Perché esportare equipaggiamenti per la difesa
di Michele Nones – Istituto Affari Internazionali
Negli ultimi mesi una parte dei mezzi di informazione sono tornati ad occuparsi delle esportazioni italiane di equipaggiamenti per la difesa. Era auspicabile che, superando i limiti dei dibattiti ciclicamente avvenuti negli scorsi decenni, si fosse colta l’occasione per una seria riflessione sul perché anche l’Italia esporta prodotti militari e
sul quanto e dove esportiamo e, infine, sul chi decide la nostra politica esportativa militare. Purtroppo la tentazione di farne una campagna ideologica sembra aver avuto anche questa volta il sopravvento.
Eppure il quadro di riferimento è sotto gli occhi di tutti: le aree di instabilità continuano ad essere molte e persistenti, si acuisce il confronto fra potenze vecchie e nuove, mondiali e continentali o regionali, Covid e crisi economica stanno modificando i rapporti di forza a livello economico, politico e industriale, la rivoluzione
industriale 4.0 si sta estendendo trascinandosi dietro le minacce cyber alla sicurezza e alla difesa.
In campo militare, oltre alla crescita della quarta dimensione, lo spazio, se né aggiunta un’altra molto particolare, quella cibernetica, che ha una sua autonomia ma è anche trasversale alle altre quattro.
La pandemia ha, inoltre, evidenziato quanto sia ancora forte la tentazione di ogni Paese di salvaguardare i suoi interessi nazionali anche venendo meno ad impegni al coordinamento e alle azioni comuni assunti nel quadro delle alleanze e degli accordi politici e istituzionali.
Ma la pandemia ha anche evidenziato quanto sia utile poter contare su Forze Armate efficienti in grado di far fronte ad una complessa emergenza che richiede un alto grado di efficacia operativa e grandi capacità logistiche che costituiscono il Dna dello strumento militare.
Le ragioni economiche e politiche
Per assolvere i loro compiti principali, difendere il Paese e i suoi interessi, le Forze Armate devono essere adeguatamente equipaggiate. Nel mondo moderno le due soluzioni estreme di questo problema sono rappresentate dall’investire nella difesa quote rilevanti della ricchezza nazionale (sacrificando altre spese pubbliche) o
dall’acquistare all’estero quanto necessario con gravi rischi per la propria indipendenza e con l’accettazione di un’insanabile contraddizione: acquisto armamenti per tutelare la mia indipendenza, ma, in questo modo, sancisco la mia mancanza di indipendenza.
Nel mezzo vi è un’unica strada: sviluppare una propria capacità tecnologica e industriale e, quando possibile o necessario, realizzare programmi di cooperazione con Paesi amici ed alleati creando un meccanismo di interdipendenza che tuteli anche la propria autonomia nazionale.
Ed è la strategia fin qui messa in atto da tutti i principali Paesi europei. Il loro passo successivo dovrebbe essere quello di marciare spediti sulla strada della specializzazione riconoscendosi reciprocamente le aree di eccellenza tecnologica e industriale in modo da consentirne il rafforzamento nel quadro di una ancora maggiore interdipendenza. In tutti i casi, però, si deve assicurare un mercato sufficiente per sostenere i crescenti investimenti richiesti dai moderni sistemi d’arma e per mantenere nel tempo le capacità di supporto logistico, adeguamento tecnologico e, alla fine, sostituzione con mezzi più avanzati.
Se si confronta la spesa militare americana (che rappresenta l’inevitabile punto di riferimento), con quella europea (o, meglio, con la somma di quelle europee), i numeri parlano da soli: tre volte più grande quella per gli acquisti di nuovi prodotti, sette volte più grande quella per la ricerca e tecnologia.
Ciononostante gli Stati Uniti sono stati nel quinquennio 2016-20 il primo esportatore al mondo con il 37% del mercato perché solo così riescono a ridurre il costo unitario dei loro equipaggiamenti e contrastare l’andamento ciclico delle commesse nazionali, assicurando così anche la continuità del supporto logistico
dei mezzi in servizio. Tutto questo vale evidentemente ancora di più per i Paesi europei sia con i loro programmi nazionali, sia con quelli in cooperazione.
