Paolo Salvatori: Intelligence, quo vadis? – Passato e futuro dei servizi segreti esteri
Paolo Salvatori
Ed. La Lepre, Roma 2024
pagg. 431
L’autore, con un passato da dirigente all’interno dell’AISE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), dove ha ricoperto l’incarico di direttore della Divisione Controproliferazione e della Divisione Controterrorismo, in questo saggio, suddiviso in tre parti, descrive gli ultimi ottant’anni dell’intelligence, dal dopoguerra ai nostri giorni, concentrandosi rispettivamente “sul periodo bipolare della Guerra Fredda, quello unipolare del successivo ventennio di egemonia americana e, infine, sul mondo apolare attuale,” tenendo a mente che l’intelligence è intesa come “quell’attività di spionaggio svolta da uno Stato sovrano fuori dai propri confini in un contesto internazionale “ostile”, che presuppone una cornice di segretezza per il suo svolgimento” e che, come sostiene Alberto Pagani nella prefazione, “serve a supportare il potere politico decisionale, fornendogli quelle informazioni necessarie a comprendere i fatti che potrebbero sfuggirgli. Ciò comporta due conseguenze molto importanti. La prima è che il compito di prendere decisioni nell’interesse nazionale compete alla politica e non all’intelligence, la seconda è che la politica assume queste decisioni basandosi su giudizi di valore e su giudizi di fatto.” Tant’è vero che il comparto intelligence risponde direttamente al capo del governo.
La prima parte del libro è dedicata al periodo 1949-1989, quello bipolare della Guerra Fredda. “Dalle rovine materiali, morali e politiche della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti emersero come assoluta potenza occidentale cui spettava, e a cui veniva richiesto, di instaurare un nuovo ordine mondiale.” E, per quarant’anni, l’assetto politico e strategico rimase quello che si venne a determinare nei primi anni del dopoguerra, con la NATO, sorta nel 1949, che “svolse la sua funzione di deterrenza senza mai intervenire in un quarantennio di storia.”
A fronteggiare gli Stati Uniti c’era l’Unione Sovietica, nei cui confronti gli USA attuarono “misure restrittive finalizzate a rallentare i disegni di potenza e sviluppo del settore tecnologico militare e industriale, in un confronto che vide l’intelligence il principale braccio operativo.”
L’anno della svolta per l’intelligence americana fu il 1947, con la nascita della CIA che, “per la prima volta nella storia mondiale, si configurava come terzo attore nella politica internazionale, accanto ai due tradizionali protagonisti, la diplomazia e le Forze Armate.” Prima di allora, lo spionaggio, appannaggio dei gabinetti diplomatici e, successivamente, degli Stati Maggiori delle Forze Armate, “si riduceva al tentativo dei vari corpi militari di carpirsi vicendevolmente i cosiddetti ordini di battaglia, ossia consistenza, dislocazione, organigrammi e piani strategici dell’avversario di turno.” Fu “l’assenza di un’organizzazione di spionaggio degna di questo nome negli Stati Uniti fino al 1941 una delle cause del proditorio attacco giapponese a Pearl Harbour.”
In Europa, “solamente il mondo anglosassone, basandosi sull’esperienza secolare britannica, poi travasata nell’ordinamento statunitense, si era dotato di una struttura intelligence adeguata alla realtà del secondo dopoguerra.[…] La gran parte dei Paesi europei […] non prevedeva nella propria architettura istituzionale una struttura intelligence di nuova concezione che si affiancasse a quelle tradizionali di spionaggio militare, sicurezza interna e polizia.” Pertanto, il travaso delle informazioni dall’intelligence statunitense e anglosassone ai sistemi di sicurezza dei Paesi europei avveniva tramite il metodo, che l’autore definisce, della mailbox, vale a dire la creazione di “reparti limitati nel numero, ma specializzati nella materia, che avrebbero trattato e avviato nel proprio Paese quelle indagini preventive, soprattutto di controspionaggio, che discendevano dal vertice della piramide informativa” e che “costituivano all’interno del sistema globale alleato una sorta di grande casella postale dove l’intelligence anglosassone “imbucava” l’informazione che riteneva più utile o appropriata. Della genesi di quella informazione, o del retroterra di intelligence da cui proveniva, il destinatario sapeva poco o nulla.”
Quindi, in quel periodo, “mentre le intelligence del sistema anglosassone e comunista si sfidavano in un gioco di attacchi e contrattacchi, all’Europa spettava il tranquillo e remunerativo ruolo di eseguire il modesto compito richiestole.” Ed è forse a quei quarant’anni vissuti sotto l’ombrello militare e informativo anglosassone, che si deve “l’accusa di incapacità politica che ai nostri giorni viene mossa all’Europa, e il suo impaccio a muoversi nello scenario internazionale.”
Per quanto riguarda l’Italia, il sistema di sicurezza nazionale, nel dopoguerra, non ebbe alcun rinnovamento sostanziale, ma mantenne una linea di continuità con il passato, fatto che gli fece avere un profilo di secondo livello, che “non avrebbe mai potuto svelare organizzazioni, macchinazioni e complotti che trascendevano le sue capacità investigative.” Il prezzò pagato, per questa “incapacità del sistema di intelligence nazionale di individuare e prevenire minacce alla propria sicurezza,” fu quello di omicidi eccellenti, come quello del presidente dell’ENI Enrico Mattei, delle stragi di Milano, di Bologna, dell’Italicus e delle stagioni terroristiche di stampo politico – mafioso.
