Putin: 75 anni dopo, la responsabilità comune nei confronti della storia e del futuro
Pubblichiamo un lungo articolo del Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, resa nota in occasione del 75° anniversario della vittoria sovietica nella Grande Guerra Patriottica (la Seconda guerra mondiale), alle cui celebrazioni del 24 giugno si riferiscono le foto che illustrano l’articolo.
Si tratta di una dettagliata analisi delle cause che portarono alla guerra 1939-45, del ruolo della Russia e delle potenze occidentali e infine dell’eredità attuale di quella guerra: un testo che esprime certo la visione russa evidenziando certo più luci che ombre su quanto accadde all’epoca nell’URSS e che legge la Storia attualizzando alcuni concetti e contesti in un’ottica tesa a sostenere la visione e gli interessi russi.
Anche per queste ragioni, incluse le valutazioni finali circa la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ON e del diritto di veto, si tratta di un testo molto interessante che esprime valutazioni a cui sarebbe auspicabile che qualche leader in Occidente fosse in grado di replicare adeguatamente.
Sono trascorsi 75 anni dalla fine della Grande Guerra Patriottica. In questi anni sono cresciute alcune generazioni, è cambiata la carta politica del pianeta. Non esiste più l’Unione Sovietica che aveva ottenuto una vittoria grandiosa e schiacciante sul nazismo salvando tutto il mondo. In effetti gli eventi stessi di quella guerra sono oggi un lontano passato anche per coloro che vi hanno partecipato. Allora perché la Russia festeggia il 9 maggio come la ricorrenza più importante e il 22 giugno la vita letteralmente si ferma e compare un nodo in gola?
È consuetudine dire: la guerra ha lasciato una traccia profonda nella storia di ogni famiglia. Dietro a queste parole si celano le sorti di milioni di persone, le loro sofferenze e il dolore delle perdite. Orgoglio, verità e memoria.
Per i miei genitori la guerra è stato l’assedio di Leningrado con le sue terribili sofferenze, la morte di mio fratello Vitja a soli due anni e la tragedia di mia madre sopravvissuta per miracolo. Mio padre, seppur esentato, andò volontario a difendere la sua città natale, fece cioè quello che fecero milioni di cittadini sovietici. Combatté nella testa di ponte “Nevskiy pyatachok”, fu gravemente ferito.
E più lontani si fanno quegli anni, più forte si sente il desiderio di parlare coi genitori, di conoscere nei particolari il periodo bellico della loro vita. Purtroppo, fare domande non è più possibile ecco perché custodisco gelosamente nel mio cuore le conversazioni con mio padre e mia madre su questo argomento, le loro sobrie emozioni.
Per me e per i miei coetanei è importante che i nostri figli, nipoti, pronipoti capiscano quali prove e quali tormenti hanno sopportato i loro nonni. Come, perché sono riusciti a resistere e a vincere? Dove hanno preso quella forza di volontà veramente ferrea che ha stupito ed entusiasmato tutto il mondo?
È vero, difendevano la propria casa, i propri figli, i propri cari, la famiglia, ma erano tutti uniti dall’amore per la Patria, per la Madrepatria.
Questo profondo sentimento identitario si riflette in tutta la sua complessità nell’essenza stessa del nostro popolo ed è stato uno dei fattori determinanti dell’eroismo e del sacrificio della sua lotta contro il nazismo.
Ci si pone spesso la domanda: “come si comporterebbe la generazione attuale se si trovasse in una situazione altrettanto critica?” Ho davanti agli occhi le immagini di giovani medici, infermieri -alcuni di loro solo ieri erano ancora studenti- che oggi vanno nella “zona rossa” a salvare la gente. I nostri militari che nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale nel Caucaso settentrionale, in Siria hanno resistito fino alla morte, erano tutti ragazzi giovanissimi! Molti militari della leggendaria sesta compagnia d’assalto avevano 19-20 anni, ma tutti hanno dimostrato di essere all’altezza delle gesta dei combattenti che difesero la nostra Patria durante la Grande Guerra Patriottica.
Per questo sono certo che il senso del dovere, lo spirito di sacrificio, ove necessari, siano tratti precipui del carattere dei popoli della Russia. Il sacrificio di sé, il patriottismo, l’amore per la propria casa natale, la famiglia, la Patria – questi sono ancora oggi i valori fondamentali e sostanziali della società russa.
Proprio su questi valori poggia essenzialmente la sovranità del nostro paese.
Ora nel paese si stanno consolidando nuove tradizioni, originate dal popolo stesso, come quella del “Reggimento immortale”, cioè la marcia della nostra memoria riconoscente, del vivo legame di sangue tra le generazioni. Milioni di persone partecipano alle sfilate innalzando le fotografie dei propri cari che difesero la patria e sconfissero il nazismo. Ciò significa che le loro vite, le loro prove e i loro sacrifici, la vittoria che ci hanno consegnato non saranno mai dimenticati.
La nostra responsabilità di fronte al passato e al futuro è quella di fare di tutto per evitare il ripetersi di terribili tragedie. Per questo ho ritenuto mio dovere intervenire con un articolo sulla Seconda Guerra Mondiale e la Grande Guerra Patriottica.
Molte volte ho discusso questa idea nelle conversazioni con i leader mondiali, ho incontrato la loro comprensione.
Alla fine dell’anno scorso, al vertice dei leader della CSI eravamo tutti d’accordo: è importante trasmettere alle nuove generazioni il ricordo che la vittoria sul nazismo fu conquistata prima di tutto dal popolo sovietico, che quella eroica lotta è stata combattuta, al fronte e nelle retrovie, fianco a fianco dai rappresentanti di tutte le repubbliche dell’Unione Sovietica. In quell’occasione ho parlato coi colleghi anche del non facile periodo prebellico.
Questa conversazione ha suscitato grande risonanza in Europa e nel mondo. Quindi, affrontare le lezioni del passato è davvero indispensabile e attuale.
Ma al contempo ci sono state molte reazioni emotive, malcelati complessi e clamorose accuse. Una serie di politici, per abitudine, si è affrettata a dichiarare che la Russia stava tentando di riscrivere la storia. Nella sostanza, però, nessuno è riuscito a smentire neanche uno dei fatti e degli argomenti presentati. È chiaro che è difficile e addirittura impossibile mettere in discussione documenti originali conservati, nel vero senso del termine, negli archivi non solo russi, ma anche stranieri.
Ecco perché è imprescindibile proseguire nell’analisi delle cause che hanno portato alla guerra mondiale, riflettere sui complessi eventi, le tragedie e le vittorie che l’hanno caratterizzata e sulle lezioni che il nostro paese e tutto il mondo devono trarne. E anche in questo caso – lo ripeto – è fondamentale affidarsi solo a materiali d’archivio, a testimonianze di contemporanei, al fine di escludere speculazioni ideologiche e politicizzate.
Voglio ricordare ancora una volta un fatto assodato: le cause profonde della Seconda Guerra Mondiale scaturiscono in gran parte dalle decisioni adottate al termine della Prima Guerra mondiale. Il trattato di Versailles è stato per la Germania il simbolo di una profonda ingiustizia. Di fatto si è trattato della spoliazione del paese costretto a pagare agli alleati occidentali enormi risarcimenti che dissanguarono la sua economia. Il comandante in capo delle forze alleate, il maresciallo francese F. Foch dette una definizione profetica di Versailles: “Questa non è una pace, è una tregua di vent’anni.”
