L’Italia sta cedendo quote d’influenza nelle aree prioritarie per gli interessi nazionali
La tendenza verso un’accentuata irrilevanza internazionale dell’Italia, segnalata più volte su Analisi Difesa, ha assunto sciaguratamente contorni da declino inarrestabile in tempi di Covid-19. In assenza di una politica estera degna di un Paese strategicamente ed economicamente rilevante, è stato consentito in pochi mesi, dati alla mano, al netto di una irresponsabile disinformazione, di far accomodare al nostro posto Paesi concorrenti, per di più ringhiosi e determinati, subentrati da protagonisti nelle zone d’influenza italiana.
A prescindere dal nostro ruolo politico-economico (probabilmente attualmente sovrastimato) di settima o ottava potenza mondiale, è proprio nelle aree prioritarie per tradizione, vicinanza, tutela degli interessi nazionali che abbiamo perso, quasi fosse ineluttabile, autorevolezza, influenza e considerazione dovuta al Paese Italia.
E’ il caso di riassumere fatti forse già noti separatamente eppure resi ancor più preoccupanti per il nostro futuro prossimo in una visione d’insieme. Dovrebbero indurre a reazioni incisive, da Paese sovrano se potessimo contare su un sussulto d’orgoglio nazionale, su una strategia unita a capacità d’azione e competenze adeguate almeno per riacquisire quanto ci viene sfilato sotto il naso. Apparentemente senza alcuna risposta concreta né tantomeno dissuasiva.
Non si tratta beninteso di incitare a rappresaglie o politiche oltremodo aggressive, ma almeno ad un cambio di rotta determinato, frutto di una realistica valutazione delle “lezioni apprese”, del pericolo e delle conseguenze politico-economiche della passività, dell’approccio retorico ideologico, del delegare ad altri, del non decidere, a fronte delle sfide complesse cui siamo sottoposti.
Esaminiamo le aree geografiche di interesse strategico prioritarie per L’Italia:
- Balcani occidentali
- Medio Oriente e Nord Africa (MENA). In questo contesto la Libia va considerata priorità a sè stante per ragioni storiche, di reciproco interesse per i due popoli, commerciali, strategiche.
- Sahel (dall’inizio della crisi migratoria), ovvero la fascia di Africa sub-sahariana.
- Corno d’Africa (include Somalia, Etiopia, Eritrea, e le rotte marittime commerciali ampliatesi con il raddoppio del Canale di Suez. L’Italia partecipa da anni alle missioni internazionali anti pirateria e alla difesa dei trasporti marittimi commerciali).
Sahel e Corno d’Africa rientrano in pieno nel concetto di Mediterraneo allargato la cui estensione oltre il Nord Africa è acquisita dall’inizio delle operazioni di difesa dei trasporti marittimi, di contrasto al terrorismo internazionale e ai traffici di tutti i generi, a partire dagli esseri umani, dalle migrazioni illegali.
Balcani occidentali
Fino a inizio anni 90 del secolo scorso l’Italia ha goduto di un’influenza politica non trascurabile, frutto anche di iniziative bilaterali importanti ed autonome. Si ricordano in particolare le iniziative dell’ottimo e vulcanico Vice presidente del Consiglio e ministro, Gianni De Michelis, prima del lavoro poi degli esteri fino al 1992.
Ero in Austria nel 1992 in servizio all’Onu quando nei contatti che avevo con alti funzionari Onu e diplomatici di vari Paesi, venivano lodate le qualità del nostro ministro e la sua leadership. Era molto popolare in Austria, fatto non abituale soprattutto se raffrontato con la percezione della nostra politica estera almeno dal 2012 in poi.
Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989, il ministro De Michelis dotato di visione strategica, determinazione, capacità di azione, del tutto assenti ai giorni nostri, aveva immaginato e creato una iniziativa Adriatica, poi sfociata nella Quadrangolare, assieme ad Austria, Ungheria ed ex-Jugoslavia per rinforzare il dialogo politico, la cooperazione ed incrementare le opportunità di scambi commerciali e culturali. Nel 1990 aderì anche la Cecoslovacchia e nel 1991 la Polonia.
La cosiddetta Esagonale assunse nel 1992 l’attuale denominazione di Iniziativa Centro Europea. I Paesi membri divennero 17 nel tempo. l’Italia era considerata capofila dell’Organizzazione Ince il cui segretariato risiede ancora oggi, non a caso, a Trieste.
Una intraprendente azione politico-diplomatica di alto profilo, assunta e voluta dall’Italia senza l’ingombrante presenza di Francia e Germania. Negli anni l’organizzazione perse rilevanza per l’uscita di scena del suo ideatore, per la sempre più invadente influenza tedesca nei Balcani, per la scarsa disponibilità di fondi, di una progettualità concreta e visibile, per il progressivo, inesorabile declino della capacità di azione italiana, della stessa politica estera sempre più delegante e, dalla fine dell’esperienza governativa di Berlusconi, appiattita sulle politiche comuni europee. Il dato oggettivo comportò un depotenziamento sostanziale delle iniziative bilaterali a tutela degli interessi nazionali, una perdita di influenza e competitività, almeno nelle nostre aree prioritarie, rispetto all’attivismo di Francia e Germania.