La ragione principale per cui anche l’Italia deve esportare è, quindi, economica: produrre poche decine di moderni equipaggiamenti e poi mantenerli in servizio, avrebbe un costo astronomico che sicuramente i cittadini non vorrebbero pagare. Ma vi sono anche altre importanti motivazioni: l’industria dell’aerospazio, sicurezza
e difesa di un Paese moderno è uno dei motori dello sviluppo tecnologico perché impone il raggiungimento di prestazioni elevatissime in un ambiente “ostile” e, grazie alla trasversalità delle tecnologie, assicura un contributo importante a tutto il sistema-Paese.
L’aiutare altri Paesi a tutelare la loro sicurezza e difesa contribuisce a rafforzare i nostri legami internazionali a beneficio della nostra politica estera e dell’economia.
Il ruolo italiano
Contrariamente a quanto alcuni stanno sostenendo, l’Italia non è un grande Paese esportatore, collocandosi al decimo posto nelle classifiche internazionali, superata da Spagna, Israele e Corea del Sud. Se avessimo un peso proporzionato al nostro peso economico dovremmo, invece, essere al settimo.
Nell’ultimo quinquennio le nostre esportazioni sono andate per il 50% a sette dei primi dieci Paesi acquirenti a livello internazionale: Arabia Saudita, Egitto, Australia, Algeria, Qatar, Emirati Arabi, Pakistan
(https://armstrade.sipri.org/armstrade/html/export_values.php) (escludendo India, Cina, Corea del Sud). Questi dieci Paesi hanno assorbito da soli il 55% del mercato e ne rappresentano, quindi, l’asse portante.
Le nostre esportazioni hanno riguardato per il 47% i velivoli (in primo luogo elicotteri e addestratori), per il 26% le navi e per il 9% i sensori.
La politica esportativa
Le esportazioni sono ovviamente condizionate dalla domanda. Su questa base si inseriscono le scelte politiche che definiscono la politica esportativa di equipaggiamenti militari in modo che risulti allineata con la politica internazionale del Paese e, anzi, dovrebbe costituirne una specifica articolazione. La sua migliore
espressione è offerta dagli accordi GtoG-Government to Government con cui è lo Stato a fornire direttamente i mezzi richiesti nel quadro di una collaborazione strategica (terreno sul quale il nostro Paese continua a segnare un forte ritardo nella messa a punto di un efficace sistema sul piano procedurale e organizzativo).
La sua definizione dovrebbe, quindi, coinvolgere il Governo. Purtroppo appena tre anni dopo l’approvazione della legge 185/90 sul controllo delle esportazioni, nel quadro di una generale semplificazione delle attività interministeriali è stato cancellato (nel silenzio generale) uno dei suoi tasselli fondamentali, il Cisd-Comitato
interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa, e le suecompetenze sono state poi attribuite al solo ministero degli Affari esteri.
Una volta tanto che l’Italia si era portata avanti riconoscendo il carattere interministeriale della politica esportativa, si è subito fatto un passo indietro, relegandola alla responsabilità di un solo dicastero. Di qui la necessità di porvi rimedio, cominciando con l’instaurare la prassi di specifiche e regolari riunioni dei ministri competenti
per arrivare, appena possibile, a formalizzare la costituzione di un nuovo specifico Comitato interministeriale.
Questa soluzione consentirebbe di esaminare le linee generali della politica esportativa e i casi più delicati, come quelli venuti recentemente alla ribalta. Si garantirebbe così che vengano considerati tutti gli aspetti e le implicazioni e tutelati gli interessi nazionali, evitando di scaricare sui dirigenti ministeriali una responsabilità che
è e deve, invece, rimanere politica.
Queste decisioni andrebbero, inoltre, gestite assicurando la necessaria riservatezza perché si può scegliere di non esportare un determinato prodotto ad un determinato Paese, ma questo non deve coinvolgere necessariamente i nostri rapporti bilaterali, come sta purtroppo avvenendo in questi mesi.