È stata proprio l’umiliazione nazionale a creare in Germania il terreno fertile per sentimenti radicali e revanscisti. I nazisti hanno giocato abilmente su questi sentimenti, hanno costruito la loro propaganda, promettendo di liberare la Germania dalla “eredità di Versailles”, di ripristinare la sua antica potenza e, di fatto, hanno spinto il popolo tedesco a una nuova guerra. È paradossale, ma sono stati proprio gli Stati occidentali, principalmente il Regno Unito e gli Stati Uniti, a favorire direttamente o indirettamente quegli eventi. I loro ambienti finanziari e industriali avevano fatto grossi investimenti nelle fabbriche e negli stabilimenti bellici della Germania. Inoltre, nell’aristocrazia e nell’establishment politico c’erano non pochi sostenitori dei movimenti nazionalisti radicali, di estrema destra, che si andavano consolidando sia in Germania che in Europa.
“L’ordine mondiale” di Versailles ha dato origine a numerose sommerse contraddizioni e a conflitti manifesti alla base dei quali c’erano i confini dei nuovi Stati europei, fissati arbitrariamente dai vincitori della Prima guerra mondiale. Appena questi comparvero sulle carte geografiche ebbero inizio le dispute territoriali e le reciproche rivendicazioni trasformatesi in una bomba ad orologeria.
Uno degli esiti della Prima Guerra mondiale è la costituzione della Società delle Nazioni. In questa organizzazione internazionale venivano riposte grandi speranze in merito alla salvaguardia a lungo termine della pace e della sicurezza collettiva. Fu un’idea molto progressista la consecutiva realizzazione della quale senza esagerare poteva prevenire gli orrori di una guerra globale.
Tuttavia, la Società delle Nazioni in cui le potenze vincitrici – Gran Bretagna e Francia – avevano un ruolo dominante, dimostrò la propria inefficacia e annegò in vuote disquisizioni. Né la Società delle Nazioni né in generale l’Europa ascoltarono i reiterati appelli dell’Unione Sovietica a costituire un sistema equo di sicurezza collettiva. In particolare, quello di stipulare il patto per l’Europa orientale e il patto per l’Oceano Pacifico che avrebbero potuto servire da argine all’aggressione. Quelle proposte furono ignorate.
La Società delle Nazioni non riuscì a prevenire i conflitti in diverse parti del mondo, tali come l’aggressione d’Italia contro l’Etiopia, la guerra civile in Spagna, l’aggressione del Giappone contro la Cina, l’annessione dell’Austria. Con il complotto di Monaco, al quale hanno partecipato, oltre a Hitler e Mussolini, anche i leader di Gran Bretagna e Francia, la Cecoslovacchia è stata smembrata con la piena approvazione del Consiglio della Società delle Nazioni. Faccio notare a questo proposito che a differenza di molti degli allora dirigenti Europei, Stalin non si macchiò dell’onta di un incontro privato con Hitler che negli ambienti occidentali era invece considerato un politico assolutamente rispettabile ed era ospite gradito nelle capitali europee.
Nella spartizione della Cecoslovacchia anche la Polonia svolse il suo ruolo insieme alla Germania. Entrambe avevano già deciso quali territori cecoslovacchi spartirsi. Il 20 settembre 1938 l’ambasciatore polacco in Germania, J. Lipski comunicò al ministro degli esteri della Polonia J. Beck queste assicurazioni ricevute da Hitler: “nel caso in cui la situazione tra Polonia e Cecoslovacchia degeneri in conflitto a causa degli interessi polacchi di Teschen, il Reich starà dalla nostra (polacca) parte.” Il capo dei nazisti dette persino delle indicazioni, consigliando che l’inizio delle azioni polacche “seguisse… solo dopo l’occupazione tedesca dei Sudeti”.
La Polonia era consapevole che, senza il sostegno di Hitler, i suoi piani di invasione sarebbero stati destinati al fallimento. Qui riporto il resoconto di una conversazione tra l’ambasciatore tedesco a Varsavia G.A.Moltke e J.Beck del 1° ottobre 1938 sulle relazioni tra Polonia e Repubblica Ceca e sulla posizione dell’URSS in materia. Ecco cosa diceva: “…G.A.Moltke … ha espresso profonda gratitudine per la leale interpretazione degli interessi polacchi alla Conferenza di Monaco, così come per la sincerità dei rapporti durante il conflitto ceco. Il governo e l’opinione pubblica [in Polonia] rendono pienamente merito alla posizione del Fuhrer e del Cancelliere del Reich”.
La spartizione della Cecoslovacchia è stata brutale e cinica. Monaco ha fatto crollare anche quelle fragili garanzie formali rimaste nel continente, dimostrando che gli accordi reciproci non avevano alcun valore. Proprio l’intesa di Monaco è stata la miccia, accesa la quale una grande guerra in Europa divenne inevitabile.
Oggi i politici europei, in primo luogo i dirigenti polacchi vorrebbero “tacere” su Monaco. Perché? Non solo perché i loro Paesi hanno tradito i loro impegni di allora, hanno appoggiato il complotto di Monaco e alcuni hanno addirittura partecipato alla spartizione del bottino, ma anche perché è in qualche modo seccante ricordare che in quei drammatici giorni del 1938 solo l’URSS ha difeso la Cecoslovacchia.
L’Unione Sovietica, sulla base dei suoi obblighi internazionali, compresi gli accordi con la Francia e la Cecoslovacchia, ha cercato di prevenire la tragedia.
Proprio la Polonia, perseguendo i propri interessi, ha ostacolato con ogni mezzo la creazione di un sistema di sicurezza collettiva in Europa. Il ministro degli Esteri polacco J. Beck il 19 settembre 1938 scrisse direttamente al già citato ambasciatore J. Lipski prima del suo incontro con Hitler: “… Durante l’ultimo anno il governo polacco ha respinto per quattro volte la proposta di unirsi all’intervento internazionale in difesa della Cecoslovacchia.
La Gran Bretagna, così come la Francia – all’epoca il principale alleato di cechi e slovacchi – preferirono rinunciare alle loro garanzie e gettare questo Paese dell’Europa dell’Est in pasto ai lupi. In ogni caso non era tanto questo l’obiettivo, quanto quello di convogliare verso est le mire dei nazisti, in modo che Germania e Unione Sovietica arrivassero allo scontro e inevitabilmente si dissanguassero a vicenda.
La politica occidentale di “pacificazione” era questa. E non solo in relazione al Terzo Reich, ma anche ad altri partecipanti al cosiddetto Patto Anti-Komintern: l’Italia fascista e il Giappone militarista. Tale politica raggiunse il suo culmine in Estremo Oriente con l’accordo anglo-giapponese dell’estate del 1939, che concesse a Tokyo libertà di manovra in Cina. Le principali potenze europee non volevano riconoscere il pericolo mortale per il mondo rappresentato dalla Germania e dai suoi alleati e contavano sul fatto che la guerra non li avrebbe coinvolti.
Il complotto di Monaco fece capire all’Unione Sovietica che i paesi occidentali avrebbero affrontato i problemi della sicurezza senza tenere in considerazione i suoi interessi e che, nel caso fosse loro conveniente, avrebbero potuto costituire un fronte antisovietico.
Al tempo stesso, l’Unione Sovietica tentò fino all’ultimo di sfruttare ogni occasione per creare una coalizione anti-hitleriana, ripeto, nonostante la posizione ambigua dei paesi occidentali. Dunque, attraverso i servizi segreti, la leadership sovietica ricevette informazioni dettagliate sui contatti segreti anglo-tedeschi nell’estate del 1939. Vorrei richiamare la vostra attenzione sul fatto che si trattò di contatti molto intensi, condotti quasi contemporaneamente ai colloqui trilaterali tra i rappresentanti di Francia, Gran Bretagna e URSS che, invece sono stati deliberatamente rallentati dai partner occidentali.