Le prime pericolose avvisaglie per l’Italia giunsero con il chiaro, forte sostegno della Germania alle richieste d’indipendenza di Croazia e Slovenia dalla Federazione Jugoslava. Gli interessi tedeschi non erano convergenti con quelli italiani e l’Unione europea appena nata non in grado di esprimere una posizione condivisa dai Paesi membri di allora.
La progressiva dissoluzione della ex-Jugoslavia contribuì a rafforzare l’influenza tedesca e a minare di pari passo quella italiana. Un chiaro esempio fu l’esclusione dell’Italia dal primo Gruppo di Contatto nato su iniziativa USA, nel 1995, per cercare di risolvere la grave crisi in atto nella Bosnia-Erzegovina, acuitasi a causa dei fallimenti operativi della Ue e dell’Onu. Italia esclusa in prima istanza dal Gruppo di Contatto nonostante la riconosciuta influenza nei Balcani e Germania presente.
Una ferita mai rimarginata, formalmente rientrata solo perché l’Italia inviò un contingente militare in Bosnia-Erzegovina in ambito Nato e fu quindi ammessa in un secondo momento nel Gruppo di Contatto.
Il danno politico-diplomatico non fu riassorbito, al netto delle solite retoriche italiane, al punto che l’impressione del ritorno alla politica dello “strapuntino”, l’importante è essere presenti alle riunioni internazionali anche se silenti tanto poi decidono gli altri, si concretizzò in maniera palpabile.
Gli avvenimenti legati alla vicenda Kosovo sono forse i più indicativi per misurare la perdita di influenza e autorevolezza italiana nella regione.
Il nostro Paese non si fece trovare impreparato quando deflagrò il caso Kosovo con Massimo D’Alema Presidente del Consiglio. Partecipò alla guerra aerea Nato contro la Serbia e inviò un robusto contingente militare, una brigata, già dall’ingresso nel giugno 1999, delle truppe Nato, acronimo Kfor, in Kosovo a seguito della pace siglata, della risoluzione Onu 1244 che determinò lo status del Kosovo e le modalità d’impiego della più grande missione civile internazionale dell’Onu messa in campo fino ad allora unitamente alla componente militare Kfor preposta ad assicurare la sicurezza del territorio.
Al contingente militare italiano fu affidata una delle 4 regioni kosovare quella di Pec/Peja. Oltre alle mansioni previste, svolte impeccabilmente fra le due etnie nemiche, si distinse, fra l’altro, nella protezione delle minoranze, serba in particolare, e, ancora oggi, dell’antichissimo patrimonio artistico culturale costituito da splendidi monasteri e chiese serbo-ortodosse.
Il reggimento del Genio Ferrovieri italiano, vera eccellenza nel suo campo, intervenuto su esplicita richiesta dei britannici responsabili della regione di Pristina fu in grado di ripristinare in un breve arco di tempo l’intera rete ferroviaria danneggiata consentendo la circolazione di merci e persone nonché gli spostamenti in sicurezza delle minoranze. Grande impatto positivo per qualità e risultati ottenuti ebbero anche il reggimento dei carabinieri MSU, alle dipendenze dirette del Comandante di Kfor, impiegabile in tutto il Kosovo per l’ordine pubblico nelle situazioni più critiche e l’Aeronautica militare chiamata a gestire dal 2000 l’aeroporto di Pristina, lo scalo principale.
La premessa è necessaria per descrivere parzialmente l’importanza del contributo italiano. Siamo a tutt’oggi presenti in Kosovo con il secondo, dopo gli Usa, contingente militare assicurando dal 2013 con continuità il comando Kfor.
Riportate le note positive è bene soffermarsi sui risvolti negativi, emersi già da allora, utili a comprendere la progressiva perdita di influenza politico-diplomatica fino alla sostanziale irrilevanza odierna. E di sostanza si tratta, non dei formalismi sbandierati da vari governi e dal Ministero degli esteri per giustificare una rilevanza italiana la quale nei fatti, per chi ha avuto esperienze dirette sul campo, nei negoziati o ha ben analizzato le situazioni fuori da logiche di bottega e demagogie, non trova conferme concrete sul terreno e ai tavoli negoziali.
Se è assodata la presenza italiana alle riunioni internazionali formali che contano, almeno fino agli sgarbi recenti di Francia e Germania, e nel Quint, gruppo dei Paesi occidentali USA, Francia, GB, Germania e Italia, facenti parte del Gruppo di Contatto assieme alla Russia, in quanto ad iniziative sostanziali e influenti, determinanti per le decisioni comuni abbiamo preferito agire nel segno della prudenza assecondando le decisioni altrui. Bastava essere presenti.
Una costante della politica estera acuitasi vistosamente negli ultimi anni. All’origine del declino vi è stata sempre la stridente disparità fra sforzi, risorse umane e finanziarie messe in campo e benefici concreti capitalizzati in funzione di una crescita del nostro ruolo internazionale, della tutela dei nostri interessi primari. La questione dei dividendi da incassare in ogni frangente non è mai sfuggita agli alleati competitori Francia, Germania, Regno Unito e anche Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Paesi scandinavi.
