Quale regia dietro i nuovi scontri tra armeni e azeri?
Nei giorni scorsi si è riacceso un focolaio di crisi dimenticato da anni, la cui recrudescenza potrebbe, alla lunga, rimettere in discussione i rapporti fra due grandi potenze come Russia e Turchia. Stiamo parlando del confine tra l’Armenia cristiana, storicamente appoggiata da Mosca, e l’Azerbaijan musulmano sostenuto da Ankara. Da quando il 12 luglio 2020 sono ricominciati fra le opposte truppe scontri che non si erano visti su vasta scala da quelli dell’aprile 2016, è tornato alla ribalta il Caucaso, con le sue fratture etniche sovrapposte a preziosi pozzi petroliferi con annessi oleodotti. A differenza del 2016, ad aggravare il quadro c’è un dato aggiuntivo.
Oggi infatti i rapporti Mosca-Ankara, che parevano essersi aggiustati negli scorsi tre anni, dopo gli attriti in Siria, ricominciano a traballare già a causa di un altro scacchiere, quello libico in cui, come noto, i russi appoggiano, insieme a egiziani, francesi ed emiratini l’esercito cirenaico di Khalifa Haftar e del Parlamento di Tobruk, mentre i turchi, insieme ai qatarini, aiutano le milizie tripolitane del presidente Fayez Serraj. Come si vede, dunque, i nuovi scontri armeno-azeri si verificano nel momento meno opportuno. O forse, al contrario, più opportuno secondo la logica di chi può averli fomentati dietro le quinte.
Chi ha cominciato?
L’origine degli scontri degli ultimi giorni sembra avvolta nel mistero date le reciproche accuse fra le parti, ma un dato interessante e irrefutabile è che, per la prima volta, grossi scontri hanno luogo fra Armenia e Azerbaijan lungo un tratto settentrionale della loro frontiera, peraltro molto montuosa, anziché a ridosso della zona meridionale del Nagorno-Karabakh, il territorio a maggioranza armena che Yerevan sottrasse con le armi a Baku in concomitanza col crollo dell’Unione Sovietica, tanto da fondarvi uno Stato armeno chiamato Artsakh, non riconosciuto dall’ONU. Più avanti rammenteremo i pregressi storici della situazione, ma vediamo anzitutto di ricostruire quando accaduto nelle ultime settimane.
A partire dalle 16.00 del pomeriggio di domenica 12 luglio 2020, dapprima è stato il Ministero della Difesa dell’Azerbaijan, a segnalare scambi di artiglieria con gli armeni sul tratto di confine presso il villaggio armeno di Movses, dove sul lato azero si estende la provincia di Tovuz, mentre sul lato armeno la provincia, dal nome molto simile, di Tavush. Secondo i comunicati da Baku: “Unità delle forze armate armene, violando pesantemente il cessate il fuoco nella direzione della regione di Tovuz, sul confine azero-armeno, hanno sottoposto al fuoco con pezzi d’artiglieria le nostre posizioni.
Ci sono state perdite su entrambi i lati. Come risultato di adeguate contromisure il nemico ha sofferto perdite e si è ritirato”. Quasi contemporaneamente, però, gli armeni diffondevano la loro versione dei fatti, che, semmai il dettaglio potesse contribuire a darle più credito, si segnalava per essere più precisa nel ricostruire una esatta meccanica degli eventi, ciò che invece non trova riscontro nelle assai più vaghe ricostruzioni diffuse dalla parte azera.
In rappresentanza del ministro della Difesa armeno David Tonoyan, la sua portavoce Shushan Stepanyan riportava che nell’area di Movses, all’improvviso un autoveicolo UAZ di fabbricazione russa con a bordo soldati azeri avrebbe violato la frontiera fra i due Stati, al che gli armeni avrebbero “ammonito”, forse sparando in aria. I soldati azeri a quel punto avrebbero abbandonato il veicolo e sarebbero ritornati sul loro lato della frontiera. Ma la scaramuccia non è stata lasciata cadere e l’artiglieria azera ha iniziato a sparare, suscitando la parallela reazione armena.