A questo proposito, citerò un documento degli archivi britannici – si tratta delle istruzioni per la missione militare britannica, arrivata a Mosca nell’agosto del 1939. In esse si afferma espressamente che la delegazione dovrebbe “negoziare molto lentamente”; che “il governo del Regno Unito non è disposto ad assumere impegni dettagliati che possano limitare la nostra libertà d’azione in qualsiasi circostanza”.
Devo anche sottolineare che, a differenza di inglesi e francesi, la delegazione sovietica era guidata dai vertici dell’Armata Rossa, che disponevano di tutti i poteri necessari “per firmare una convenzione militare sull’organizzazione della difesa militare di Inghilterra, Francia e URSS contro l’aggressione in Europa”.
Nel fallimento delle trattative ha svolto il suo ruolo anche la Polonia che non voleva alcun obbligo nei confronti della parte sovietica. Perfino sotto la pressione degli alleati occidentali, la leadership polacca si rifiutava di partecipare a operazioni congiunte con l’Armata Rossa contro la Wermacht. E solo quando si seppe dell’arrivo di Ribbentrop a Mosca, Y. Beck con riluttanza, non direttamente, e attraverso i diplomatici francesi notificò alla parte sovietica: “… Nel caso di un’azione comune contro l’aggressione tedesca, non è esclusa la cooperazione tra Polonia e Unione Sovietica, a condizioni tecniche che devono essere definite.” Allo stesso tempo, spiegò ai suoi colleghi: “… non sono contrario a questa formulazione solo per facilitare la tattica, e il nostro punto di vista di principio nei confronti dell’URSS è definitivo e rimane invariato.”
Nella situazione creatasi, l’Unione Sovietica firmò il Trattato di non aggressione con la Germania, e di fatto fu l’ultimo paese in Europa a farlo. All’orizzonte c’era il reale pericolo di affrontare una guerra su due fronti – a ovest con la Germania e a est con il Giappone, dove già si svolgevano intense battaglie sul fiume Khalkhin Gol.
Stalin e il suo entourage hanno meritato molte giuste accuse. Ricordiamo i crimini del regime contro il suo stesso popolo e gli orrori della repressione di massa. Ripeto, i leader sovietici possono essere biasimati per molte cose, ma non per aver sottovalutato la natura delle minacce esterne. Hanno visto il tentativo di isolare l’Unione Sovietica contro la Germania e i suoi alleati, e hanno agito, riconoscendo il reale pericolo, per guadagnare tempo prezioso e rafforzare la difesa del Paese.
Per quanto riguarda il Trattato di non aggressione allora concluso, la Russia moderna è oggetto di molte discussioni e accuse. Sì, la Russia è il successore dell’URSS, e il periodo sovietico con tutti i suoi trionfi e le sue tragedie è parte integrante della nostra storia millenaria. Ma ricordo anche che l’Unione Sovietica ha dato una valutazione giuridica e morale del cosiddetto Patto Molotov-Ribbentrop. Con il decreto del 24 dicembre 1989, il Soviet Supremo ha condannato ufficialmente i protocolli segreti come “atto di potere personale” che non rifletteva in alcun modo “la volontà del popolo sovietico, che non è dunque responsabile di questa cospirazione”.
Altri Stati invece preferiscono non menzionare affatto gli accordi firmati dai nazisti e dai politici occidentali. Per non parlare della valutazione giuridica o politica di tale cooperazione, o addirittura del tacito consenso di alcune personalità europee ai barbari piani dei nazisti, e in alcuni casi, del loro diretto incoraggiamento. Valga per tutti la cinica frase dell’ambasciatore polacco in Germania J. Lipski, pronunciata in una conversazione con Hitler il 20 settembre 1938: “…Per risolvere la questione ebraica, noi [i polacchi] gli innalzeremo… un bel monumento a Varsavia.”
Non sappiamo nemmeno se ci fossero “protocolli segreti” e allegati agli accordi di alcuni Paesi con i nazisti. Non resta che “credere sulla parola”. In particolare, non ci sono ancora materiali declassificati sulle trattative segrete anglo-tedesche. Pertanto, ci appelliamo a tutti gli Stati perché aprano al più presto i loro archivi e pubblichino i documenti mai resi pubblici risalenti al periodo bellico e a quello precedente, come ha fatto la Russia negli ultimi anni. Siamo disponibili a un’ampia collaborazione, a progetti di ricerca congiunti che vedano la partecipazione degli storici.
Ma torniamo agli eventi immediatamente precedenti alla Seconda Guerra Mondiale. Era un’ingenuità credere che, una volta fatti i conti con la Cecoslovacchia, Hitler avrebbe rinunciato a ulteriori rivendicazioni territoriali. Venne la volta del paese che era stato suo recente complice nel capitolo Cecoslovacchia: la Polonia. Anche in questo caso il pretesto fu offerto dall’eredità di Versailles: la sorte del cosiddetto corridoio di Danzica. La tragedia della Polonia che ne seguì è interamente sulla coscienza dell’allora leadership polacca, che impedì la conclusione dell’alleanza militare anglo-franco-sovietica e, confidando nell’aiuto dei partner occidentali, precipitò il proprio popolo sotto il rullo compressore della macchina di distruzione hitleriana.
L’offensiva tedesca si sviluppò in totale conformità con la dottrina della guerra lampo. Nonostante la feroce ed eroica resistenza dell’esercito polacco, una settimana dopo l’inizio della guerra, l’8 settembre 1939, le truppe tedesche erano giunte alla periferia di Varsavia. E il 17 settembre, i vertici militari e politici della Polonia fuggirono in Romania, tradendo il popolo che continuava a combattere gli invasori.
Gli alleati occidentali vennero meno alle aspettative polacche
Dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, le truppe francesi penetrarono solo di poche decine di chilometri in territorio tedesco. Sembrò una semplice azione dimostrativa. Inoltre, il Consiglio militare supremo anglo-francese, riunitosi per la prima volta il 12 settembre 1939, nella città francese di Abbeville, decise di interrompere del tutto l’offensiva a causa dei rapidi sviluppi della situazione in Polonia. Iniziò la famigerata ” strana guerra “. Nei fatti è stato un netto tradimento da parte di Francia e Inghilterra dei loro obblighi verso la Polonia.
In seguito, durante il processo di Norimberga, i generali tedeschi spiegarono così il loro rapido successo in Oriente, l’ex capo di stato maggiore della direzione operativa del Comando supremo delle forze armate tedesche, il generale A. Jodl ammise: “… Se non siamo stati sconfitti già nel 1939, è solo perché circa 110 divisioni francesi e inglesi, durante la nostra guerra con la Polonia, ferme a ovest contro 23 divisioni tedesche, sono rimaste completamente inattive”.
Ho chiesto di raccogliere dagli archivi tutto il materiale relativo ai contatti tra URSS e Germania nei drammatici giorni di agosto e settembre 1939. Secondo i documenti, il punto 2 del Protocollo segreto al Trattato di non aggressione tra la Germania e l’URSS del 23 agosto 1939, stabiliva che, nel caso di ristrutturazione politico-territoriale delle regioni facenti parte dello Stato polacco, il confine delle sfere di interesse dei due Paesi doveva “correre approssimativamente lungo i fiumi Narew, Vistola e San”. In altre parole, la sfera d’influenza sovietica comprendeva non solo territori con popolazioni prevalentemente ucraine e bielorusse, ma anche le storiche terre polacche tra i fiumi Bug e Vistola. Ancora oggi questo fatto è ignoto a molti.