In linea generale, una debolezza evidente è stata l’accantonamento di un’azione italiana incisiva, strategica, identificabile nell’ambito degli organismi internazionali, Onu e Ue in particolare, preferendo, nei fatti, garantire un sostegno assicurato, acritico, alla gestione amministrativa e politica degli stessi.
Risultato: nei quartieri generali, sul terreno, nella componente civile delle missioni internazionali le posizioni decisionali, non necessariamente quelle apicali, occupate in minima parte da italiani sempre in misura nettamente inferiore ai contributi versati, alla qualità dell’impiego militare e civile.
Se non si dispone di responsabilità politico-decisionali in ambito civile, e in più si consente di scavalcare i pochi italiani che le detengono e svolgono degnamente il loro lavoro senza pronte e adeguate reazioni da parte del ministero degli esteri, si comprende meglio la perdita di influenza, il declino, la percezione di debolezza che permette ad altri Paesi di occupare le posizioni che a noi spetterebbero, perfino quelle da noi detenute. Una grave carenza per un Paese importante, per una politica estera che dovrebbe imporre la sua autorevolezza a tutela degli interessi nazionali, delle posizioni italiane da proteggere e incrementare negli organismi internazionali.
E’ quel che accadde in Kosovo, e non solo, già dalle prime fasi della missione. Non bastò la denuncia coraggiosa del vice comandante di Kfor il generale italiano Mazzaroli il quale, in un’intervista al Corriere della Sera, riportò in sostanza che a fronte dei cospicui contributi finanziari e dell’impiego di importanti risorse umane militari, l’Italia non contava quasi nulla nella missione civile Onu Unmik e che avremmo perso tutte le opportunità senza un forte sostegno diplomatico. Il generale fu richiamato in 24 ore in Italia per aver denunciato, per amor di patria, una verità ineccepibile.
Ne sono testimone diretto in quanto ero presente in Kosovo in servizio presso Unmik, fra i pochi civili italiani a rivestire un incarico di responsabilità decisionale, conquistato sul campo con la soddisfazione dell’ex ministro degli esteri francese Bernard Kouchner allora primo rappresentante speciale in Kosovo del segretario generale dell’Onu. Ad avvalorare quanto riportato è utile ricordare che l’Italia fu l’ultimo grande Paese ad avere il rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu e poco prima del drastico ridimensionamento della Missione Unmik. La nomina di un capo italiano fu successiva perfino a quelle di danesi e finlandesi.
Scorrendo gli eventi recenti va ricordato un episodio sconcertante al pari dell’esclusione dal primo Gruppo di Contatto. Il 29 aprile 2019 Germania e Francia organizzarono, presenti capi di Stato e di governo dei Paesi coinvolti e il rappresentante Ue, un vertice informale sui Balcani occidentali per incentivare la definizione della politica Ue verso i Balcani occidentali, accelerare il dialogo fra Serbia e Kosovo, allora in stallo, creando di fatto un gruppo di testa nel contesto balcanico.
L’Italia non fu invitata e non partecipò. Uno smacco, un paradosso considerato il ruolo potenziale dell’Italia nell’area e il fatto che il nostro Paese manteneva, e mantiene, il secondo contingente militare in Kosovo mentre la Francia ha ritirato le truppe e la Germania è presente con poche decine di unità. Cercare di minimizzare l’episodio non agevola le analisi costruttive, è proprio in quel tipo di riunioni, siano esse informali o meno, che, a prescindere dalla presenza del rappresentante Ue, si valuta il peso politico di un Paese e di conseguenza se ne attesta influenza e rilevanza.
Realisticamente a livello europeo le decisioni sui Balcani vengono ormai prese su impulso del duo franco-tedesco. A parte l’Albania, Paese amico, dove cresce pericolosamente l’influenza turca, e forse Serbia e Montenegro, appaiono oggettivamente difficili i rapporti con Croazia e Slovenia.
Non sono agevolati dalle continue infiltrazioni di migranti illegali in Italia, nonostante le strombazzate pattuglie congiunte alle frontiere, dalla questione ancora irrisolta della ZEE (zona economica esclusiva) fra Italia e Croazia nell’Adriatico e dalle intese per i corridoi turistici in epoca Covid 19 non certo favorevoli al nostro Paese. Persino in Kosovo, dalla semplice analisi dei giornali locali e delle rassegne stampa quotidiane predisposte da Osce e Unmik si intuisce, ad esempio, quanto poco rilevante sia stata considerata nella sostanza l’ultima visita del ministro degli esteri, Luigi Di Maio. Meno delle visite di direttori generali francesi e tedeschi dei rispettivi ministeri degli esteri. Che l’Italia mantenga in Kosovo contingenti militari importanti contingenti in ambito NATO (incluse forze dei Carabinieri, anche per investigare sui loschi traffici, riciclaggi e collaborazioni fra mafia kosovara e organizzazioni criminali italiane) è un dato positivo, molto meno sul piano di un effettivo beneficio e di una accresciuta influenza politica nei Balcani.