Nel corso dei primi scambi di granate, veniva distrutto anche il veicolo UAZ lasciato abbandonato nella “terra di nessuno”. Nonostante Baku abbia sostenuto che fin dal primo giorno ci sarebbero stati morti da entrambe le parti, gli armeni hanno negato perdite per tutte le prime 48 ore della crisi, mentre gli azeri, fin dal giorno 12 avrebbero sofferto la morte di almeno tre militari, i soldati Khayyam Mahammad Oglu Dashdemirov e Elshad Donmaz Oglu Mammadov e il sergente Vugar Latif Oglu Sadigov.
Il vero consolidamento della crisi si è forse avuto dalla mattina di lunedì 13 luglio, quando, dopo circa tre ore di pausa, gli azeri hanno ripreso decisamente il martellamento d’artiglieria nel settore “caldo”, suscitando la reazione armena e impedendo che l’incidente si risolvesse come un effimero episodio limitato alla giornata precedente. Nel secondo giorno, gli azeri hanno accusato gli armeni di aver bersagliato con mortai da 120 mm i villaggi di Agdam e Dondar Kuscu, mentre a loro volta sostenevano di aver distrutto veicoli e depositi armeni, nonché una stazione radar uccidendo “ben 20 soldati avversari”.
Nelle stesse ore la Turchia, da anni ferrea alleata dell’Azerbaijan, esprimeva la sua solidarietà al paese musulmano senza se e senza ma, distinguendosi dalla maggior parte degli altri paesi, che invece, più equamente, cercavano di richiamare entrambe le parti alla tregua, senza specifiche accuse. Da Ankara una nota del Ministero degli Esteri, contribuendo probabilmente a imbaldanzire gli azeri, recitava: “La Turchia, con tutte le sue strutture, continuerà a stare al fianco dell’Azerbaijan nella sua lotta per proteggere la propria integrità territoriale”.
E poco dopo lo stesso ministro Mevlut Cavusoglu, senza alcun dubbio affermava che “ciò che ha fatto l’Armenia è inaccettabile”. Dal canto suo, lo stesso 13 luglio, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan accusava espressamente gli azeri: “La classe dirigente politica e militare dell’Azerbaijan sarà pienamente responsabile per le conseguenze della destabilizzazione regionale.
Siamo preoccupati per la posizione della Turchia, mirata a provocare la destabilizzazione nella regione, posizione riflessa nelle dichiarazioni del Ministero degli Esteri di quel paese, che esprime appoggio incondizionato alle azioni dell’Azerbaijan secondo l’ovvia e tradizionale logica anti-armena”.
Fin dall’inizio della crisi, il governo di Yerevan avrebbe cercato di mantenere limitata e proporzionata la propria reazione. Quel giorno il ministro della Difesa Tonoyan ha infatti reso noto al rappresentante dell’OSCE, Andrzej Kasprzyk, che le forze armene si sarebbero tenute “relativamente frenate reagendo solo se strettamente necessario”. Ancora il 13 gli armeni non dichiaravano caduti, mentre nel corso della giornata gli azeri lamentavano la prima morte di un ufficiale, il tenente Rashad Rashid Oglu Mahmudov.
Sulle perdite azere, tuttavia, è sorto un giallo poiché quel giorno è stato improvvisamente arrestato dalle autorità l’ex-ministro della Difesa Rahim Gaziyev, in carica poco dopo l’indipendenza dall’URSS, fra il 1992 e il 1993, perchè ha affermato che i soldati azeri morti erano già 12, anziché i 4 fino a quel momento ammessi. Pur essendo ormai anziano, Gaziyev è stato così incarcerato con l’accusa di “aver diffuso false informazioni indebolendo la difesa del paese”.
I duelli d’artiglieria sono proseguiti il 14 luglio, quando gli azeri hanno lamentato fra i caduti la perdita di un generale, subito elevato a rango di eroe del nuovo cimento contro il nemico storico armeno.
Secondo il viceministro della Difesa azero, Karim Valiev, infatti: “Circa 100 soldati nemici e una significativa quantità di equipaggiamento militare sono stati eliminati. Anche l’esercito dell’Azerbaijan ha sofferto danni.
