia di Fujian, nello Stretto di Formosa, a poco più di 150 chilometri dalle spiagge taiwanesi.
L’esercitazione ha fatto seguito alle massicce e reiterate violazioni della zona di difesa aerea di Taiwan che a inizio ottobre hanno coinvolto fino a 150 aerei cinesi (tra cui bombardieri H-6 e cacciabombardieri Su-30, J-16 e J-17 oltre ad aerei radar KJ-200 e KJ-500 e ai caccia della Marina J-15) in 5 giorni.
Il giorno precedente l’ufficio di Pechino per gli affari di Taiwan ha definito il discorso del presidente dell’isola-stato, Tsai Ing-wen, (leader del Partito Democratico Progressista) “la fonte di turbolenze e tensioni nelle relazioni tra le due sponde dello stretto e la più grande minaccia alla pace e alla stabilità”. La signora Tsai, parlando alle celebrazioni per la Giornata Nazionale il 10 ottobre, ha dichiarato che l’isola “non si piegherà” alla crescente pressione di Pechino: una risposta indiretta al presidente cinese, Xi Jinping, che ha promesso di portare a termine la riunificazione nazionale.
“Presidiamo la prima linea di difesa della democrazia” ha detto il presidente assicurando che “faremo del nostro meglio per impedire che lo status quo venga alterato unilateralmente. Continueremo a rafforzare la nostra difesa nazionale e a dimostrare la nostra determinazione a difenderci per garantire che nessuno possa costringere Taiwan a seguire la strada che la Cina ha tracciato per noi, che non offre ne’ uno stile di vita libero e democratico ne’ sovranità ai 23 milioni di abitanti dell’isola”.
Tsai ha riconosciuto la difficoltà della situazione confermando la disponibilità a colloqui con Pechino “su base equa”, proposta respinta però dalla Cina comunista che considera Taiwan una provincia ribelle, non una nazione sovrana.
Il 9 ottobre, il presidente cinese Xi Jinping aveva affermato che “la riunificazione della nazione deve essere realizzata, e lo sarà sicuramente” aggiungendo che la via pacifica “è la più in linea con l’interesse generale della nazione cinese e di Taiwan”.
Il braccio di ferro con gli Stati Uniti
Per Xi “la questione è un affare interno della Cina, che non tollera interferenze esterne: nessuno dovrebbe sottovalutare la forte determinazione, volontà e capacità del popolo cinese di salvaguardare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale”.
Un chiaro riferimento alle crescenti tensioni, anche militari, con gli Stati Uniti e altre nazioni Occidentali e della regione dell’Indo-Pacifico accentuatesi in seguito alla crisi con Taiwan.
Washington riconosce Pechino dal 1979 ma mantiene strette relazioni politiche, economiche e militari con Taiwan nell’ambito del Taiwan Relations Act, che garantisce il supporto in tutti i settori a Taipei.
Oggi Taiwan è riconosciuta da soli 15 Paesi al mondo, in gran parte Stati insulari del Pacifico e dei Caraibi anche se molte nazioni mantengono rapporti non ufficiali con Taipei.
Il continuo potenziamento militare cinese, soprattutto nei settori aereo, navale e anfibio, preoccupa Taiwan che ha aumentato il budget della Difesa mentre secondo il ministro della Difesa Chiu Kuo-cheng, la Cina potrebbe tentare l’invasione dell’isola-stato entro il 2025.
Alimentando la tensione nello Stretto di Formosa poche settimane dopo la vittoria talebana in Afghanistan, Pechino sembra voler forzare la mano su Taiwan puntando anche sul momento di debolezza degli Stati Uniti, che vede gli ambienti politici e militari di Washington lacerati dal dibattito sulla sconfitta afghana.
A inizio ottobre l’Amministrazione Biden si è detta “molto preoccupata” per le “provocazioni militari” della Cina nei confronti di Taiwan, ritenute “destabilizzanti per la pace e la stabilità nella regione”.
Il Dipartimento di Stato americano ha esortato Pechino a “cessare le pressioni militari, diplomatiche, economiche e di coercizione nei confronti di Taiwan” ribadendo “l’impegno incrollabile” di Washington al fianco di Taipei.