Medio Oriente e Nord Africa (MENA)
In un’area vitale e strategica per la nostra sicurezza, per i nostri approvvigionamenti per cultura e tradizioni è un dato di fatto che nell’ultimo anno l’Italia ha perso ulteriormente e pericolosamente influenza, capacità di manovra, incisività e competenza su tutti i dossier sensibili. Inutile dilungarci sul caso più scottante, la Libia dove siamo stati semplicemente rimpiazzati dalla Turchia costretti addirittura in posizione difensiva senza la certezza, allo stato attuale, di poter difendere con successo ruolo politico e interessi economici nazionali.
Triste parabola discendente, più volte riportata su Analisi Difesa, frutto di superficialità, mancanza di una visione strategica, disinteresse nei fatti del nostro titolare della Farnesina il quale non appare minimamente reattivo rispetto agli eventi e alle sue fallimentari missioni in Libia, Grecia, Turchia, ecc.
La pericolosa china può essere, purtroppo, emblematicamente rappresentata dall’ennesimo sgarbo subito dall’Italia nel dicembre 2019 al vertice NATO di Londra.
In concomitanza con l’incontro ufficiale collegiale spesso risultano più rilevanti gli incontri bilaterali e le riunioni informali fra gruppi di Paesi su argomenti specifici. Ebbene sulla Libia e sulla Siria si svolse una riunione informale fra Francia, Germania, Regno Unito e Turchia, Italia esclusa. Nonostante la presenza al vertice Nato del Presidente del consiglio Conte e del ministro degli esteri Di Maio. In tal modo si attestò, più chiaramente di così non si può, l’ascesa di Turchia e Germania nella questione libica con Roma rimpiazzata sul campo da Ankara. Ancora una volta le dichiarazioni ufficiali del premier Conte, soprattutto del ministro Di Maio a sostegno della priorità di far ritornare l’Italia punto di riferimento nel Mediterraneo, della nomina di un inviato speciale per la Libia, risultarono retoriche, senza riscontri, ad uso forse della politica interna, ben lontane dalla realtà.
Se non fosse per l’influenza dell’ENI in Egitto, per la scoperta del più grande giacimento di gas naturale nel Mediterraneo, per la penetrazione vittoriosa a suon di importanti commesse delle nostre grandi aziende Fincantieri e Leonardo, per le circostanze legate alla Libia avremmo probabilmente compromesso anche le relazioni storiche con il colosso egiziano, da sempre Paese amico, ineludibile e vicino all’Italia.
La questione Regeni resta un grave vulnus ma da trattare su un piano separato rispetto agli interessi strategici prioritari per il nostro Paese. Reclamata da mesi, finalmente sembra sbloccata, a meno di ulteriori ripensamenti, la vendita delle fregate italiane Fremm di Fincantieri all’Egitto foriera peraltro di altre importanti commesse. Ricordiamo che la Francia ha tentato in tutti i modi di vanificare la scelta egiziana a danno appunto delle commesse francesi. Una decisione del governo, se definitiva, arrivata però sul filo di lana apparsa più come ultima spiaggia necessaria per non compromettere irrimediabilmente le relazioni con l’Egitto, determinante sia in Libia che in funzione del contrasto all’espansionismo turco.
In un contesto dove ormai Paesi amici, competitori e antagonisti si mescolano contano decisioni incisive, fatti e null’altro, ne va dei nostri interessi nazionali. In mancanza di una solida strategia varrebbe forse la pena, affidare ai nostri Servizi (ancora di riferimento in Libia con l’impressione che siano persino frenati dalle incapacità altrui), ai ministri della Difesa o degli Interni (modello Salvini o Minniti), la gestione della politica estera in Libia inclusa la questione migratoria e la tutela dei contratti ENI Saipem di esplorazioni sottomarine al largo di Cipro minacciati dall’aggressività turca e dal Memorandum Libia (Tripoli) – Turchia.
E che pensare della reazione burocratica alla decisione unilaterale dell’Algeria, Paese amico e fornitore di gas, di allargare la propria ZEE (Zona economica esclusiva) fino a lambire le coste sarde? Non sarebbe una novità, benché anomala, ripensando al giustificato interventismo di Minniti e Salvini al tempo dei loro mandati. L’Italia riacquistò credibilità con un’azione continua e determinata dettata dai due ministri degli interni che rimpiazzarono de facto i loro “distratti” colleghi degli esteri.
Libano, Siria, Giordania, Iraq.
Se ne parla e si ricorda poco ma da metà anni 60, 70 del secolo scorso, l’Italia è stata molto influente nell’area del vicino Oriente in particolare in Libano, Giordania e Siria, avevamo anche ospedali e scuole italiane molto apprezzate e ben frequentate sia da cristiani che da musulmani, tempi antecedenti la prima consistente missione militare all’estero dal dopoguerra comandata dal generale Angioni, Libano 1982, e i governi Craxi con Andreotti ministro degli esteri.
Dal 1972 e per circa 9 anni fu presente a Beirut il colonnello Stefano Giovannone, nome in codice (e nei fatti) “il Maestro”, capo centro prima del Sid, in seguito Sismi. In un breve arco di tempo divenne una figura centrale, un garante non solo per i servizi e la politica italiana nel vicino Oriente (Lodo Moro) ma anche per gli arabi, Olp e frange palestinesi in prima battuta; rispettato dai servizi israeliani, dagli americani e da altri alleati che spesso a lui si rivolsero, quindi all’Italia, per le sue indiscusse capacità e conoscenze.