La seconda parte del libro è dedicata al periodo che va dal 1989 al 2009, quello unipolare di egemonia americana, che viene definito, dall’autore, del liberismo interventista.
Con il crollo del muro di Berlino nel 1989 e il conseguente collasso del sistema sovietico, accadde che “in un sistema di sicurezza occidentale dominato dal mailbox system, l’intera Europa assisteva esterrefatta alla dissoluzione delle frontiere, aspettando invano che gli USA divulgassero le caratteristiche del nuovo nemico da affrontare. E così, paradossalmente, si determinarono situazioni anomale, in cui le strutture di controspionaggio continuavano, per inerzia, a seguire e controllare gli antichi avversari che, nel frattempo, stabilivano contatti e collaboravano con altre strutture di quegli stessi servizi.”
In quel periodo l’intelligence fu impegnata a impedire che armi e tecnologie nucleari, biologiche e chimiche, visto lo stato di abbandono nel quale versavano importanti centri di ricerca scientifica nell’URSS, finissero in mano a malintenzionati. “Esauritisi i confronti bipolari e le contrapposizioni tradizionali tra Stati, ai servizi segreti veniva chiesto di riadattarsi e di sostenere il nuovo ordine mondiale basato sulla pretesa salvaguardia e diffusione dei diritti umani fondamentali e sul rifiuto di ogni forma di prevaricazione. La minaccia era quindi rappresentata da Stati canaglia”, vale a dire l’Iraq, la Libia, la Siria, l’Iran e la Corea del Nord. I servizi di intelligence, pertanto, dovettero principalmente individuare lo stato di avanzamento dei programmi di proliferazione delle armi di distruzione di massa di questi stati.
In Italia, grazie all’ammiraglio Fulvio Martini, che diresse il SISMI dal 1984 al 1991, ci fu una riforma interna dell’intelligence, che gli permise di uscire dal sistema della mailbox, permettendogli di giocare un ruolo da protagonista ampiamente riconosciuto dalla comunità intelligence internazionale. Mancò, però, a quel tempo, “un ente sovraordinato di raccordo tra politica e intelligence (come è oggi il DIS), in grado di esprimere valutazioni di ordine strategico, anche utilizzando informazioni operative.”
Negli Stati Uniti, l’attentato dell’11 settembre 2001, fu visto come una straordinaria sconfitta dell’intelligence, arrivando, quindi, come conseguenza, a una militarizzazione della CIA, fatto che “sembrò decretare la fine dell’idea, nata nel 1947, di affiancare ai due attori tradizionali della politica estera, diplomazia e Forze Armate, l’Intelligence, un terzo incomodo francamente mai sopportato.” Dopo aver raggiunto “la consapevolezza dell’impossibilità di governare gli eventi del mondo” ed aver constatato i fallimenti dei passati interventi diretti, si arrivò, nel 2010, a ridefinire le priorità strategiche degli Stati Uniti e il nuovo approccio della politica americana rispetto ai problemi internazionali, con la conseguenza che venne “assolutamente meno l’idea che fosse compito esclusivo degli USA gestire direttamente le risoluzione di tutte le crisi in qualsiasi parte del mondo.”
Il nuovo corso degli Stati Uniti venne inaugurato dal presidente Obama, con il discorso del 9 giugno 2009, all’università al-Azhar del Cairo, dove esordì dicendo: “Sono qui per cercare d’inaugurare una nuova epoca nei rapporti tra Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, fermo nella convinzione che gli interessi che ci uniscono in quanto esseri umani siano molto più potenti delle forze che ci dividono.” Parole, insieme al resto del discorso, che secondo alcuni hanno “rappresentato il precedente diretto ed immediato di tutti i sommovimenti politici che si susseguirono da allora, passati sotto il nome di Primavera araba.”
La terza parte del libro è dedicata al mondo apolare – termine impiegato per definire l’imprevedibile scenario dei giorni nostri – dove, grazie “ai progressi nel settore di trasporti e delle comunicazioni (per non parlare della rivoluzione informatica e digitale) si è assistito a un radicale mutamento della natura delle minacce” e dove la vera sfida “è tenere il passo con nemici che sono sempre alla ricerca di sistemi inediti per piegare a proprio vantaggio il funzionamento di nuovi processi e tecnologie.” Gli apparati statali, per contrastare un’intelligence caratterizzata da una tecnologia caratterizzata da continui progressi, saranno costretti ad investimenti onerosi per dotarsi di equipaggiamenti sempre più all’avanguardia, “sia se si intende condurre incisive azioni offensive, sia se si vogliono contrastare efficacemente le minacce provenienti dall’esterno.” In Europa, però, “appare ancora remota la possibilità di una collaborazione operativa tra i Paesi membri dal punto di vista dell’intelligence, ente preposto esclusivamente all’interesse nazionale e braccio “armato” dell’esecutivo di ogni singolo paese.”
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