Pescatori prigionieri a Bengasi: l’Italia umiliata da Haftar
La vicenda dei 18 membri degli equipaggi dei motopescherecci “Antartide” e “Medinea” di Mazara del Vallo fermati dalle milizie del generale Khalifa Haftar e da oltre un mese prigionieri nel porto libico di Bengasi simboleggia purtroppo in modo eclatante quale peso, influenza e deterrenza sia oggi in grado di esprimere Roma persino nel “cortile di casa” del Mediterraneo
La vicenda si presta a diverse valutazioni e se da un lato non c’è dubbio che Farnesina ed intelligence stiano cercando di riportare a casa i nostri connazionali, è altrettanto indubbio che un tale sequestro ridicolizza l’Italia proprio nella sua ex colonia.
Del resto è molto probabile che Haftar, non nuovo ad attacchi e provocazioni nei confronti dell’Italia, punti proprio a umiliare il nostro governo per le molteplici gaffe compiute nella maldestra gestione della crisi libica.
Non sfugge che il sequestro dei due pescherecci è avvenuto poche ore dopo che il ministro degli esteri, Luigi Di Maio, si era recato a Tripoli e poi a Tobruk per incontrare i leader delle “due libie”.
Di solito in Cirenaica incontrava il generale Haftar ma nel suo ultimo viaggio è andato a colloquio con il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, considerato “l’uomo nuovo” della Cirenaica, l’interlocutore a cui rivolgersi dopo che la stella di Haftar è tramontata in seguito alla mancata vittoria della battaglia di Tripoli.
Il feldmaresciallo della Cirenaica sarà forse in declino ma evidentemente non quanto basta per poterlo ignorare, tenuto conto che Roma ha chiesto di esercitare pressioni per la liberazione dei 18 marittimi ai migliori alleati del generale: Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti.
Difficile dire se il fallimento (finora) di queste pressioni siano motivate dalla ferma volontà di Haftar di umiliare Di Maio e l’Italia o dal fatto che alcuni Stati che hanno influenza in Libia in fondo vedano con malcelata soddisfazione il crollo della credibilità e del prestigio dell’Italia nella sua ex “quarta sponda”.
Basti ricordare che durante gli scontri intorno a Tripoli nel novembre scorso la contraerea di Haftar abbatté per errore due droni MQ9 Reaper credendoli velivoli turchi in appoggio alle forze di Tripoli: uno italiano e uno statunitense che sorvolavano il campo di battaglia.
Il relitto del velivolo americano venne restituito con tante scuse al Pentagono, quello del Reaper italiano venne invece mostrato come un trofeo e Haftar chiese con tono minaccioso spiegazioni a Roma, accusata di sostenere Tripoli, circa la presenza di quel drone.
Eppure l’Italia ha trasportato all’ospedale militare romano del Celio, curato e rimpatriato, decine di soldati di Haftar rimasti feriti negli scontri di Bengasi contro le milizie jihadiste.
Altri elementi inducono oggi a credere che Haftar intenda umiliare l’Itala. I pescherecci sono stati fermati nel Golfo della Sirte, acque internazionali sulle quali però la Libia rivendica arbitrariamente fin dai tempi di Gheddafi la propria sovranità fino a ben 72 miglia dalla costa. (nella mappa sotto).
Non è la prima volta che accadono fatti simili ma questa volta gli equipaggi non sono stati ancora incriminati ed è balenata l’ipotesi che per rilasciarli Haftar pretenda la liberazione di “quattro calciatori libici”, in realtà reclusi in Italia con una condanna per traffico di esseri umani e tortura.
Per ottenerla gli uomini di Haftar avrebbero addirittura annunciato di aver trovato droga a bordo dei pescherecci italiani, escamotage forse teso ad alzare la pena che potrebbe venire affibbiata ai marittimi facilitando così lo scambio, al momento definito del tutto inaccettabile da Roma.
Di fronte a queste umilianti provocazioni il governo italiano sembra aver rinunciato a mettere in campo “tutte le opzioni”, termine con cui solitamente non si esclude il ricorso ad azioni militari per liberare gli ostaggi e punire con una dura rappresaglia gli autori del sequestro.