Arrivava dove altri non potevano, contribuì in maniera sostanziale alla sicurezza dei cittadini e degli interessi italiani nell’area.
Nel 2006, con Romano Prodi Presidente del Consiglio e Massimo D’Alema ministro degli esteri, l’Italia fornì un contributo determinante in termini di uomini e risorse finanziarie affinché l’Onu fosse in grado di inviare nell’ambito della forza dell’ONU (UNIFIL) un’importante forza militare di interposizione nel sud del Libano a seguito della seconda guerra israelo-libanese (Hezbollah) e della risoluzione Onu 1701 che ne consentì il dispiegamento. Per 4 volte, il comando della forza militare Onu è stato assegnato ad un generale italiano. Il contingente militare italiano è stato sempre il più consistente, a volte il secondo, con una media di oltre mille effettivi schierati.
A livello economico commerciale, il nostro Paese è riuscito a mantenere la posizione di prestigio, a competere spesso con successo con Francia e altri, a vedere recentemente affermata la collaborazione tra ENI, Total, la russa Novatek per l’esplorazione off-shore, e successivamente la produzione petrolifera libanese, rafforzando la presenza della compagnia energetica nazionale nel Mediterraneo.
Se dal punto di vista commerciale la nostra presenza si fa ancora sentire grazie alla dinamicità delle società italiane ed al colosso ENI, dal punto di vista del posizionamento internazionale in Libano e Paesi limitrofi scontiamo un inesorabile declino.
Magari non dal punto di vista formale, l’ambasciata italiana rimane ancora importante riferimento in Libano e in Paesi come Giordania, Iraq, bensì nei fatti, nella sostanza. Tuttavia pochi organi di stampa e osservatori rilevano che anche in Libano, pur detenendo spesso il comando di UNIFIL e il contingente militare più importante, non abbiamo mai avuto, se la memoria non mi tradisce, un italiano coordinatore speciale per il Libano del segretario generale dell’Onu.
Tanto meno il coordinatore speciale per il processo di pace in Medioriente (residenza Gerusalemme e Gaza). Queste due figure apicali gestiscono la parte politica degli interventi delle Nazioni Unite nel vicino Oriente, determinano, influenzano l’andamento dei negoziati e le risoluzioni dell’Onu, riuniscono i Paesi donatori, sono figure di riferimento principali e ineludibili per i governi dei Paesi coinvolti e per i Paesi contributori.
Come abbiamo già indicato per il Kosovo, non avere civili Italiani di elevato potere decisionale ridimensiona oggettivamente il ruolo dell’Italia nell’area, ne abbassa la caratura internazionale, rende purtroppo evidente la disparità fra sforzi, contributi umani e finanziari e peso specifico nell’arena internazionale.
Appare fuorviante quindi ribadire fin troppo spesso la presenza italiana al comando di UNIFIL, sicuramente importante, senza rilevare parimenti la nostra oggettiva debolezza nel contesto politico e diplomatico. Del resto la responsabilità di un’operazione rimane militare e non può essere equiparata, in ottica Onu e non solo, a quella politica.
Tanto più che è già accaduto a livello segretariato generale Onu, con conseguente irritazione italiana, la convocazione di riunioni politiche sul Libano e sul processo di pace in Medio Oriente senza che fosse invitato a parteciparvi il comandante militare di Unifil.
Come per il Kosovo sono testimone diretto, avendo operato a lungo nell’area e in Iraq, sia del grande credito di cui disporrebbe il nostro Paese fra governi e popolazioni locali che dei torti subiti dall’Italia a livello di amministrazioni internazionali, pronte ad assecondare sempre le velleità dei nostri partner occidentali.
Infine l’essersi appiattiti acriticamente sulle politiche Ue e Onu rinunciando ad una linea italiana, pur nel contesto delle alleanze, non ha per niente facilitato, né accresciuto il nostro ruolo.
Sahel
Il Sahel, dall’arabo sahil ovvero bordo del deserto, è la zona di transizione fra il deserto del Sahara e l’inizio delle aree coperte da vegetazione. Si estende da ovest a est del Grande continente dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso. E’ ridiventata area prioritaria e strategica per l’Italia durante la prima grave crisi migratoria culminata con la tragedia del naufragio di Lampedusa, ottobre 2013. Furono i dolorosi avvenimenti, le logiche emergenziali a scuotere il governo di allora, non una visione geopolitica che pur non ci era stata estranea nel passato. La visione geopolitica e una strategia da realizzare furono alla base delle intuizioni del presidente del consiglio Craxi a partire dal suo primo governo del 1983.
Cavalcando la campagna di Marco Pannella contro la fame nel mondo, Craxi seppe impostare con atti concreti e innovativi, per l’epoca, la proiezione italiana nell’area Saheliana riformulando la politica estera in Africa occidentale. Divennero prioritari per la prima volta Paesi come Senegal, Niger, Chad, Mali.
