L’UGV che non chiede aiuto: il nuovo standard
Nel dibattito sugli unmanned ground vehicles (UGV) si parla spesso di autonomia, intelligenza artificiale, capacità di carico e integrazione digitale. Sono elementi importanti, ma negli ultimi anni è emerso un requisito destinato a segnare una linea di demarcazione netta tra sistemi realmente impiegabili in operazioni complesse e piattaforme limitate a dimostrazioni su terreno controllato: la capacità anfibia.
Non si tratta di un “dettaglio tecnico” da inserire in scenari specialistici. È la possibilità concreta per un robot terrestre di attraversare ambienti misti – acqua e terra – senza interruzioni, infrastrutture aggiuntive o interventi umani. È un cambio di paradigma.
Il teatro operativo contemporaneo non presenta mai confini netti: coste, fiumi e aree inondate possono diventare in pochi minuti ostacoli critici, interrompere linee logistiche, isolare reparti o trasformare semplici pattugliamenti in missioni ad alto rischio. Un UGV incapace di muoversi in continuità tra i due domini non è un moltiplicatore di forza, ma un mezzo prigioniero del terreno. Un peso.

La capacità anfibia consente invece a un robot di precedere l’uomo negli spazi più pericolosi, sondare aree non accessibili ai mezzi tradizionali, evitare imboscate ed espandere il dominio operativo senza esporre il personale.
Repmus 2025
Una conferma di questa evoluzione è arrivata durante la Repmus 2025 in Portogallo, dove per la prima volta in un contesto internazionale un UGV ha compiuto un’azione anfibia completa. Da una nave militare, in zona costiera atlantica, un sistema terrestre è stato calato in acqua e ha affrontato onde e correnti senza intervento umano diretto. Non galleggiamento passivo, ma navigazione controllata, stabilità e capacità di seguire una rotta fino alla spiaggia.
Non bisogna comunque limitarsi alla visione suggestiva oceano–spiaggia mostrata durante l’esercitazione. La vera utilità operativa emerge nei contesti più comuni, quelli in cui si muovono tutti i giorni i reparti sul terreno. Un guado è un passaggio che qualsiasi soldato impara ad affrontare, spesso in condizioni ambientali imprevedibili. Pretendere che un nuovo sistema terrestre debba essere sollevato o trainato, insomma “caricato sulle spalle” vanifica l’idea stessa di supporto robotico.

Un UGV che non può attraversare autonomamente un corso d’acqua, anche modesto, non è uno strumento che alleggerisce il combattente ma un fardello, un problema per chi deve combattere.
Il momento in cui il veicolo è emerso dalla risacca e ha proseguito sulla sabbia con naturale continuità ha rappresentato per molti osservatori l’inizio di una nuova fase nello sviluppo degli UGV.
Protagonista della dimostrazione è stato il Mission Master SP2 (foto) di Rheinmetall, un UGV leggero, elettrico, a firma ridotta e progettato fin dall’inizio per operare come piattaforma anfibia. Non un veicolo terrestre adattato all’acqua, ma un sistema concepito per galleggiare, governare e manovrare senza modifiche preventive.

Una volta sbarcato, il mezzo ha continuato la missione senza pause, attivando sensori elettro-ottici e radar, impiegando un drone vincolato per la sorveglianza verticale e integrandosi nella rete C2 dell’esercitazione secondo gli standard NATO, senza interventi esterni. Ha dimostrato che un robot può davvero anticipare l’arrivo delle truppe, ridurre l’esposizione al rischio e garantire Situational awareness (consapevolezza della situazione) immediata.
La presentazione al pubblico del Mission Master risale al 2018 e la famiglia ha già accumulato anni di sperimentazioni e impieghi realistici. Dopo Repmus 2025 è quindi irragionevole, se non irresponsabile, considerare quello anfibio un requisito di nicchia.
Il mercato
Negli ultimi anni il mercato ha prodotto molte promesse e poche capacità reali. Alcune piattaforme non superano nemmeno una semplice pozza; altre richiedono la guida costante dell’operatore; altre ancora sono rumorose, con firme termiche evidenti e architetture chiuse difficili da integrare. In più casi si tratta di mezzi pensati per svolgere un singolo compito, senza modularità, scalabilità o coerenza operativa.
Un UGV serio può dirsi oggi operativo solo se galleggia in modo naturale anche con carico, se naviga in acqua seguendo rotte ed evitando ostacoli, se passa dal mare alla terra senza assistenza e se mantiene continuità di missione.

L’interesse di aziende che, senza saper produrre nemmeno i propri sistemi core, hanno deciso di “buttarsi” nel settore degli UGV come se bastasse aggiungere due sensori e un telecomando per entrare nel futuro della robotica militare non deve essere (nemmeno “patriotticamente”) assecondato.
Un UGV che fallisce rallenta un reparto, espone il personale a rischi inutili e tradisce la funzione stessa della robotica militare, ovvero quella di proteggere e non complicare la vita ai soldati.
L’articolo L’UGV che non chiede aiuto: il nuovo standard proviene da Difesa Online.
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