Il generale Polad Gashimov e il colonnello Ilgar Mirzyaev sono morti eroicamente negli scontri della mattinata”. La rivendicazione azera di aver “eliminato” ben 100 fanti armeni, senza specificare se uccisi, feriti o semplicemente ricacciati indietro, non trova conferme dall’altra parte del fronte. Per quel giorno, infatti, il Ministero della Difesa di Yerevan ha ammesso i primi caduti armeni accertati, in numero di soli quattro uomini, ovvero il maggiore Garush Ambartsumyan, il capitano Sos Elbakyan e i sergenti Smbat Gabrielyan e Grisha Matevosyan.
Martedì 14 gli azeri, oltre ai citati generale Gashimov e colonnello Mirzayev, piangevano altri cinque uomini: i maggiori Anar Gulverdi Oglu Novruzov e Namig Hazhan Oglu Ahmadov, i marescialli Ilgar Ayaz Oglu Zeynalli e Yashar Vasif Oglu Babayev e il soldato Elchin Arif Oglu Mustafazade.
Lo stesso giorno, la portavoce armena Stepanyan annunciava che un drone azero è stato abbattuto dalla contraerea, come confermato da filmati diffusi da Yerevan. Si trattava di “un drone usato per controllo di fuoco” del tipo israeliano Elbit Hermes 900 (nelle due foto sotto), che gli azeri hanno comprato in circa 15 esemplari e che assicura la capacità di controllo di un settore del fronte fino a un massimo di 36 ore circuitando a una quota massima superiore ai 9000 metri. Il Ministero della Difesa armeno ha inoltre cercato di minimizzare la messa in allerta degli almeno quattro caccia supersonici Sukhoi Su-30SM che la Russia ha consegnato da pochi mesi all’aeronautica di Yerevan.
Stando alla portavoce Stepanyan, i Su-30SM “sono impegnati nell’attività di addestramento quotidiano, ciò non ha nulla a che fare con l’escalation con l’Azerbaijan”. Il che potrebbe anche corrispondere al vero poiché è presumibile che i piloti armeni si stiano ancora abituando a operare col nuovo velivolo, giudicando prematuro impiegarlo in azioni belliche.
In quelle ore, da Mosca il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov esprimeva l’ansia russa per il riesplodere dell’annosa crisi: “Richiamiamo entrambe le parti affinchè mostrino contegno e osservino le condizioni del cessate il fuoco. Come abbiamo già espresso a vari livelli, la Russia è pronta ad agire come mediatore in quanto membro del gruppo di Minsk. Sapete che il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha tenuto intense conversazioni telefoniche con le sue controparti di Baku e Yerevan”.
Anche l’organizzazione militare che accomuna Russia e Armenia, la CSTO, Collective Security Treaty Organization, ha chiesto per bocca del suo segretario Vladimir Zaynetdinov “l’immediata restaurazione del cessate il fuoco”, sottolineando che l’Armenia fa parte dell’organizzazione, da cui invece l’Azerbaijan è uscito una ventina d’anni fa. Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha chiesto che la crisi sia disinnescata, ma invano.
Ricatto radioattivo
Il 15 luglio il presidente azero Ilham Aliyev sosteneva in un discorso davanti ai suoi ministri che “il fatto che gli armeni vadano a piangere presso la CSTO dimostra la loro codardia”, gli azeri dichiaravano di aver distrutto “un caposaldo di forze armene vicino a Tovuz”. Il governo di Baku si è sentito in quelle ore sempre più sotto pressione anche da parte della piazza, dato che almeno 30.000 manifestanti nazionalisti hanno invaso le strade della capitale chiedendo a gran voce una estesa guerra contro l’Armenia, inneggiando al recupero del Karabakh. Sventolando bandiere azere, gridavano: “Il Karabakh è nostro e rimarrà nostro”.
Mentre Aliyev li rabboniva dichiarando l’Armenia “stato fascista”. In questa guerra di propaganda, il premier armeno Pashinyan ha dal canto suo postato un video in cui si vede il decollo di due Su-30 armeni, commentando che “sono pronti ad assicurare l’inviolabilità dei cieli armeni”. Un potenziale aggravamento della crisi emergeva poche ore dopo a causa di dichiarazioni altamente irresponsabili da parte azera.