Così come non molti sanno che, subito dopo l’attacco alla Polonia nei primi giorni di settembre del 1939, Berlino esortava continuamente e ripetutamente Mosca ad unirsi alle ostilità. Tuttavia, la leadership sovietica ignorò tali richiami e fino a quando fu possibile cercò di non farsi coinvolgere in eventi drammatici.
Solo quando fu definitivamente chiaro che la Gran Bretagna e la Francia non erano impazienti di aiutare il loro alleato, la Wermacht era in grado di occupare rapidamente tutta la Polonia e raggiungere di fatto le vie d’accesso a Minsk, fu deciso di introdurre le truppe dell’Armata Rossa la mattina del 17 settembre nelle cosiddette kresy orientali, che oggi fanno parte del territorio di Bielorussia, Ucraina e Lituania.
Ovviamente non c’era altra scelta. In caso contrario i rischi per l’URSS sarebbero aumentati esponenzialmente, perché, ancora una volta, il vecchio confine sovietico-polacco era a poche decine di chilometri da Minsk, e l’inevitabile guerra con i nazisti sarebbe iniziata per il paese da posizioni strategiche estremamente sfavorevoli. E milioni di persone di diverse nazionalità, tra cui gli ebrei che vivevano nei pressi di Brest e Grodno, Przemyśl, Leopoli e Vilna, sarebbero stati abbandonati nelle mani dei nazisti e dei loro scagnozzi locali- antisemiti e nazionalisti radicali.
Proprio il fatto che l’Unione Sovietica abbia tentato fino all’ultimo di evitare la partecipazione al conflitto e non abbia voluto giocare dalla parte della Germania ha determinato che il contatto reale tra le truppe sovietiche e tedesche sia avvenuto molto più a est di quanto previsto dal protocollo segreto. Non lungo la Vistola, ma approssimativamente lungo la cosiddetta linea Curzon, che già nel 1919 era stata raccomandata dall’Entente come confine orientale della Polonia.
Com’è evidente, è difficile usare il condizionale per eventi che si sono già verificati. Dirò solo che nel settembre del 1939 la leadership sovietica ebbe l’opportunità di spingere i confini occidentali dell’URSS ancora più a ovest, fino a Varsavia, ma decise di non farlo. I tedeschi proposero di fissare il nuovo status quo. Il 28 settembre 1939 a Mosca, I. Ribbentrop e V. Molotov firmarono il Trattato di amicizia e di confine tra l’URSS e la Germania, nonché un protocollo segreto sulle modifiche del confine di Stato, che riconosceva la linea di demarcazione, dove di fatto si trovavano i due eserciti.
Nell’autunno del 1939, attuando i suoi obiettivi militari strategici e difensivi, l’Unione Sovietica iniziò il processo di incorporazione di Lettonia, Lituania ed Estonia. Il loro ingresso in Unione Sovietica è stato realizzato su base contrattuale, con il consenso delle autorità elette. In conformità con le norme del diritto internazionale e statale dell’epoca. Inoltre, nell’ottobre 1939 la città di Vilna e la regione circostante, che erano entrate a far parte della Polonia, furono restituite alla Lituania. Le repubbliche baltiche all’interno dell’URSS mantennero i loro organi di potere, la loro lingua e la loro rappresentanza nelle strutture statali superiori sovietiche.
In tutti quei mesi, la lotta diplomatica e politico-militare e il lavoro dell’intelligence, invisibili dall’esterno, non si erano mai fermati. Mosca era consapevole di avere davanti un nemico irriducibile e crudele, sapeva che una guerra sotterranea con il nazismo era già in corso. E non c’è motivo di prendere dichiarazioni ufficiali, note protocollari formali di quegli anni come prova della “amicizia” tra l’URSS e la Germania. L’URSS aveva contatti commerciali e tecnici intensi non solo con la Germania, ma anche con altri paesi. Detto questo, Hitler cercò più volte di attirare l’URSS nella contrapposizione con la Gran Bretagna, ma la leadership sovietica non cedette a tali manovre.
Hitler fece il suo ultimo tentativo di indurre l’Unione Sovietica a intraprendere un’azione congiunta durante la visita di Molotov a Berlino nel novembre 1940. Ma Molotov seguì fedelmente le istruzioni di Stalin, limitandosi a parlare in generale dell’idea dei tedeschi di far aderire l’Unione Sovietica al Patto tripartito – l’alleanza tra Germania, Italia e Giappone – firmato nel settembre 1940 e mirato contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.
Non è un caso che già il 17 novembre Molotov abbia dato le seguenti istruzioni all’inviato sovietico I. Maysky, che si trovava a Londra, “Per Sua informazione … Nessun accordo è stato firmato a Berlino né era previsto farlo. La faccenda di Berlino si è limitata a … uno scambio di opinioni … Tedeschi e giapponesi, come è evidente, volevano davvero spingerci verso il Golfo Persico e l’India. Abbiamo rifiutato la discussione di questo argomento perché riteniamo che tali consigli della Germania siano inappropriati”. E il 25 novembre la leadership sovietica mise un punto: propose ufficialmente a Berlino condizioni inaccettabili per i nazisti, tra cui il ritiro delle truppe tedesche dalla Finlandia, il trattato di mutua assistenza tra l’Unione Sovietica e la Bulgaria e molto altro, escludendo così deliberatamente ogni possibilità di adesione al Patto.
Questa posizione ha definitivamente rafforzato il Führer nella sua intenzione di lanciare una guerra contro l’URSS. Già nel dicembre 1939, ignorati tutti gli avvertimenti dei suoi strateghi sul rischio catastrofico della guerra su due fronti, Hitler approvò il piano “Barbarossa”. Lo fece sapendo che era l’Unione Sovietica, la principale forza che gli si opponeva in Europa, e che l’imminente scontro a est avrebbe deciso le sorti della guerra mondiale. Ed era sicuro che la campagna militare su Mosca sarebbe stata di breve durata e vittoriosa.
Quello che vorrei sottolineare è che i Paesi occidentali in realtà erano allora d’accordo con le azioni sovietiche, riconoscevano l’ambizione dell’Unione Sovietica di garantire la propria sicurezza. Così, già il 1° ottobre 1939 l’allora capo dell’ammiragliato britannico W. Churchill in un discorso alla radio disse: “La Russia persegue una fredda politica di tutela dei propri interessi … Per proteggere la Russia dalla minaccia nazista, era chiaramente necessario che gli eserciti russi si mettessero su questa linea [del nuovo confine occidentale]”. Il 4 ottobre 1939, alla Camera dei Lord, il ministro degli Esteri britannico E. Halifax dichiarò:
“…Va ricordato che l’azione del governo sovietico è consistita nello spostare il confine essenzialmente sulla linea raccomandata alla Conferenza di Versailles da Lord Curzon … Mi limito a citare fatti storici e credo che siano incontestabili”. Il famoso politico e statista britannico D. Lloyd George sottolineò: “Gli eserciti russi hanno invaso territori che non sono polacchi e che sono stati occupati con la forza dalla Polonia dopo la prima guerra mondiale … Sarebbe un atto di follia criminale mettere l’avanzata russa sullo stesso piano dell’avanzata tedesca”. E nelle conversazioni informali con l’inviato sovietico I. Maysky, politici e diplomatici inglesi di alto profilo si esprimevano con maggiore franchezza.
Il 17 ottobre 1939 il viceministro degli Affari Esteri della Gran Bretagna R.Butler ebbe a dire: “Gli ambienti governativi britannici credono che non ci siano dubbi sulla riunificazione dell’Ucraina occidentale e della Bielorussia alla Polonia. Se fosse possibile creare una Polonia etnica di modeste dimensioni con la garanzia non solo dell’URSS e della Germania, ma anche dell’Inghilterra e della Francia, il governo britannico si riterrebbe assolutamente soddisfatto”.
