Operazione Aquila: nessuno resti indietro
La cerimonia dell’ammaina bandiera avvenuta a Herat l’8 giugno scorso ha sancito la formale conclusione dell’impegno militare italiano in Afghanistan iniziato nel dicembre 2001.
Il rientro del contingente nazionale ha incluso anche l’evacuazione del personale civile afghano che ha collaborato in questi vent’anni con i nostri militari in vari settori (interpreti, mediatori culturali, guardie, amministrativi e addetti alle pulizie). Tale attività, denominata Operazione “Aquila”, è articolata in tre fasi.
La prima, conclusasi sabato 19 giugno, prevedeva il trasferimento in Italia del personale afghano e relativi parenti di 1° grado (alcuni con patologie e handicap motori), residenti a Herat e Kabul (in totale circa 222), tramite vettori aerei civili e militari.
Successivamente, la loro sistemazione temporanea – per un periodo di quarantena – in due basi logistiche dell’Esercito e una della Marina Militare, o in “centri covid” per i positivi, dove saranno assistiti da operatori sanitari della Croce Rossa e da mediatori culturali.
Infine, l’inserimento nel Sistema d’Accoglienza e Integrazione (SAI) del Ministero dell’Interno per prepararli ad essere introdotti nella nostra società.
Si tratta di una doverosa azione di gratitudine da parte italiana che in tal modo ha riconosciuto l’impegno profuso da questi afghani nel supportare i nostri reparti, senza i quali sarebbe stato difficile interagire con le realtà locali per le profonde diversità socio-culturali.
Una prima aliquota di collaboratori afghani (circa 135) era già stata accolta in Italia nel 2014 in previsione del termine della missione ISAF (International Security Assistance Force) avvenuto nel dicembre dello stesso anno.
Sono stati i nostri brothers in arms che hanno vissuto per lunghi periodi con noi “spalla a spalla” (shana by shana in dari e hoka pa hoka in pasthu). I rapporti, inizialmente sospettosi, sono diventati col tempo e con la conoscenza reciproca sempre più aperti e basati sul rispetto e sulla fiducia.
L’operazione di evacuazione (censimento, selezione, accentramento) è stata resa ancora più complicata per i tempi serrati determinati dall’annuncio del Presidente Biden del repentino ritiro delle forze statunitensi.
Il personale afghano portato in Madrepatria è stato individuato dopo accurate valutazioni di affidabilità sulla base anche dei rapporti espressi dai militari italiani che li hanno impiegati.
La verifica della loro affidabilità è sempre complicata e riguarda anche i propri familiari. In queste zone pochi possono avere un trascorso di vita privo di compromessi poiché hanno dovuto sopravvivere in pochi anni a diversi cambi di regime (Governo comunista, Mujahedin, Talebani) adeguandosi – per sopravvivere – alla situazione del momento.
Non tutti coloro che hanno collaborato con i contingenti alleati hanno avuto il “coraggio” di lasciare il loro Paese: il timore di affrontare una nuova realtà, il legame per la propria terra e per i propri defunti hanno prevalso sull’incertezza per il futuro.
L’inserimento nella nostra società non sarà, comunque, semplice e richiederà tempo e pazienza. L’importante sarà seguire con attenzione il processo di integrazione, tutelandone anche l’incolumità tenuto conto che potrebbero subire violenze e maltrattamenti – in quanto considerati “infedeli” e traditori – in relazione agli effetti di una possibile campagna denigratoria condotta dai Talebani (o da altri gruppi terroristici) sul web.
Le Associazioni Combattentistiche e d’Arma, con le loro ramificazioni sul territorio, potranno sicuramente concorrere nell’agevolare l’inserimento di queste famiglie nella nostra società, soprattutto quelle più numerose e organizzate, come l’Associazione Nazionale Alpini.
La loro situazione è completamente diversa da quella degli immigrati clandestini e da coloro che arrivano in Italia con i cosiddetti “corridoi umanitari”.
Questi afghani hanno imparato la nostra lingua, il nostro modo di pensare e di ragionare, sono rispettosi del nostro stile di vita, della nostra cultura e della nostra religione, come noi lo siamo stati con loro in Afghanistan.
Sono individui portati in Italia dalle nostre Istituzioni, abituati a rispettare le nostre leggi e le nostre regole di vita comune. Essi hanno assicurato una collaborazione che sicuramente ha migliorato il livello di sicurezza dei nostri Soldati permettendo loro, nel contempo, di assolvere meglio il compito.
Tra loro sono presenti numerose persone in possesso di un elevato livello culturale, quali laureati (avvocati e professori) e ex – ufficiali formatisi nelle nostre Accademie. Una parte di questi conosce più lingue straniere (italiano, inglese, francese, ecc.) oltre alle due lingue ufficiali afghane (dari e pasthu).
Tenuto conto che per tutti è stato verificato il livello di affidabilità, prima di imbarcarli per Fiumicino, alcuni potrebbero continuare a svolgere a favore del Ministero dell’Interno il mestiere che hanno effettuato per anni: interpreti e mediatori culturali.
In ambito Difesa potrebbero invece essere utilizzati in un programma analogo a quello statunitense denominato MODA (Ministry of Defense Advisors), quali esperti di specifiche materie (subject matter expert) per svolgere il ruolo di coach e di mentor sia per funzionari civili e militari nazionali sia per partner stranieri in occasione di determinate attività.
Un secondo afflusso dovrebbe avvenire, come anticipato dal Ministro della Difesa, nel prossimo mese di luglio, dopo aver accertato l’effettivo rapporto di collaborazione avuto con i nostri militari da parte di altri 400 Afghani.
Si tratta prevalentemente dei cosiddetti shopkeeper, ovvero gestori di negozietti all’interno delle nostre basi e di quelle dei comandi NATO che vendevano prodotti dell’artigianato locale, poiché per ovvi motivi di sicurezza non era possibile recarsi in “libera uscita”.
Come per i collaboratori locali, anche questi rivenditori prima di poter accedere alle infrastrutture della coalizione sono stati sottoposti ad approfondite verifiche del loro profilo di sicurezza per valutarne l’affidabilità, e non tutti sono stati ammessi.
Anche se non sono stati diretti collaboratori, come quelli appena trasferiti in Italia, il loro contributo è stato molto apprezzato da tutti noi per la possibilità di acquistare oggetti ricordo di quell’affascinante Paese e per le notizie che spesso ci anticipavano sulla situazione locale.
Indubbiamente, erano spinti dal guadagno ma ciò non compensava i rischi che affrontavano, alla pari dei collaboratori locali, per l’incolumità loro e dei loro cari.
Con molti di essi, nel corso del tempo, si sono instaurati legami di amicizia che andavano ben oltre il freddo rapporto tra venditore e compratore. Portare anche loro in Italia sarebbe una grande soddisfazione per tutti noi veterani dell’Afghanistan!
Foto: ISAF, F. Biloslavo e G. Gaiani