La mattina del 16 luglio, infatti, fonti ufficiali di Baku si sono spinte addirittura a minacciare un attacco aereo contro l’unica centrale nucleare dell’Armenia, l’impianto di Metsamor, a 36 km da Yerevan, risalente ai tempi sovietici, ma ancora tenuto in piena operatività con l’aiuto russo, tanto che i suoi due reattori VVER-440 da 407,5 MegaWatt ciascuno assicurano essi soli il 40% di tutta l’elettricità del paese.
Per quanto si tratti di una centrale coriacea, costruita per resistere fino a terremoti di magnitudine 7 della scala Richter, non infrequenti nel Caucaso, se investita ripetutamente da missili tattici con testate ad alto esplosivo può chiaramente subire gravissimi danni, giustificando i timori di possibili nubi radioattive sul tipo di quella di Chernobil del 1986.
E’ stato evocando un puramente ipotetico “attacco armeno alle riserve idriche dell’Azerbaijan” e in particolare “alla diga di Mingechevir”, che il portavoce del Ministero della Difesa di Baku, colonnello Vagif Dargyakhly, si è lasciato prendere dalla foga, affermando che il suo paese potrebbe reagire nella maniera più catastrofica: “La parte armena non deve dimenticare che i sistemi missilistici allo stato dell’arte di cui dispone il nostro esercito sono capaci di lanciare un attacco di precisione sulla centrale nucleare di Metsamor, e sarebbe una grande tragedia per l’Armenia poiché porterebbe a una vera catastrofe”.
L’accenno ai “sistemi missilistici allo stato dell’arte” fa pensare che il funzionario azero si riferisse al recente missile tattico della israeliana IAI, il cosiddetto LORA (Long Range Attack), lanciabile da compatti container, con vantaggi in flessibilità e trasporto con gittata di almeno 300 o forse fino a 400 km, che l’Azerbaijan avrebbe acquistato da Israele nel 2018 in circa 50 esemplari come reazione al possesso armeno di una ventina di missili Iskander comprati dalla Russia.
La precisione del LORA (nella foto sotto), a guida GPS e televisiva, è accreditata nell’ordine dei 10 metri di CEP (Circular Error Probable, errore circolare probabile) che è ampiamente accettabile nel caso in cui l’obbiettivo fosse una struttura molto grossa come una centrale atomica, o in genere un complesso di edifici, tantopiù che la testata bellica da 570 kg è relativamente pesante e compatibile con una versione in grado di perforare il cemento armato.
Tecnicamente, quindi, la minaccia azera di causare una “mini-Chernobil” fra gli armeni, è fattibilissima. Non lo è però, fortunatamente, dal punto di vista dell’opportunità strategica e politica, dato che una eventuale nube radioattiva giostrata in modo imprevedibile dal vento finirebbe con lo spingersi anche sullo stesso Azerbaijan oppure sulla sua alleata Turchia, al cui confine la centrale atomica è vicina.
Per quanto abbia il sapore della spacconata, la “sparata” azera evoca comunque un pericolo potenziale tale che il Ministero degli Esteri armeno non poteva esimersi dal rispondere duramente, nel tardo pomeriggio dello stesso 16 luglio: “Le azioni minacciate dall’Azerbaijan sono una flagrante violazione della Legge Umanitaria Internazionale, in generale, e del 1° Protocollo Addizionale della Convenzione di Ginevra, in particolare. Queste minacce sono l’esplicita dimostrazione del terrorismo di Stato e degli intenti di genocidio dell’Azerbaijan. E sono una minaccia a tutti i popoli della regione, incluso il loro stesso popolo”. L’evocare un “genocidio”, peraltro, significa per gli armeni toccare un tasto molto delicato, dato che questo popolo soffrì nel 1915 di una tremenda carneficina per mano della soldataglia turco-ottomana, tanto che quel massacro è considerato il “primo genocidio del XX secolo”, macabro apripista dello sterminio degli ebrei fra il 1942 e il 1945.
A giustificare una certa vigilanza su eventuali colpi di testa azeri, comunque, ci sono dubbi sull’affidabilità e la tenuta dello stesso governo dell’Azerbaijan, se è vero quanto verificatosi il 16 luglio, con il licenziamento improvviso del ministro degli Esteri Elmar Mammadyarov, sostituito dal giorno successivo con Jeyhun Bayramov.