Il 27 ottobre 1939 il consigliere capo di N.Chamberlain, G.Wilson disse: “La Polonia dovrebbe… essere ristrutturata come Stato indipendente su base etnografica, ma senza l’Ucraina occidentale e la Bielorussia”.
Va notato che queste conversazioni servivano anche a sondare il terreno per il miglioramento delle relazioni sovietico-britanniche. Tali contatti hanno posto in molti modi le basi della futura alleanza e della coalizione anti-hitleriana. Tra i politici responsabili lungimiranti c’era W. Churchill, che, nonostante la sua nota antipatia verso l’URSS, si era già precedentemente espresso a favore della cooperazione con il paese.
Già nel maggio 1939, alla Camera dei Comuni, aveva detto: “Saremo in pericolo mortale se non riusciremo a creare una grande alleanza contro l’aggressione. Sarebbe la più grande follia rifiutare la cooperazione naturale con la Russia sovietica”. E dopo lo scoppio delle ostilità in Europa – in un incontro con I. Maysky il 6 ottobre 1939 – disse in confidenza: “…Non ci sono gravi contraddizioni tra la Gran Bretagna e l’URSS, e quindi non c’è motivo per relazioni tese e insoddisfacenti. Il governo britannico… vorrebbe sviluppare… relazioni commerciali. Sarebbe anche disposto a discutere qualsiasi altra misura che possa favorire il miglioramento delle relazioni.”
La Seconda guerra mondiale non è scoppiata in un attimo, non è iniziata inaspettatamente, d’improvviso. Così come l’aggressione tedesca alla Polonia non è stata inattesa. La guerra è il risultato di molte tendenze e di molti fattori della politica mondiale dell’epoca. Tutti gli eventi prebellici si sono congiunti in un’unica fatale catena. Ma senza dubbio il fattore principale, quello che ha determinato la più grande tragedia della storia dell’umanità è l’egoismo dello Stato, la vigliaccheria, l’indulgenza verso l’aggressore sempre più forte e la riluttanza delle élite politiche a trovare un compromesso.
Pertanto, è sleale dire che la visita di due giorni del ministro degli Esteri nazista Ribbentrop a Mosca sia il motivo principale che ha portato alla Seconda guerra mondiale. Tutti i paesi leader, in varia misura, sono responsabili dello scoppio della guerra. Tutti hanno commesso errori irreparabili, credendo con arroganza di poter essere più furbi degli altri, assicurarsi vantaggi unilaterali o stare lontani dall’imminente disastro mondiale. E questa miopia, il rifiuto di creare un sistema di sicurezza collettiva, sono costati milioni di vite umane e perdite colossali.
Scrivo queste parole senza la minima intenzione di assumere il ruolo di giudice, di accusare o giustificare qualcuno o, figuriamoci, di avviare un nuovo ciclo di confronto mediatico internazionale in campo storico, che possa portare Stati e popoli a scontrarsi tra di loro. Credo che la ricerca di valutazioni equilibrate degli eventi passati dovrebbe essere condotta dalla scienza accademica con un’ampia rappresentanza di autorevoli studiosi di diversi paesi. Tutti abbiamo bisogno di verità e di obiettività. Da parte mia, ho sempre esortato e sollecitato i miei colleghi ad impegnarsi in un dialogo calmo, aperto e fiducioso, ad assumere una visione autocritica e imparziale del passato comune. Un tale approccio permetterà di non ripetere gli errori commessi allora e di garantire uno sviluppo pacifico e prospero per molti anni a venire.
Tuttavia, molti dei nostri partner non sono ancora pronti a lavorare insieme. Al contrario, perseguendo i propri obiettivi, incrementano il numero e la portata degli attacchi mediatici contro il nostro Paese, vogliono costringerci a scusarci, provare sensi di colpa, ingoiare ipocrite dichiarazioni politicizzate. Ad esempio, la risoluzione “sull’importanza di preservare la memoria storica per il futuro dell’Europa” approvata dal Parlamento europeo il 19 settembre 2019, accusa esplicitamente l’URSS – insieme alla Germania nazista – di aver scatenato la Seconda guerra mondiale. Naturalmente non si accenna neanche a Monaco.
Credo che tali “carte” – non posso definire documento questa risoluzione – con tutta l’ovvia aspettativa di uno scandalo, siano foriere di pericolose, reali minacce. Dopo tutto, è stata adottata da un organismo molto stimato. E cosa ha dimostrato? Per quanto sia triste – di aver scelto una politica che consapevolmente distrugge l’ordine mondiale del dopoguerra, la cui creazione è stata una questione d’onore e di responsabilità di paesi, alcuni dei quali hanno votato oggi questa dichiarazione menzognera.
E così, hanno alzato la mano sulle sentenze del Tribunale di Norimberga, sugli sforzi della comunità mondiale, che dopo il vittorioso 1945 ha creato istituzioni internazionali universali. A questo proposito, vorrei ricordarvi che il processo stesso di integrazione europea, durante il quale sono state create strutture rilevanti, tra cui il Parlamento europeo, è stato possibile solo grazie alle lezioni apprese dal passato, alle sue chiare valutazioni giuridiche e politiche. E coloro che deliberatamente mettono in dubbio questo consenso stanno distruggendo le fondamenta di tutta l’Europa del dopoguerra.
Oltre alla minaccia ai principi fondamentali dell’ordine mondiale, c’è anche un lato morale, etico. La beffa, il dileggio della memoria è un’infamità. L’infamità può essere intenzionale, ipocrita, assolutamente consapevole quando nelle dichiarazioni sul 75° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale si citano tutti i membri della coalizione anti-hitleriana, tranne l’URSS. L
’infamità può essere vile quando si demoliscono monumenti eretti in onore dei combattenti contro il nazismo, giustificando quelle azioni vergognose con falsi slogan di lotta contro una detestata ideologia e la presunta occupazione. L’infamità può essere cruenta quando coloro che si oppongono ai neonazisti e agli eredi di Bandera vengono uccisi e bruciati. Anche in questo caso l’infamità si manifesta in modo diverso, ma non cessa di essere ripugnante.
Dimenticare le lezioni della storia si traduce inevitabilmente in una pesante resa dei conti. Difenderemo con fermezza la verità sulla base di fatti storici documentati, continueremo a raccontare con onestà e imparzialità gli eventi della Seconda Guerra Mondiale. A tale obiettivo è finalizzato, tra gli altri, un progetto su larga scala che prevede la creazione in Russia della più grande raccolta di documenti d’archivio, film e materiale fotografico sulla storia della Seconda Guerra Mondiale e sul periodo prebellico.
Il lavoro è già avviato. Nella preparazione di questo articolo sono stati utilizzati molti materiali nuovi, trovati di recente e declassificati. A questo proposito, posso responsabilmente affermare che non ci sono documenti d’archivio che confermino la versione secondo la quale l’URSS avrebbe avuto intenzione di iniziare una guerra preventiva contro la Germania. Certo, la leadership militare sovietica aveva aderito alla dottrina secondo la quale, in caso di aggressione, l’Armata Rossa avrebbe rapidamente resistito al nemico, sarebbe passata all’offensiva per portare poi la guerra nel territorio nemico.