Abbiamo forze speciali tra le migliori al mondo certo in grado di effettuare un blitz teso a liberare gli ostaggi (probabilmente divisi in tre siti diversi proprio per ridurre simili rischi) ma questa opzione nessun governo italiano l’ha mai esercitata.
Abbiamo le forze aeree e navali più moderne e potenti del Mediterraneo e forse qualche sorvolo a bassa quota del quartier generale di Haftar e l’invio di un possente gruppo navale al limite delle acque territoriali di fronte a Bengasi potrebbero indurre il feldmaresciallo della Cirenaica a mostrare maggior rispetto nei confronti degli italiani.
Oppure potrebbero convincere gli alleati di Haftar che l’Italia fa sul serio inducendo il generale a liberare gli ostaggi. Del resto in questa delicata fase di ridefinizione degli equilibri finanziari ed energetici tra le “due libie”, nessuno avverte il bisogno di una grave crisi diplomatica e militare tra l’Italia e la Cirenaica.
In questo contesto, mostrare con decisione i muscoli potrebbe rappresentare il modio migliore per ottenere risultati senza peraltro doverli usare.
La lunga prigionia dei marittimi italiani mette in difficoltà Roma anche sotto l’aspetto per così dire “imprenditoriale”: il governo italiano ha inviato recentemente una fregata lanciamissili nel Golfo di Guinea per proteggere dai pirati le piattaforme off-shore dell’ENI e tra il 2016 e il 2019 ha schierato un battaglione con 500 fanti per proteggere il cantiere della ditta Trevi incaricata di ristrutturare la Diga di Mosul.
Non è piacevole constatare che lo Stato trova truppe e navi lanciamissili per proteggere le attività di grandi aziende pubbliche e private ma non quelle di piccoli imprenditori quali sono i pescatori di Mazara del Vallo.
Inoltre lasciare gli ostaggi così a lungo in mano ai sequestratori rafforzerà ulteriormente tra i criminali e i miliziani di mezzo mondo la già radicata e motivata convinzione che colpire o rapire gli italiani non comporti prezzi da pagare.
Certo resta il fatto che nell’ultimo anno l’Italia si è bruciata tutte le carte sui due fronti libici. Appena insediatosi alla Farnesina il ministro Di Maio ha compiuto il primo viaggio in Nord Africa visitando il Marocco, non la Libia. A Tripoli non l’hanno presa bene e hanno avuto un’ulteriore conferma che se volevano un aiuto contro l’offensiva di Haftar era meglio rivolgersi alla Turchia.
Nulla avrebbe vietato a Di Maio una sosta a Tripoli prima di raggiungere Rabat così come non avrebbe guastato, a inizio settembre, incontrare in Cirenaica sia Saleh che Haftar. Certo la politica estera italiana è inesistente ormai da molti anni anche se solo con l’attuale governo è diventata comica.
Difficile poi dimenticare che lo stesso ministro degli Esteri annunciò nel dicembre 2019 la nomina di un inviato speciale per la Libia del quale, a dieci mesi di distanza, non si sono più avute notizie. Un altro “dettaglio” sconosciuto ai più in Italia ma che a Tripoli e Tobruk non è sfuggito a nessuno.
E le cose possono anche peggiorare considerato che nell’incredibile farsa del processo di Catania contro l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini (accusato di sequestro di persona per aver bloccato per quattro giorni lo sbarco di immigrati clandestini dal pattugliatore Gregoretti della Guardia Costiera) verranno chiamati a testimoniare tra novembre e dicembre il premier Giuseppe Conte, i ministri Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese e gli ex ministri Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli.
Uno show che metterà ulteriormente alla berlina il governo mostrando al mondo un’Italia allo sbando, incapace di difendere la sicurezza dei confini e dei cittadini, per la gioia dei trafficanti e dei feldmarescialli ormai convinti di poterci colpire impunemente.
Foto: LNA, Ansa e Ministero degli Esteri