Motivo? Il presidente Aliyev(nella foto sopra) si sarebbe spazientito perchè Mammadyarov ha disertato una teleconferenza del consiglio dei ministri, quasi insinuando che preferisse starsene a casa a dormire anziché lavorare. In verità, dietro le quinte, pare possa essersi trattato di un mero pretesto perchè il ministro licenziato, di notevole esperienza diplomatica in sedi europee e ONU, non sarebbe stato sufficientemente aggressivo e forse, in cuor suo, intendeva lavorare per risolvere al più presto la crisi.
Che Baku fatichi a far credere di essere in buona fede, del resto, sembra ampiamente dimostrato da numerose prese di posizione. In Francia, tanto per cominciare, fin dal 15-16 luglio il Parlamento si è schierato apertamente dalla parte dell’Armenia, parlando di “aggressione azera” e di “ripresa delle ostilità come conseguenza delle intenzioni del dittatore Aliyev”.
Negli Stati Uniti d’America, se la posizione ufficiale di Washington cerca di essere equidistante, dato che l’Azerbaijan è in rapporti di partnership con la NATO, numerosi senatori e deputati, sia democratici che repubblicani, come Ed Markey, Andreas Borgeas e Brad Sherman hanno invocato il diritto dell’Armenia a difendersi, proponendo emendamenti al National Defense Authorization Act 2020 affinchè gli aiuti militari americani all’Azerbaijan siano congelati se diretti ad azioni contro Yerevan.
Negli Stati Uniti, del resto, è presente una cospicua comunità di origine armena, valutata fra 470.000 e 1,5 milioni, a seconda dei criteri genealogici, e i cui membri sono talvolta famosi e influenti. E’ il caso di una star come la famosa attrice e modella Kim Kardashian, che ha postato il 16 luglio sul suo profilo Instagram, seguito in tutto il mondo da ben 179 milioni di persone, un notevole assist ai compatrioti, in termini di influenza sull’opinione pubblica internazionale, contribuendo a riequilibrare le accuse a senso unico azere sull’origine degli incidenti di frontiera: “A dispetto della pandemia globale in corso, l’Azerbaijan ha violato l’appello dell’ONU per un cessate il fuoco mondiale mediante attacchi non provocati alla Repubblica d’Armenia.
Sono state bersagliate strutture civili in Armenia e l’Azerbaijan ha ora minacciato di bombardare la centrale nucleare. Intanto verranno votati emendamenti al National Defense Authorization Act per assicurare che gli Stati Uniti non diano all’Azerbaijan aiuti militari che possano essere usati contro l’Armenia o l’Artsakh. Premo per una soluzione pacifica per questi attacchi senza motivo durante una già difficile pandemia”.
Uno stillicidio dalle radici antiche
Il 16 luglio gli azeri parlavano di altri 20 armeni uccisi, nonché della distruzione di un veicolo corazzato e di un veicolo comando radio. Si dichiarava inoltre l’abbattimento di un drone armeno X-55 in ricognizione con rotta verso Tovuz. L’X-55 (nella foto sotto) è uno dei non pochi droni progettati e costruiti autonomamente in Armenia negli ultimi anni. In sé poco appariscente, è un piccolo aereo a elica telecomandato, lanciabile mediante catapulta dal pianale di un camion dell’esercito. Lungo appena 3,8 m, per un’apertura d’ali di 2,6 m, pesa 50 kg e ha una velocità massima di 130 km/h, potendo volare fino a una quota di 4500 m e con un’autonomia di 320 km.
Nulla di eccezionale, ma se non altro notevole come realizzazione del piccolo stato caucasico, potendo fornire immagini ottiche e anche infrarosse grazie alla sua torretta con sensori. Mentre gli azeri ammettevano l’ultimo loro caduto in ordine di tempo, il soldato Nazim Afgan Oglu Ismaliyov, gli scontri seguitavano nei giorni successivi soprattutto con uno scambio di artiglieria a singhiozzo fra le due parti, soprattutto con colpi diurni mentre durante la notte la situazione si manteneva calma.