Tuttavia, tali piani strategici non indicano affatto l’intenzione di attaccare per primi la Germania. Naturalmente oggi gli storici hanno a disposizione documenti di pianificazione militare: le direttive dei quartieri generali sovietici e tedeschi. Finalmente, sappiamo come si sono sviluppati gli eventi nella realtà. Dall’alto di queste conoscenze, molti dissertano delle azioni, degli errori, delle sviste della leadership militare e politica del Paese. A questo proposito dico una cosa sola: insieme a un enorme flusso di notizie false di ogni tipo, i leader sovietici ricevettero anche informazioni comprovate sull’imminenza dell’aggressione nazista.
E durante i mesi prima della guerra, furono adottate misure necessarie a migliorare la capacità di reazione del paese, ivi compreso il richiamo in segreto per esercitazioni di una parte dei coscritti, il ridispiegamento delle formazioni e delle riserve dai distretti militari interni ai confini occidentali.
La guerra non fu inaspettata per l’URSS, la si attendeva, ci si preparava. Ma l’attacco dei nazisti fu davvero senza precedenti nella storia della potenza distruttiva. Il 22 giugno 1941 l’Unione Sovietica ha affrontato l’esercito più forte, efficiente e addestrato del mondo, che poteva contare sul potenziale industriale, economico e militare di quasi tutta l’Europa. Non solo la Wermacht, ma anche i satelliti della Germania e le truppe di molti altri paesi del continente europeo hanno preso parte a questa invasione mortale.
Le pesantissime sconfitte militari del 1941 portarono il Paese sull’orlo del disastro. Si rese necessario recuperare l’efficienza operativa e la capacità di manovra con metodi di emergenza, con la mobilitazione generale e la messa in campo di tutte le forze dello Stato e della popolazione. Già nell’estate del ‘41 sotto il fuoco del nemico iniziò l’evacuazione verso est di milioni di cittadini e di centinaia di fabbriche e industrie.
In tempi strettissimi nelle retrovie venne organizzata la produzione di armi e munizioni, che cominciarono ad arrivare al fronte nel primo inverno di guerra, e nel 1943 l’URSS superò la produzione militare della Germania e dei suoi alleati. In un anno e mezzo, i sovietici hanno fatto qualcosa che sembrava impossibile, al fronte come nelle retrovie. E ancora oggi è difficile rendersi conto, capire, immaginare quali incredibili sforzi, coraggio, abnegazione abbiano richiesto tali grandissimi risultati. Contro la potente macchina, armata fino ai denti, dell’invasione lampo nazista, si sollevò la gigantesca forza della società sovietica, unita dalla volontà di proteggere la terra natale, di vendicarsi del nemico che aveva spezzato, calpestato la vita pacifica, i suoi progetti e le sue speranze.
Naturalmente, durante questa terribile e sanguinosa guerra, alcune persone sono state colte dalla paura, dalla confusione, dalla disperazione. Ci sono stati casi di tradimento e diserzione.
Riemersero brutali fratture causate dalla rivoluzione e dalla guerra civile, il nichilismo, il dileggio della storia nazionale, delle tradizioni, della fede che i bolscevichi avevano cercato di imporre, soprattutto nei primi anni dopo l’ascesa al potere. Ma l’atteggiamento generale dei cittadini sovietici e dei nostri compatrioti che si trovavano all’estero era diverso: proteggere, salvare la Madrepatria.
È stato un impulso reale, irrefrenabile. La gente cercò sostegno nei veri valori patriottici. Gli “strateghi” nazisti erano convinti che un enorme stato multinazionale potesse essere facilmente schiacciato sotto il loro peso. Credevano che una guerra improvvisa, la sua spietatezza e le sue insopportabili difficoltà avrebbero inevitabilmente esacerbato le relazioni interetniche, e che il paese avrebbe potuto essere smembrato. Hitler aveva dichiarato esplicitamente: “La nostra politica nei confronti dei popoli che vivono nelle vaste distese della Russia dovrebbe essere quella di incoraggiare ogni forma di dissidio e di disgregazione.”
Invece, fin dai primi giorni fu chiaro che il piano nazista era fallito. La fortezza di Brest fu protetta fino all’ultima goccia di sangue da soldati di oltre trenta nazionalità diverse. Possiamo vedere esempi di questa compattezza durante tutta la guerra: nelle grandi battaglie decisive come nella protezione di ogni testa di ponte, di ogni metro di terra natia.
La regione del Volga e gli Urali, la Siberia e l’Estremo Oriente, le repubbliche dell’Asia centrale e della Transcaucasia sono diventate la casa di milioni di evacuati. I loro abitanti dividevano tutto quello che avevano, prestavano ogni aiuto possibile. L’amicizia tra i popoli, il loro reciproco sostegno divenne per il nemico una vera e propria fortezza indistruttibile.
Nella sconfitta del nazismo – qualunque cosa si provi a dimostrare oggi – il principale, decisivo contributo è stato quello dell’Unione Sovietica, dell’Armata Rossa.
Eroi che hanno combattuto fino alla fine nell’accerchiamento vicino a Bialystok e Mogilev, Umanya e Kiev, Vyazma e Kharkov. Che andarono all’attacco vicino a Mosca e Stalingrado, Sebastopoli e Odessa, Kursk e Smolensk. Che hanno liberato Varsavia, Belgrado, Vienna e Praga. Che presero d’assalto Koenigsberg e Berlino.
Noi difendiamo l’autentica verità sulla guerra, non una verità mistificata o edulcorata. La verità umana di questo popolo – dura, amara e spietata – ci è stata trasmessa da scrittori e poeti che sono passati attraverso il fuoco e l’inferno del fronte. Per me, come per le altre generazioni, le loro storie oneste e profonde, i loro racconti, i loro romanzi, la loro penetrante “prosa del tenente” e le loro poesie hanno lasciato un segno indelebile nel nostro animo, sono diventati un testamento: onorare i veterani che hanno fatto tutto il possibile per la Vittoria, ricordare coloro che sono rimasti sui campi di battaglia.
Ancora oggi colpiscono i semplici e grandi, nella loro essenza, versi della poesia di Alexander Tvardovsky “Sono stato ucciso ai piedi di Rzhev…”, dedicata ai partecipanti alla sanguinosa e brutale battaglia della Grande Guerra Patriottica nella parte centrale del fronte sovietico-tedesco. Solo durante le battaglie per la città e il saliente di Rzhev, dall’ottobre 1941 al marzo 1943, l’Armata Rossa perse, compresi i feriti e i dispersi, 1 milione 342 mila 888 persone. Io definisco questi numeri, ottenuti da fonti d’archivio, numeri terribili, tragici, ma ancora incompleti, rendendo omaggio per la prima volta alla memoria dell’impresa di eroi famosi e senza nome, dei quali negli anni del dopoguerra per vari motivi si sono dette cose immeritate, ingiustamente si è parlato poco o addirittura taciuto.
Citerò un altro documento. Si tratta del rapporto della Commissione internazionale per le riparazioni di guerra della Germania, presieduta da I. Maysky, elaborato nel febbraio 1945. Compito della Commissione era la definizione di una formula secondo la quale la Germania sconfitta avrebbe dovuto risarcire le potenze vittoriose per i danni subiti. La commissione giunse alla seguente conclusione: “Il numero di giornate-soldato passate dalla Germania sul fronte sovietico è di 10 volte superiore al numero delle giornate su tutti gli altri fronti alleati. Inoltre, il fronte sovietico ha impegnato quattro quinti dei carri armati tedeschi e circa due terzi degli aerei tedeschi. In generale, l’Unione Sovietica ha rappresentato circa il 75 per cento di tutti gli sforzi militari della coalizione anti-hitleriana. Durante la guerra, l’Armata Rossa “macinò”… 626 divisioni dei paesi “dell’asse”, di cui 508 tedesche.