Grazie agli ingenti fondi per la cooperazione allo sviluppo, ad un sostanziale incremento delle attività culturali riuscimmo in breve a farci apprezzare da governi e popolazioni locali ad essere accolti molto positivamente, considerati come un importante Paese donatore, una diversificazione europea bene accetta rispetto alle ingombranti tutele francesi. L’Italia arrivò a competere, creandole preoccupazione, con l’ex potenza coloniale francese nei suoi ex possedimenti. Scontammo, dopo i primi successi, lo scandalo dei fondi della cooperazione, che si rivelò alla fine, nelle sentenze, molto meno grave rispetto al fragore delle inchieste, alcune delle quali rivelatesi infruttuose, protrattesi per anni.
Furono invece ben più gravi i danni arrecati alla nostra politica estera dalle lungaggini processuali le quali ritardarono, in molti casi sospesero o bloccarono l’erogazione dei fondi e la finalizzazione dei progetti concordati dalle commissioni miste fra Italia e Paesi beneficiari, causando perdita di credibilità internazionale proprio nel momento di maggior penetrazione italiana.
All’epoca non mancarono scandali simili in Francia, dove furono coinvolte altissime personalità politiche, con la differenza che la continuità amministrativa francese non venne pregiudicata, gli interessi nazionali vennero tutelati e si chiusero nel minore tempo possibile inchieste, giudizi, condanne.
Fortunatamente quanto di buono fatto bilateralmente dalla Cooperazione italiana, in particolare in agricoltura, programmi idrici, assistenza sanitaria, assieme al buon ricordo delle popolazioni beneficiarie, riuscì a resistere per anni alle intemperie, alle cialtronerie di alcune fallimentari operazioni, ed alla drastica riduzione dei fondi. Ritornato nel Sahel, in Niger, a quasi venti anni di distanza dalla mia decennale permanenza in Mauritania, Senegal, Mali ritrovai istantaneamente le abitudini africane, la simpatia dei locali nei nostri confronti, un’accoglienza che ad altre nazionalità non era riservata.
Perfino dei ministri nigerini e la stampa locale mi ricordarono il successo di alcuni progetti italiani, i cui benefici erano ancora tangibili a 30 anni di distanza, chiedendo a me, portavoce di una Missione europea, come mai l’Italia avesse ridimensionato la sua presenza così bene accolta nei paesi Saheliani e facesse poco per frenare l’immigrazione clandestina. Eravamo nel 2013 subito dopo la tragedia di Lampedusa.
La lezione appresa sul campo, troppo spesso scarsamente considerata fra i corridoi e le scrivanie, ministeriali, attesta che se avessimo mantenuto la strada tracciata dal 1983 (pur scontando le sostanziali riduzioni dei fondi della cooperazione) un rapporto continuativo di alto livello con i Paesi della fascia Saheliana, includendo l’apertura strategica di ambasciate in Mali, Mauritania (promesse ma mai aperte), Niger e Burkina Faso (queste ultime aperte solo nel 2017 e nel 2018), ci saremmo ritrovati preziosi alleati nel momento topico della crisi migratoria.
Probabilmente avremmo potuto disporre di accordi bilaterali sui rimpatri già siglati, avremmo evitato di dover ricominciare quasi da zero con misure ad hoc emergenziali e l’esborso di cospicui fondi in tempi ravvicinati. L’accordo di cooperazione in materia di difesa e sicurezza con il Niger del 2017, siglato dal Governo Gentiloni, ad esempio, e lo stanziamento di circa 100 milioni di euro complessivi da parte italiana a favore del Paese divenuto prioritario, non hanno evitato ostacoli e figuracce alla missione militare italiana di assistenza MISIN.
Mal tollerata per oltre un anno dagli stessi nigerini, sobillati dai francesi, considerata una forzatura, con i nostri militari confinati nell’area aeroportuale di Niamey ospiti della base americana.
In questo caso anche un’operazione dai risvolti positivi ma gestita male in partenza, debolmente, con superficialità unita ad incompetenza, è riuscita ad intaccare la nostra credibilità internazionale, ledere perfino la dignità delle nostre Forze Armate. Alla base del pasticcio le incomprensioni con i francesi, ovviamente forti nei loro ex territori, ed un approccio ignorante (nel senso di ignorare) rispetto alla realtà nigerina (governo, cultura, società civile) evidentemente poco conosciuta e studiata prima dell’avvio delle attività.
Per fortuna il nuovo ministro, Lorenzo Guerini, ha invece dimostrato competenza, capacità e personalità diametralmente opposte al predecessore riuscendo a ripristinare in breve il prestigio delle Forze Armate, a raggiungere con sobrio realismo un’intesa costruttiva con i francesi non solo per il Niger ma nell’ambito di tutta l’area saheliana (a supporto dei Paesi G5 nella lotta al terrorismo, ai traffici di tutti i generi.
L’Italia, su richiesta francese, parteciperà in aggiunta all’attuale presenza in Niger alle operazioni in Malì con un contingente di circa 200 uomini alla Task force Takuba, nell’ambito della Coalizione internazionale per il Sahel, la quale agirà nei territori di Mali, Niger e Burkina Faso a sostegno delle forze locali affiancando l’operazione francese Barkhane (oltre 5000 uomini dislocati nei vari Paesi), la presenza militare americana e la componente multilaterale Onu, Ue.