Il 19 luglio gli armeni hanno decisamente respinto la specifica accusa azera di essere in procinto di sferrare un attacco alle infrastrutture petrolifere avversarie, come ha spiegato il portavoce del Ministero della Difesa di Yerevan, Artsrun Hovhannisyan: “Tecnicamente le forze armate armene avrebbero potuto farlo già da molto tempo, ma non abbiamo mai avuto, né abbiamo adesso, simili piani. Crediamo che i collegamenti in olio e gas che passano attraverso questa regione appartengano alle compagnie internazionali e queste compagnie dovrebbero confidare nel fatto che l’Armenia è un garante e non un consumatore di sicurezza. L’Armenia può garantire la sicurezza meglio di chiunque altro nella regione”.
Il 21 luglio due droni armeni di tipo imprecisato sarebbero stati distrutti dall’antiaerea azera vicino a Tovuz, e il giorno dopo un altro drone X-55 è stato abbattuto su Agdam (nella foto sotto) . Fra le azioni più eclatanti degli ultimi giorni, la mattina del 22 luglio il governo armeno ha denunciato un attacco condotto la sera precedente da “forze speciali azere” contro postazioni militari ad Anvakh.
Secondo gli armeni, erano le 22.30 del 21 luglio quando commandos azeri hanno tentato un azzardo, ma sono stati sopraffatti dai militari di Yerevan. Secondo il Ministero della Difesa: “Le unità delle forze armate armene hanno respinto l’attacco del nemico, infliggendogli perdite significative”. Sarebbero stati presi anche dei prigionieri, ma da Baku negano tutto e sostengono che si tratta di “disinformazione”.
L’incertezza è d’obbligo, nel continuo confronto fra verità e propaganda, ma soppesando da un lato l’ipotetica invenzione di sana pianta da parte armena di una inesistente azione nemica respinta, dall’altro la negazione azera di una incursione di proprie forze speciali effettivamente compiuta, ma andata storta e dunque da tenere nascosta, sembra più plausibile il secondo scenario.
Il giorno 23 luglio, ancora segnato da scambi di cannonate è stato ucciso il soldato armeno Arthur Muradyan, ultima vittima accertata almeno fino al momento in cui scriviamo, il che porta, dal 12 al 23 luglio il totale dei caduti “sicuri” a 5 per l’Armenia e a 12 per l’Azerbaijan. La situazione resta fluida ed è difficile prevedere come si evolveranno le cose. Certo è che il bilancio, finora, sembra relativamente limitato al confronto con il passato.
Armenia e Azerbaijan si affrontarono in una lunga guerra fra il 1992 e il 1994 che causò forse 30.000 morti, per il possesso della regione del Nagorno Karabakh, (“Karabakh Superiore”) che esisteva come oblast autonomo all’interno dell’URSS, assegnata alla Repubblica Sovietica dell’Azerbaijan ma in realtà popolata in maggioranza da armeni. I primi scontri etnici erano cominciati fin dal febbraio 1988, quando l’assemblea locale del Karabakh aveva votato l’annessione alla Repubblica Sovietica dell’Armenia, suscitando la repressione degli armeni locali da parte delle autorità azere.
Con l’appoggio della madrepatria armena si ebbe il 6 gennaio 1992 la dichiarazione di indipendenza da parte del Nagorno Karabakh, col nome armeno di Artsakh, dando vita a un piccolo staterello, mai riconosciuto dall’ONU, di circa 150.000 abitanti. Fu la miccia per la guerra scoppiata poche settimane dopo, il 31 gennaio 1992, e durata per oltre due anni, fino al cessate il fuoco del 17 maggio 1994, raggiunto grazie alla mediazione operata da un gruppo di lavoro interno all’OSCE, il Gruppo di Minsk guidato da Francia, USA e Russia
Il sanguinoso conflitto conclusosi nel 1994 con una sostanziale vittoria armena, poiché, nonostante gli azeri fossero sulla carta più numerosi e più armati, le loro offensive si arenarono in sostanza a causa della strenua difesa avversaria arroccata in un teatro montuoso. Così lo stato ufficioso dell’Artsakh sopravvive da quasi trent’anni sotto l’ala protettrice dell’Armenia, potendo contare anche su forze armate proprie, armate e “innervate” da militari armeni.