Il 28 aprile 1942 Roosevelt, nel suo discorso alla nazione americana dichiarò: “Le truppe russe hanno distrutto e continuano a distruggere più uomini, aerei, carri armati e cannoni del nostro comune nemico di tutte le altre nazioni unite messe insieme”. Churchill nel suo messaggio a Stalin del 27 settembre 1944 scrisse che “è stato l’esercito russo a sbudellare la macchina da guerra tedesca…”.
Questo apprezzamento ha avuto eco in tutto il mondo. Perché in queste parole sta la grande verità che nessuno allora metteva in discussione. Quasi 27 milioni di cittadini sovietici sono periti sui fronti, prigionieri dei tedeschi, sono morti di fame e per i bombardamenti, nei ghetti e nei forni dei campi di sterminio nazisti. L’URSS ha perso un cittadino su sette, la gran Bretagna uno su 127 e gli Stati Uniti uno su 320.
Purtroppo, questo numero delle pesantissime e irreparabili perdite dell’Unione Sovietica non è definitivo. Dobbiamo continuare un lavoro minuzioso per ripristinare i nomi e i destini di tutti coloro che sono morti: soldati dell’Armata Rossa, partigiani, combattenti clandestini, prigionieri di guerra e prigionieri dei campi di concentramento, civili uccisi dalle squadre punitive. È nostro dovere. E qui un ruolo particolare spetta ai partecipanti del movimento di ricerca, alle associazioni militari-patriottiche e di volontariato, come ad esempio la banca dati elettronica “Memoria del Popolo”, basata su documenti d’archivio. E, naturalmente, è necessaria una stretta cooperazione internazionale per risolvere un problema umanitario così generale.
Gli sforzi di tutti i paesi e di tutti i popoli che hanno combattuto contro il nemico comune hanno portato alla vittoria. L’esercito britannico ha protetto la sua patria dall’invasione, ha combattuto i nazisti e i loro satelliti nel Mar Mediterraneo, in Nord Africa. Le truppe americane e britanniche hanno liberato l’Italia, hanno aperto il Secondo Fronte. Gli Stati Uniti hanno inferto colpi potenti e schiaccianti all’aggressore nell’Oceano Pacifico. Ricordiamo i colossali sacrifici del popolo cinese e il suo enorme ruolo nella sconfitta dei militaristi giapponesi. Non scorderemo i militanti della “Francia combattente” che non hanno riconosciuto la vergognosa resa senza condizioni e hanno continuato a lottare contro i nazisti.
Saremo inoltre sempre grati per gli aiuti prestati dagli Alleati che fornirono all’Armata Rossa munizioni, materie prime, cibo ed equipaggiamento. Aiuti essenziali: circa il 7% del volume globale della produzione bellica sovietica.
Il nucleo della coalizione anti-hitleriana ha cominciato a prendere forma subito dopo l’attacco all’Unione Sovietica, quando gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si sono schierati incondizionatamente a fianco dell’URSS nella lotta contro la Germania di Hitler. Durante la Conferenza di Teheran del 1943, Stalin, Roosevelt e Churchill dettero vita all’alleanza delle grandi potenze, concordarono di sviluppare una diplomazia di coalizione, una strategia condivisa nella lotta contro la mortale minaccia comune. I leader delle Tre Grandi potenze avevano ben chiaro che l’aggregazione delle capacità industriali e militari e delle risorse dell’URSS, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna avrebbe creato un’innegabile superiorità sul nemico.
L’Unione Sovietica ha adempiuto pienamente ai suoi obblighi nei confronti dei suoi alleati, tendendo sempre una mano. Con l’operazione su larga scala “Bagration” in Bielorussia, l’Armata Rossa ha sostenuto lo sbarco degli anglo-americani in Normandia. Nel gennaio del 1945, dopo aver sfondato sull’Oder, i nostri combattenti hanno messo una croce sull’ultima potente offensiva della Wermacht sul fronte occidentale, nelle Ardenne. E tre mesi dopo la vittoria sulla Germania, l’URSS nel pieno rispetto degli accordi di Yalta, dichiarò guerra al Giappone e sconfisse la nutritissima armata del Kwantung.
Già nel luglio 1941, la leadership sovietica affermava che “lo scopo della guerra contro gli oppressori nazisti non è solo quello di eliminare la minaccia che incombe sul nostro Paese, ma anche di aiutare tutti i popoli d’Europa, che soffrono sotto il giogo del fascismo tedesco. A metà del 1944 il nemico fu scacciato da quasi tutto il territorio sovietico. Ma bisognava sconfiggerlo definitivamente nella sua tana. E l’Armata Rossa iniziò la sua missione di liberazione in Europa, salvando intere nazioni dalla distruzione e dalla schiavitù, dall’orrore dell’Olocausto. Lo ha fatto sacrificando la vita di centinaia di migliaia di soldati sovietici.
È anche importante non dimenticare l’enorme assistenza materiale che l’URSS ha fornito ai Paesi liberati per scongiurare la minaccia della fame, ricostruire l’economia e le infrastrutture. Questo è stato fatto in un’epoca in cui vastissimi territori da Brest a Mosca e fino al Volga, erano, per migliaia di verste, ridotti letteralmente in cenere. Ad esempio, nel maggio 1945, il governo austriaco fece appello all’Unione Sovietica perché fornisse aiuti alimentari, in quanto “non sapeva come nutrire la sua popolazione nelle sette settimane successive, fino al nuovo raccolto”. Il consenso della leadership sovietica a inviare cibo fu descritto dal Cancelliere del Governo Provvisorio della Repubblica d’Austria K. Renner come “un atto di salvezza…”, che “gli austriaci non dimenticheranno mai”.
Gli Alleati hanno istituito congiuntamente il Tribunale militare internazionale per giudicare i criminali politici e di guerra nazisti. Le sue sentenze hanno definito nettamente i crimini contro l’umanità, come il genocidio, la pulizia etnica e religiosa, l’antisemitismo e la xenofobia. Direttamente e senza ambiguità, il Tribunale di Norimberga condannò anche i complici dei nazisti, collaboratori di vario genere.
Questo vergognoso fenomeno si è verificato in tutti gli Stati europei. Figure come Pétain, Quisling, Vlasov, Bandera, i loro scagnozzi e seguaci, anche se vestivano i panni di combattenti per l’indipendenza nazionale o la libertà dal comunismo, erano traditori e carnefici. Spesso hanno superato i loro padroni in disumanità. Nel tentativo di mettersi in mostra, facevano parte di squadre punitive ed eseguivano volentieri gli incarichi più efferati. Sono opera delle loro mani insanguinate: il massacro di Babij Yar, lo sterminio della Volinia, il rogo e la strage di Khatyn, le azioni di annientamento degli ebrei in Lituania e Lettonia.
Ancora oggi la nostra posizione rimane invariata: non ci possono essere giustificazioni per gli atti criminali dei collaborazionisti, non esiste prescrizione. Ecco perché è sconcertante il fatto che in alcuni paesi coloro che si sono macchiati di collaborazionismo con i nazisti vengano improvvisamente equiparati ai veterani della Seconda guerra mondiale. Credo sia inaccettabile mettere sullo stesso piano liberatori e occupanti. E non posso che considerare come un tradimento della memoria dei nostri padri e dei nostri nonni la celebrazione dei collaborazionisti. Un tradimento degli ideali che hanno unito i popoli nella lotta contro il nazismo.
