Pescatori prigionieri in Libia: comunque vada l’Italia ha perso
La vicenda dei 18 pescatori di Mazara del Vallo (8 dei quali di nazionalità italiana) prigionieri da inizio settembre delle milizie dell’Esercito nazionale libico (LNA) del generale Khalifa Haftar, si prolunga ormai da tre mesi in cui chiacchiere politiche inconcludenti e trattative segrete non sono riuscite a sbloccare la situazione.
Restano ancor oggi valide tutte le valutazioni che esprimemmo in proposito su Analisi Difesa il 5 ottobre scorso, ma uno spiraglio di soluzione l’ha fatta balenare in questi giorni il vicepresidente del governo di Tripoli, rivale di Haftar, che ha fornito qualche indicazione utile circa l’andamento dei negoziati sui quali il governo italiano non ha mai saputo esprimere nulla di concreto nascondendosi dietro alla necessità di mantenere la necessaria riservatezza.
“Lavoriamo assiduamente per la liberazione dei pescatori italiani. Anche oggi i miei collaboratori ne stavano parlando con gli ufficiali di Bengasi” ha detto, in un’intervista al Corriere della Sera, Ahmed Maitig, vicepresidente del Consiglio presidenziale del Governo di accordo nazionale (GNA) a Tripoli, aggiungendo che “credo la direzione sia quella dello scambio con i calciatori libici condannati al carcere in Italia”.
La liberazione dei “calciatori”, condannati da un tribunale italiano per traffico di esseri umani, è sempre stato il “riscatto” che Haftar ha chiesto per liberare i 18 uomini e i due pescherecci Antartide e Medinea, accusati anche di traffico di droga.
“Gli italiani sono attivissimi, lavorano a tempo pieno. Tra i nostri due Paesi esistono trattati per lo scambio di prigionieri. Credo sia questa la strada. Seguiremo le nostre legislazioni in merito. Spero nel successo il prima possibile. Ma non so quando di preciso” ha detto Maitig (nella foto sopra con il ministro degli Esteri turco) che senza dubbio per l’Italia è l’uomo giusto a cui rivolgersi dal momento che è il solo esponente del governo di Tripoli ad avere ottime relazioni con quello di Tobruk e con la famiglia di Haftar.
Protagonista indiscusso dei recenti negoziati per la stabilizzazione, Maitig concluse l’accordo, firmato a Soci (Russia) con uno dei figli di Haftar, che ha recentemente permesso la riapertura dei pozzi e dell’export petrolifero in tutta la Libia consentendo di dare ossigeno all’economia della ex colonia italiana.
Amico dell’Italia, Maitig è un moderato lontano dalle derive islamiste dei Fratelli Musulmani che stanno ostacolando il processo di pacificazione ed è un leader stimato a Mosca, a Washington, in Europa, nel mondo arabo ma anche ad Ankara: un uomo a cui guarda la comunità internazionale come futuro premier.
Ciò detto la vicenda dei pescatori prigionieri a Bengasi rappresenta dopo tre mesi una severa umiliazione per l’Italia, tagliata fuori come l’intera Europa dalla lista delle potenze che esprimono un’influenza sul processo di pace libico.
La loro liberazione in seguito a uno scambio con i quattro trafficanti-calciatori detenuti in Italia rappresenterebbe una soluzione utile a riportare finalmente a casa, dalle loro famiglie, i nostri connazionali ma costituirebbe allo stesso tempo uno smacco ulteriore per la già compromessa credibilità dell’Italia.
Haftar non rappresenta un movimento terroristico a cui pagare riscatti milionari per ottenere la consegna di cittadini italiani rapiti ma è il capo militare di forze armate che fanno capo al governo di Baida espresso dal parlamento di Tobruk, quest’ultimo riconosciuto dalle Nazioni Unite tanto quanto il GNA di Tripoli.
Negli anni scorsi Roma non lesinò pressioni sul governo di Kabul tese a far liberare alcuni capi talebani reclusi per ottenere il rilascio di un giornalista italiano, più recentemente alcuni ostaggi italiani e francesi in mano ai qaedisti nel Sahel sono stati liberati in cambio della scarcerazione di un buon numero di miliziani jihadisti. Scambi certo spiacevoli e criticati da molti ma ritenuti indispensabili avendo a che fare con terroristi e gruppi eversivi.
Il feldmaresciallo Haftar è invece a tutti gli effetti un esponente istituzionale: ha incontrato molte volte presidenti, premier e ministri anche italiani (nelle foto sotto) , ha firmato nel 2015 un accordo di cooperazione militare con la Russia (nella foto qui a lato) , ha la cittadinanza libica ma anche quella statunitense dopo aver vissuto per molti anni in Virginia, vicino al quartier generale della CIA, dopo aver abbandonato il regime di Gheddafi presso il quale era caduto in disgrazia.