L’Azerbaijan non ha mai rinunciato a riprendere il territorio, e perciò l’opera di mediazione e di promozione di difficilissimi colloqui fra Yerevan e Baku da parte del Gruppo di Minsk si trascina fin dagli anni Novanta senza risultati. La parola, anzi, è spesso passata alle armi in incidenti di frontiera di varia entità, di cui citeremo a esempio solo quelli più sanguinosi degli ultimi anni. Dal 27 luglio all’8 agosto 2014, scontri nel settore di Agdam-Tartar, un distretto per metà sotto sovranità dell’Azerbaijan, per metà inglobato dall’Artsakh, fra opposte squadre di incursori e “sabotatori” si conclusero con la morte di 6 militari armeno e 13 azeri.
Già pochi mesi dopo si ripeteva un altro grave episodio, con l’abbattimento il 12 novembre 2014 di un elicottero da combattimento armeno Mil Mi-24 da parte di un soldato azero con un missile spalleggiabile Igla-S, proprio sul confine che taglia l’Agdam-Tartar, e con la morte di tutti e tre i membri dell’equipaggio.
Particolarmente violenti furono poi i combattimenti concentratisi in quella che fu battezzata Guerra dei Quattro Giorni, fra il 1° e il 5 aprile 2016, lungo un fronte di 257 chilometri.
In quella occasione, entrambi si scambiarono le accuse di aver rotto il cessate il fuoco, ma gli azeri erano già pronti a una offensiva su larga scala, altrimenti non avrebbero potuto in un pugno di giorni sottrarre all’Artsakh un territorio che Baku ha dichiarato in 20 km quadrati e che Yerevan ha ammesso perlomeno in 8 km quadrati. Gli scontri del 2016 hanno visto un largo impiego da entrambe le parti di carri armati e di razzi Grad, nonché di elicotteri e il loro bilancio è stato finora il più pesante fra tutte le violazioni successive alla tregua del 1994, anche perchè sono stati i primi scontri che hanno portato a un apprezzabile modifica del confine, in tal caso a favore degli azeri.
Gli azeri hanno dichiarato di aver pianto 94 soldati e 6 civili, nonché di aver ucciso 560 soldati armeni distruggendo 33 carri nemici e 25 pezzi d’artiglieria. Gli armeni, dal canto loro, hanno rivendicato di aver perso solo 91 soldati, 9 civili e 14 carri, ma di aver ucciso fra 500 e 1500 nemici, distruggendo 26 carri, due elicotteri, 14 droni e un pugno di veicoli da fanteria.
Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno valutato che gli scontri armeno-azeri dell’aprile 2016 siano costati la vita a circa 350 persone di ambedue le parti.
E senza contare il fatto che, nonostante il cessate il fuoco del 5 aprile, scaramucce continuarono nei giorni successivi, tanto che ancora fino al 21 aprile 2016 furono registrate le ulteriori morti di 5 militari armeni dell’Artsakh e di un azero.
L’incertezza delle cifre, peraltro, può far pensare che anche nel caso degli scontri di questi giorni, il vero bilancio possa essere assai più pesante di quanto dichiarato dai governi. Da allora, gli armeni hanno sempre chiesto che nei colloqui di pace si tenesse conto del governo locale del Karabakh/Artkash, il che è però sempre stato rifiutato dagli azeri.
E’ abbastanza evidente che la meccanica geopolitica della nascita e dello sviluppo dell’Artsakh ripropone un certo parallelismo con la situazione delle repubbliche russofone di Lugansk e Donetsk, nel Donbass, riconosciute dalla Russia come stati fratelli sulla base del fatto che quei territori originariamente russi, furono regalati alla Repubblica dell’Ucraina nei tempi sovietici.
Anche se la Russia non riconosce l’Artsakh, è interessante che siano tre stati non-ONU, tutti di origine filorussa, ovvero Abkazia, Ossezia del Sud e Transnistria, gli unici a riconoscerlo come stato. Altri riconoscimenti sono assicurati a questa piccola “Armenia minore”, se così possiamo definirla, da due regioni della Spagna con grande tradizione autonomista, ovvero i Paesi Baschi e la Navarra oltre allo stato australiano del Nuovo Galles del Sud e, a conferma dell’influenza della causa armena negli Stati Uniti, numerosi singoli stati dell’Unione, per la precisione: Rhode Island, Massachusetts, Maine, Louisiana, California, Georgia (quella USA, appunto, non quella caucasica), Hawaii, Michigan e Colorado.