Inoltre nell’ultimo decreto per il rifinanziamento delle missioni internazionali nel 2020, oltre alla conferma delle attività già in corso, figura l’importante novità di una nuova missione aeronavale la quale verrà dispiegata per la prima volta nel teatro operativo del Golfo di Guinea, nelle acque prospicienti la Nigeria, con 2 navi 2 aerei e circa 400 militari per garantire il contrasto alla pirateria, il supporto al naviglio mercantile nazionale e la protezione delle infrastrutture estrattive dell’ENI. Un’evoluzione da salutare positivamente in un’ottica finalmente strategica che includa senza ambiguità anche la difesa dei nostri interessi nazionali.
Corno d’Africa
Da ottobre 2013 è operativa la base militare italiana a Gibuti, prima vera struttura logistica operativa delle Forze Armate al di fuori dei nostri confini, a 7 chilometri circa dal confine con la Somalia. Ospita anche nuclei di protezione di Fucilieri di Marina e team di forze speciali pronti ad interventi in ambito anti-terrorismo ed eventuale liberazione di ostaggi.
Una presenza strategica necessaria quella italiana a Gibuti, pur se ritardata rispetto ad altri Paesi e mantenuta sotto basso profilo, al pari della presenza in Somalia, molto ridimensionata nel tempo. Attualmente un centinaio di militari italiani sono presenti nell’ambito della missione Ue di addestramento militare EUTM-Somalia, una delle rare a comando italiano.
Accanto alle note positive costituite dal riposizionamento dei nostri militari nel Sahel, a Gibuti, prossimamente nel Golfo di Guinea è purtroppo in Somalia, senza menzionare Etiopia e Eritrea, dove abbiamo perso gran parte della nostra tradizionale influenza politico commerciale. La sfera d’influenza ci è stata sottratta dalla Turchia, dalla aggressiva politica espansionistica estremamente efficace condotta dal Presidente Erdogan non solo in Libia e nel Corno d’Africa ma anche in Sudan, Chad, Senegal, nell’Africa occidentale.
Qualche dato aiuterà a inquadrare meglio da un lato la vittoriosa ascesa turca, dall’altro l’inesorabile declino italiano.
La Turchia sfoggia in Somalia la sua più grande ambasciata nel mondo e la più grande base militare turca al di fuori dei propri confini. Compagnie turche gestiscono porto e aeroporto di Mogadiscio. Grazie agli importanti aiuti finanziari, cooperazione allo sviluppo e altro, alle Ong ed alla potente compagnia privata di consulenze (PMSC) e servizi militari Sadat, presente quest’ultima in vari Paesi africani, in Asia e considerata il braccio operativo di Erdogan, alla Turchia è stata offerta dal governo somalo anche l’esplorazione petrolifera off-shore, molto ben gradita ovviamente.
E dire che la vera penetrazione turca in Somalia è iniziata solo dal 2011 con gli aiuti umanitari e la visita di Stato di Erdogan quando gli altri Paesi scansavano la Somalia…
Negli anni il Presidente turco ha effettuato oltre 30 visite di Stato nei Paesi africani, le ambasciate operative nel grande continente sono passate da una ventina a 41 (contro le 22 ambasciate italiane). Gli scambi commerciali da 5,4 miliardi di dollari nel 2003 a 26 miliardi nel 2019 assicurando alla Turchia la seconda presenza, considerata molto meno invasiva, in Africa dopo la Cina. La compagnia aerea Turkish Airlines collega oltre 50 aeroporti africani.
Sono i risultati assolutamente rilevanti di una visione politica e di una strategia diplomatico-commerciale portata avanti con continuità e determinazione senza tentennamenti che ha avuto nel 2008 l’anno di svolta nelle relazioni turco-africane quando Ankara fu dichiarata partner strategico dell’Unione Africana (Ua).
A fronte di queste iniziative concrete l’Italia, pur avendo avuto in partenza presenza e potenzialità superiori, assieme alla Ue è apparsa impreparata, indecisa, priva di una strategia di contrasto efficace, quasi non avesse capito in tempo quel che sarebbe accaduto. Grave resta comunque la cessione, quasi senza colpo ferire, delle aree d’influenza in Libia e Somalia.
Conclusioni
Il divario netto fra la risorse impiegate dall’Italia nelle missioni internazionali civili e militari, nella cooperazione multilaterale, finanziamenti cospicui a Onu e Ue, e i benefici che ne ricaviamo in termini di influenza politico-diplomatica, di presenze decisionali perfino nelle aree per noi cruciali risulta, purtroppo, penalizzante quasi imbarazzante. La nostra politica estera degli ultimi anni sembra inseguire più la benevolenza di Onu, Ue, e altri organismi internazionali che la tutela dei nostri legittimi interessi, il mantenimento se non il rafforzamento del nostro ruolo internazionale nel Mediterraneo allargato.
Una passività che non ha giovato, piuttosto ha consentito in poco tempo alla Turchia, in misura minore a Francia e Germania in Libia, di sottrarci ruolo e posizioni. L’espansionismo turco va estendendosi pesantemente anche nel Mediterraneo senza dover affrontare azioni dissuasive.