Proprio per questo cedere al ricatto consegnando quattro criminali già condannati dalla nostra giustizia costituirebbe un pessimo segnale per il prestigio (residuo) di Roma e del suo governo che, ancora una volta, ha chiesto aiuto alla Ue senza ottenere nulla di concreto.
Fonti ben informate riferiscono che i quattro calciatori sarebbero i rampolli di importanti leader di tribù che sostengono Haftar: motivazione valida a mobilitare il generale per uno scambio di ostaggi che rinnova un modus operandi molto in voga anche in Europa nei secoli scorsi ma ancora diffuso e attuale nel mondo arabo.
Valutazioni che non possano però sottrarci dall’osservare che la liberazione di criminali condannati dalla giustizia italiana per uno scambio di ostaggi potrebbe costituire un precedente pericoloso. Quante organizzazioni jihadiste, terroristiche o criminali, internazionali o che pure abbondano entro i nostri confini nazionali, potrebbero domani trovare conveniente sequestrare liberi cittadini, giornalisti, funzionari dello Stato o lavoratori chiedendo di barattarli con ergastolani, boss in isolamento carcerario o persino rubagalline e criminali di mezza tacca la cui liberazione stia a cuore a parenti e compari.
Cedere al ricatto di Haftar significa potenzialmente doversi preparare anche ad accettarne di simili da Stati “canaglia”, leader tribali e “feldmarescialli” d’Africa trasformando in preda preziosa ogni italiano che per lavoro o altre ragioni entri o si avvicini ad alcuni Stati instabili o governati da despoti o farabutti.
Vale poi la pena sottolineare che in questi tre mesi il governo Conte non ha mai nemmeno provato ad “alzare l’asticella” dell’escalation schierando un gruppo navale con elicotteri e forze speciali di fronte al Bengasi. Non necessariamente per attuare blitz (che non appartengono alla cultura politica, da sempre “calabraghista” di un’Italia che peraltro schiera forze speciali tra le migliori del mondo), ma quanto meno per ricordare a tutti che per liberare i connazionali prigionieri “non si esclude nessuna opzione” e per ribadire la libertà di navigazione nel Golfo della Sirte, acque internazionali su cui la Libia arbitrariamente esercita la sua sovranità da oltre dieci anni.
Infine, la minaccia di un blitz militare italiano avrebbe forse indotto gli sponsor di Haftar a esercitare pressioni sul generale affinchè liberasse i pescatori, anche solo per evitare un’escalation militare pericolosa, specie ora che tutte le potenze che contano in Libia sono alle prese con un difficile processo di stabilizzazione.
Due o tre navi militari italiane al largo di Bengasi avrebbero espresso una reale deterrenza e preoccupato tutti i protagonisti della crisi libica (in fondo l’Italia è pur sempre la maggiore potenza militare e navale del Mediterraneo) rafforzando un’azione diplomatica da sola troppo fiacca, come si è visto a oggi, per ottenere il successo.
Il governo italiano ha infatti chiesto un aiuto agli Stati che sostengono Haftar ma finora i risultati sono stati nulli e la regione più facilmente comprensibile è che tutte le potenze che hanno un peso in Libia hanno tutto l’interesse a ridurre l’influenza di Roma, minata drammaticamente anche dalla vicenda dei pescatori.
Alla luce di queste valutazioni fa sorridere il dibattuto un po’ sterile sul mancato intervento del cacciatorpediniere Durand de la Penne (nella foto sotto) e del suo elicottero che avrebbe potuto tentare di mettere in fuga la piccola motovedetta libica che il 1° settembre ha sequestrato i due pescherecci e i loro equipaggi. Un intervento a fuoco con due pescatori già imbarcati sulla motovedetta avrebbe potuto determinare una risposta armata che avrebbe messo in pericolo l’incolumità degli equipaggi.
Del resto non ci si trovava di fronte a miliziani dell’Isis, qaedisti o talebani, ma a motovedette della Cirenaica che già in passato avevano fermato pescherecci italiani nel Golfo della Sirte e i sequestri si erano sempre rivolti con qualche giorno di blocco in porto, l’intervento della nostra diplomazia e il pagamento di una multa.
Precedenti che non avrebbero mai consigliato un intervento a fuoco specie se utilizzando solo l’elicottero a causa della distanza a cui si trovava il cacciatorpediniere. Non è difficile immaginare quali reazioni vi sarebbero state se l’azione dell’elicottero della Marina avesse determinato indirettamente la morte o il ferimento di alcuni pescatori.
L’aspetto sorprendente non è quindi che la Marina non sia riuscita a sventare il sequestro ma che il governo non l’abbia successivamente mobilitata per mostrar bandiera e muscoli al largo di Bengasi dove i pescatori sono reclusi.