All’epoca, i leader dell’URSS, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna si trovarono di fronte a un compito che non è esagerato definire storico. Stalin, Roosevelt, Churchill hanno rappresentato Paesi con ideologie, progetti statali, interessi, culture diverse, ma hanno mostrato una grande volontà politica, si sono sollevati al di sopra delle contraddizioni e dei pregiudizi e hanno messo in primo piano i veri interessi del mondo. E così sono riusciti a trovare un accordo e a raggiungere una soluzione di cui ha beneficiato tutta l’umanità.
Le potenze vittoriose ci hanno lasciato un sistema che è stato la quintessenza della ricerca intellettuale e politica di diversi secoli. Una serie di conferenze – Teheran, Yalta, San Francisco, Potsdam – ha gettato le basi perché il mondo viva da 75 anni senza una guerra globale, nonostante le contraddizioni più aspre.
Il revisionismo storico, di cui oggi osserviamo manifestazioni in Occidente, soprattutto in merito al tema della Seconda guerra mondiale e del suo esito, è pericoloso perché distorce grossolanamente, cinicamente, la comprensione dei principi dello sviluppo pacifico, stabiliti nel 1945 dalle conferenze di Yalta e San Francisco. Il principale risultato storico di Yalta e di altre decisioni dell’epoca fu quello di concordare la creazione di un meccanismo che consentisse alle principali potenze di utilizzare gli strumenti della diplomazia per risolvere le loro divergenze.
Il ventesimo secolo ha portato conflitti mondiali totali e completi, e nel 1945 sono comparse sulla scena le armi nucleari in grado di distruggere fisicamente la Terra. In altre parole, la risoluzione delle controversie con la forza è diventata oltremodo pericolosa. E i vincitori della Seconda guerra mondiale lo hanno capito. Hanno capito e compreso la propria responsabilità nei confronti dell’umanità.
La triste esperienza della Società delle Nazioni è stata studiata nel 1945. La struttura del Consiglio di sicurezza dell’ONU è stata concepita per rendere le garanzie di pace il più possibile concrete ed efficaci. È così che sono nati l’istituzione dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza e il potere di veto come loro privilegio e responsabilità.
Che cos’è il potere di veto nel Consiglio di sicurezza dell’ONU? Per dirla senza mezzi termini, è l’unica alternativa ragionevole a uno scontro diretto tra grandi paesi. È la dichiarazione di una delle cinque potenze che una decisione è per lei inaccettabile, che è in contrasto con i suoi interessi e con la sua visione del giusto approccio. E gli altri Paesi, anche se non sono d’accordo, accettano questa posizione come un dato di fatto, evitando ogni tentativo di realizzare le loro aspirazioni unilaterali. In un modo o nell’altro, devono trovare dei compromessi.
Una nuova contrapposizione globale è iniziata quasi subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e in alcune occasioni è stata molto feroce. Proprio il fatto che la guerra fredda non sia degenerata nella terza guerra mondiale ha confermato in modo convincente l’efficacia degli accordi conclusi dai Tre Grandi. Le regole di condotta concordate al momento della creazione dell’ONU hanno permesso di minimizzare ulteriormente i rischi e di tenere lo scontro sotto controllo
Naturalmente ci rendiamo conto che il sistema delle Nazioni Unite sta ora lavorando in un clima di tensione e non con la massima efficacia possibile. Ma l’ONU svolge ancora la sua funzione primaria. I principi del Consiglio di sicurezza dell’ONU costituiscono un meccanismo eccezionale per prevenire una guerra importante o un conflitto globale. Gli appelli, piuttosto frequenti negli ultimi anni, per abolire il potere di veto, per negare speciali opportunità ai membri permanenti del Consiglio sono in realtà irresponsabili. Dopo tutto, se ciò dovesse accadere, le Nazioni Unite si trasformerebbero essenzialmente nella Lega delle Nazioni di un tempo- un incontro per parlare a vuoto, privo di qualsiasi leva sui processi mondiali; come sia finita è ben noto. Ecco perché le potenze vittoriose hanno approcciato con la massima serietà la formazione del nuovo sistema di ordine mondiale, per non ripetere gli errori dei loro predecessori.
La creazione di un moderno sistema di relazioni internazionali è uno degli esiti più importanti della Seconda guerra mondiale. Anche le contraddizioni più inconciliabili – geopolitiche, ideologiche, economiche – non impediscono di trovare forme di convivenza e di interazione pacifica, se c’è il desiderio e la volontà di farlo. Oggi il mondo non vive tempi particolarmente tranquilli. Tutto cambia: dalla distribuzione globale delle forze e dell’influenza ai fondamenti sociali, economici e tecnologici delle società, degli stati e dei continenti. In epoche passate, mutamenti di tale portata non sono quasi mai avvenuti senza grandi conflitti militari, senza una lotta di potere per la costruzione di una nuova gerarchia globale. Grazie alla saggezza e alla lungimiranza degli esponenti politici delle potenze alleate, è stato possibile creare un sistema che tiene a freno le manifestazioni estreme dell’oggettiva competizione, insita storicamente nello sviluppo mondiale.
È dovere nostro, di tutti coloro che si assumono responsabilità politiche, in particolare dei rappresentanti delle potenze vittoriose nella Seconda guerra mondiale, assicurare che questo sistema sia mantenuto e migliorato. Oggi, come nel 1945, è importante mostrare la volontà politica e discutere insieme del futuro. I nostri colleghi – Xi Jinping, Macron, Trump e Johnson – hanno sostenuto l’iniziativa russa di tenere una riunione dei leader dei cinque Stati dotati di armi nucleari, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Li ringraziamo per questo e speriamo che tale incontro in presenza possa avvenire appena possibile. Come vediamo l’agenda di questo prossimo vertice? Prima di tutto, a nostro avviso, è opportuno discutere i passi da compiere per sviluppare gli sforzi collettivi nelle questioni mondiali, per parlare francamente di problemi quali il mantenimento della pace, il rafforzamento della sicurezza globale e regionale, il controllo strategico degli armamenti, gli sforzi congiunti nella lotta contro il terrorismo, l’estremismo e altre attuali sfide e minacce.
Un altro tema all’ordine del giorno è la situazione dell’economia globale, in primo luogo il superamento della crisi economica causata dalla pandemia da coronavirus. I nostri Paesi stanno adottando misure senza precedenti per proteggere la salute e la vita delle persone, per sostenere i cittadini che si sono trovati in situazioni difficili. Ma quanto saranno dure le conseguenze della pandemia e quanto rapidamente l’economia globale uscirà dalla recessione dipende dalla nostra capacità di lavorare insieme e di concerto come veri partner.
Tanto più è inaccettabile trasformare l’economia in uno strumento di pressione e di confronto. La protezione dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico, oltre alla garanzia della sicurezza dello spazio globale dell’informazione, sono tra i temi più pressanti.
L’agenda proposta dalla Russia per il prossimo Vertice dei “Cinque” è estremamente importante e essenziale sia per i nostri Paesi che per il mondo intero. E abbiamo idee e iniziative concrete su tutti gli argomenti.
Non c’è dubbio che il vertice di Russia, Cina, Francia, Stati Uniti e Regno Unito avrà un ruolo determinante nella ricerca di risposte condivise alle sfide e alle attuali minacce e dimostrerà l’adesione comune allo spirito di alleanza, a quegli alti ideali e valori umanistici per i quali padri e nonni si sono battuti fianco a fianco.
Facendo perno sulla memoria storica condivisa, possiamo e dobbiamo fidarci l’uno dell’altro. Ciò costituirà una solida base per il successo dei negoziati e per un’azione concertata volta a migliorare la stabilità e la sicurezza del pianeta e la prosperità e il benessere di tutte le nazioni. Non esagero se dico che questo è il nostro comune dovere, la nostra responsabilità collettiva nei confronti del mondo, delle generazioni presenti e future.