Al contrario ad Ankara è stato consentito recentemente di rafforzarsi umiliando i controlli navali sulle navi cariche di armi per la Libia da parte della missione Ue Irini, un insuccesso segnalato su Analisi Difesa già dall’avvio della missione nel marzo scorso, e di pianificare l’apertura di due basi militari in Tripolitania.
Inutile dilungarsi su altri esempi chiarificatori, quali la pessima gestione degli sbarchi di migranti irregolari perfino durante la fase più acuta del Covid-19 pur vigente un decreto governativo di chiusura dei porti italiani considerati non più sicuri, notificato a tutti i Paesi dell’area e a quelli le cui bandiere battono sulle navi delle Ong implicate nei salvataggi.
L’Italia non merita e non può permettersi di essere relegata ad un posizionamento da comprimario di seconda linea nel Mediterraneo. La vistosa distanza da colmare al più presto resta quella fra le accertate qualità di penetrazione e competitività delle nostre grandi aziende, la supremazia navale ancora mantenuta nel Mediterraneo, l’impiego importante di risorse civili e militari nei teatri internazionali e una politica estera antiquata, felpata, delegante che annaspa inseguendo gli avvenimenti invece di prevenirli e affrontarli con autorevolezza.
Subisce, non utilizza appieno le forze disponibili al fine di accompagnare un sistema Paese unito, forte a cui si deve rispetto. Viene in tal modo veicolata una immagine di indecisione, impotenza priva di piani e obiettivi concreti da perseguire se non quelli di rispondere volta per volta a situazioni di emergenza.
In pratica viene favorita involontariamente ma “cortesemente” l’intromissione dei competitori avversari nelle aree prioritarie in cui dovremmo almeno contrastare le mire altrui.
I tempi sono cambiati, le crisi regionali, asimmetriche, il terrorismo, le immigrazioni usate come armi di destabilizzazione dei Paesi concorrenti, i comportamenti di alleati, amici e avversari, il declino politico di Onu e Ue, impongono semplicemente politiche più muscolari, saper prevenire e ove necessario mostrare capacità dissuasive nella difesa degli interessi nazionali. Dannoso perseguire negli errori del recente passato, agire da subalterni privi di autonomia decisionale, nel solco di schemi Onu e Ue quando questi ultimi vengono aggirati se non disattesi dai nostri stessi alleati.
Per risalire la china soprattutto nel Mediterraneo, Nord Africa, Medioriente e Sahel più che attendere gli eventi, la riforma, lo snellimento di una burocrazia ministeriale riluttante ai cambiamenti pur essendo ben consapevole del necessario adeguamento alle dinamiche odierne, sarebbe cruciale un cambiamento di mentalità, di etica professionale, del senso di interesse dello Stato che sia realistico, non intriso di retoriche.
Si raggiunga l’obiettivo senza tentennamenti, si ripristini un sano patriottismo (provate a scalfire questo concetto in Francia, Spagna, Germania o Usa….), si adottino decisioni incisive, in linea con le tempistiche richieste non dopo anni come è accaduto nel Sahel.
In questa regione un intervento italiano venne richiesto dai francesi dal 2014 con condizioni politiche a noi favorevoli ma è stato attuato invece 5 anni dopo in condizioni certo più sfavorevoli.
La dinamica degli avvenimenti che ci hanno oggettivamente sottratto importanti aree d’influenza imporrebbe inoltre il superamento dell’ancora vigente e penalizzante rivalità fra i ministeri di Esteri, Difesa e Interni.
La Presidenza del Consiglio potrebbe valutare, imporre se necessario, senza bisogno di riforme decennali, la presenza continua e qualificata nelle aree per noi prioritarie di Inviati speciali, ipotesi suggerita da anni da Analisi Difesa.
Gli inviati speciali dovrebbero dipendere dalla Presidenza del Consiglio, onde evitare le rivalità di cui sopra e i veti degli esteri, lavorare per le tre amministrazioni, riferire alla presidenza del Consiglio, aver vissuto e lavorato nelle aree in questione conoscendone abitudini, culture e magari personalità governative e della società civile incontrate sul posto, non fugacemente altrove. Queste innovazioni fattibili e concrete potrebbero già costituire un passo in avanti non trascurabile. Inutile nominare sulla carta Inviati speciali che non hanno avuto dimestichezze con la vita e le realtà locali, o che si muoverebbero a fatica dall’Italia, poiché ne sarebbe irrimediabilmente limitata in partenza la capacità di dialogo con gli interlocutori locali.
Questi ultimi riconoscono subito chi ha esperienza del posto, ne viene determinata la caratura e il rispetto dovuto, elementi fondamentali per la riuscita di contatti da non limitarsi ai soli aspetti diplomatico-formali.
Infine occorrerebbe rendere più efficace l’azione del Paese con il controllo della Presidenza del Consiglio su una diplomazia più informale, flessibile, utilizzando negoziatori qualificati, che si integri con quella formale degli ambasciatori e quella coperta portata avanti con competenza dai Servizi.
Foto: Anadolu, Difesa.it, EUTM Somalia e Governo.it