L’esplicito comunicato di Washington costituisce la risposta alle gravi e reiterate provocazioni militari cinesi attuate inviando un numero crescente di aerei da combattimenti a violare la “zona di identificazione per la difesa aerea” dell’Isola-stato, una “linea rossa” il cui superamento mette in allarme l’aeronautica e la difesa antiaerea di Taiwan.
Ma la crisi non coinvolge solo le “due Cine” e gli USA: il 30 settembre il portavoce del ministero della Difesa cinese, Wu Qian, ha esortato il Regno Unito a rafforzare la cooperazione con la Cina criticando il progressivo rafforzamento della presenza della Royal Navy nell’Indo-Pacifico (dove si appresta ad aumentare la presenza navale anche l’Unione Europea).
In agosto era stato il gruppo navale guidato dalla portaerei Queen Elizabeth II, con a bordo caccia F-35B britannici e dei marines statunitensi, a penetrare nel Mar Cinese Meridionale pur non spingendosi così a ridosso delle coste cinesi e degli arcipelaghi rivendicati da Pechino come ha fatto il 20 settembre la fregata HMS Richmond (nella foto sotto) attraversando lo Stretto di Formosa.
Lo scorso 17 settembre, l’ammiraglio Tony Radakin aveva dichiarato che lo Stretto di Formosa è “parte integrante dell’Indo-pacifico libero e aperto” annunciando la decisione di Londra di schierare unità di pattugliamento marittimo nell’area “almeno per i prossimi cinque anni”, a sostegno dello sforzo di contenimento della Cina intrapreso dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi alleati nella regione (Giappone, India e Australia in testa).
Pechino ha da tempo evidenziato la volontà di rispondere con una crescente mole di provocazioni militari a ogni passaggio navale britannico o statunitense nelle acque che il regime comunista considera unilateralmente parte integrante del suo territorio nazionale.
Nonostante le cautele con cui tutti gli stati del blocco occidentale esprimono il loro sostegno a Taiwan pur con i condizionamenti imposti dalle ingenti relazioni commerciali con Pechino, sembra che tutti i contendenti puntino a una “moderata escalation” intorno a Taiwan e agli arcipelaghi contesi del Mar Cinese Meridionale.
Rischio guerra?
Taiwan dispone di poderose forze armate e di un’industria della difesa ad alta tecnologia sempre più autonoma dagli Stati Uniti nello sviluppo e produzione di sistemi d’arma avanzati.
Certo, in caso di guerra Pechino potrebbe schierare un numero di forze aeree, missilistiche e navali molto superiore a quelle di Taipei e il confronto tra la spesa militare e il numero di militari delle due nazioni è impressionante: almeno 250 miliardi di dollari stanziati quest’anno da Pechino contro 16 di Taiwan e 2 milioni di soldati contro 170 mila taiwanesi cui si aggiungerebbero però 1,5 milioni di riservisti destinati a difendere le proprie case.
Tuttavia diversi analisti e militari ritengono che un assalto dal cielo e dal mare all’isola-stato verrebbe anticipato da un pesante cyber-attack teso a paralizzare i centri di comando e controllo taiwanesi e da un altrettanto massiccio bombardamento con missili balistici a corto raggio schierati in gran numero (tra i 600 e i mille a seconda delle stime) nelle basi della provincia di Fujan, situata di fronte all’isola.
Armi dotate di testate convenzionali ad alto esplosivo che avrebbero il compito di devastare basi aeree e navali, difese aeree, comandi e centri logistici delle forze armate taiwanesi per “ammorbidirle” e preparare l’invasione.
Difficile però oggi ritenere possibile un simile scenario, che testerebbe la disponibilità o meno degli Stati Uniti e dei loro alleati ad affrontare un conflitto con la Cina, potenza nucleare.
A Washington il capo di stato maggiore della Difesa statunitense, generale Mark Milley (nella foto a lato) ritiene che la Cina non sia in grado di invadere Taiwan anche se un parere opposto lo aveva espresso nel marzo scorso l’ammiraglio Phil Davidson, all’epoca alla testa del Comando dell’Indo-Pacifico.
Dal 1980, quando è scaduto il Trattato di Mutua Difesa tra USA e Taiwan in seguito all’apertura di relazioni diplomatiche tra Washington e Pechino, è il Taiwan Relations Act che impegna gli USA a fornire assistenza militare diretta in caso di attacco cinese ma non prevede più in modo automatico l’ingresso in guerra degli Stati Uniti al fianco dei taiwanesi.
Del resto Pechino punta a inglobare, non certo a distruggere, la “provincia ribelle” la cui florida economia e il poderoso apparato industriale e tecnologico ingigantirebbero ulteriormente il peso specifico globale della Cina.
In termini politico-strategici, un assalto delle forze di Pechino alla Cina Nazionalista (fondata nel 1949 dal generale Chiang Kai-shek in fuga col suo esercito dal continente in mano alle forze comuniste di Mao Tze Tung) diventerebbe plausibile solo se al Comitato centrale del Partito Comunista Cinese prevalesse l’impressione che a Washington nessuno sia pronto a “morire per Taiwan”.
Oltre a godere di nutrite forniture militari statunitensi (qui le ultime commesse autorizzate dall’Amministrazione Trump), Taiwan è protetta soprattutto dal mare. Per conquistare l’isola Pechino dovrebbe infatti trasportare e sbarcare centinaia di migliaia di soldati attraverso i 140/180 chilometri che separano l’isola dalla costa continentale.
Distanze che in realtà si estenderebbero fino a oltre 200 chilometri tenuto conto che i tratti di costa più idonei a uno sbarco anfibio si trovano nelle estremità settentrionali e meridionali dell’isola (nella mappa qui sotto) dove sarebbe necessario sbarcare un gran numero di truppe, dopo aver conseguito il dominio dell’aria, per affrontare la prevedibilmente strenua difesa degli isolani.
Inoltre, una consistente forza d’invasione dovrebbe ricevere sempre via mare un’immensa mole di rifornimenti per sostenere l’offensiva.
Un’impresa ardua non solo a causa delle ottime capacità navali taiwanesi e del supporto che verrebbe con ogni probabilità offerto loro dalla flotta statunitense e da altre nazioni alleate, ma anche perché le truppe cinesi non hanno alcuna esperienza bellica (neppure quelle taiwanesi) né hanno maturato esperienze significative in operazioni anfibie.
Inoltre perché Pechino dovrebbe mettere a rischio in acque ristrette buona parte della sua moderna flotta e le molte navi mercantili “militarizzate” proprio per poter imbarcare truppe e mezzi in vista di grandi operazioni di sbarco.
L’opzione delle operazioni limitate
Se risulta quindi difficile ipotizzare una guerra totale tra Cina e Taiwan, la costante escalation della tensione potrebbe rendere più plausibile (o meno improbabile) una limitata azione di forza condotta da Pechino contro l’isola di Kinmen (o Quemoy) e l’arcipelago delle Matsu, situate rispettivamente alle imboccature sud e nord dello Stretto di Formosa, a ridosso della costa continentale cinese ma territori taiwanesi presidiati da guarnigioni militari agguerrite e schierate su posizioni difensive ben protette.
Tali isole, così vicine alle coste cinesi da poter essere colpite anche dal fuoco dell’artiglieria (Kinmen dista appena due chilometri e la più vicina delle Matsu circa 10), sono potenzialmente attaccabili dalla Cina senza sforzi bellici troppo impegnativi e con un assalto lampo che potrebbe coinvolgere anche le isole Pescadores (Penghu), arcipelago posto a 150 chilometri dalla Cina e a 30 da Taiwan, oppure le isole Wuciou, situate al dentro dello Stretto a 25 chilometri dalle coste cinesi, scarsamente popolate ma presidiate e fortificate .
Aggressioni militari che in ogni caso provocherebbero durissime reazioni internazionali, soprattutto negli Stati Uniti, ma permetterebbe a Pechino di saggiare la disponibilità dei rivali occidentali a combattere per Taiwan.
Del resto negli anni ’50 Washington annunciò che avrebbe impiegato anche armi nucleari contro la Cina in caso di attacco maoista a Kinmen e Matsu, isole che vennero spesso citate anche da John Kennedy e Richard Nixon che si affrontarono nella campagna presidenziale del 1960 esprimendo entrambi la disponibilità a far scendere in guerra gli Stati Uniti per difenderle dall’aggressione comunista.
Come ai tempi della guerra fredda con l’Unione Sovietica, anche oggi gli equilibri tra guerra e pace si giocano sul peso e la credibilità della deterrenza anche se, rispetto al passato, è lecito chiedersi se USA e Occidente siano ancora in grado di esprimerla in modo convincente.
Foto: Forze Armate di Taiwan, Royal Navy, US DoD e PLA