La bilancia strategica
E’ difficile pensare che Armenia e Azerbaijan possano davvero andare alla guerra totale, dato che gli incidenti di questi giorni sembrano il risultato di impulsi esogeni, primariamente di ispirazione turca, come messaggio indiretto alla Russia, ma non sarà vano passare brevemente in rassegna le rispettive forze. Sulla carta l’Azerbaijan appare indubbiamente più possente, anche perchè il business del petrolio e del gas gli ha permesso di investire negli ultimi anni molto di più nel settore militare.
Con una superficie territoriale di 86.600 km quadrati (un quarto dell’Italia) e una popolazione di 10 milioni di persone, il governo di Baku vanta senza dubbio una base più ampia rispetto all’Armenia, che è estesa solo 29.800 kmq ed è abitata da 3 milioni di persone. Le forze armate azere, guidate dal capo di Stato Maggiore generale Najmaddin Sadigov beneficiano di una spesa arrivata a circa 2,2 miliardi di dollari l’anno, pari al 5% del Pil, e contano 56.000 uomini nell’Esercito, 7900 nell’Aviazione e 2.200 nella Marina, che sfrutta l’ampia costa orientale sul Mar Caspio, sbocco marittimo negato invece all’Armenia che non dispone di una forza navale.
Gli azeri contano inoltre su 20.000 uomini di altre milizie interne, secondo il vecchio modello sovietico, pure essi mobilitabili come riserve. In fatto di armamenti gli azeri contano fino a 380 carri armati operativi di cui, a parte la massa di datati T-72, i migliori sono un centinaio di T-90 comprati dalla Russia e ai quali si aggiungeranno in un prossimo futuro 50 carri sudcoreani K2 Black Panther.
Vi sono poi fino a 595 blindati e veicoli da fanteria, ma è da ricordare che in un teatro montuoso come il Caucaso, e specialmente come la zona fra Armenia e Karabakh, il carro tradizionale è meno importante rispetto alle grandi pianure e semmai serve da appoggio alla fanteria più nella funzione di “scudo” e artiglieria semovente.
L’aeronautica azera conta 29 aerei da combattimento, in maggioranza caccia Mig-29 e assaltatori Su-25, più qualche residuo Mig-21, ma sarebbe in attesa di caccia cinesi JF-17 per i quali è in trattativa con Pechino. Vi sono poi 17 elicotteri d’attacco Mi-35.
L’antiaerea conterebbe fino a 200 missili S-300 PMU di fornitura russa, oltre a tipi più piccoli, mentre i missili balistici a corto raggio comprenderebbero gli israeliani LORA, già citati, che fanno parte di un generale afflusso di armamenti israeliani che annovera anche lanciarazzi e droni. La Marina conta un pugno di navi nel Caspio, fra cui una dozzina di fregate, le quali però nulla peserebbero in un confronto con l’Armenia nell’entroterra caucasico.
Sulla Marina azera c’è però da precisare che è stata addestrata negli ultimi anni dagli americani e comprende forze speciali modellate un po’ sugli SEAL della US Navy, i selezionatissimi uomini della 641° Unità Speciale di Guerra Navale, allenati anche a incursioni lampo tra le file nemiche. Non è dato sapere se appartengano a questa unità le “forze speciali azere” la cui incursione è stata denunciata, e bloccata, dagli armeni il 22 luglio, ma non sarebbe impossibile a priori.
Per contro, l’Armenia ha un apparato militare più limitato, ma tutto sommato non di molto, proporzionalmente al fatto che il paese, sia come area sia come abitanti, è un terzo dell’avversario. Allo Stato Maggiore del generale Onik Gasparyan rispondono 45.000 soldati dell’Esercito, più 7000 uomini dell’Aeronautica, alimentati da una spesa di soli 634 milioni di dollari, ma che rappresenta oltre il 5,5% del Pil armeno.
Nelle vere e proprie forze armene ci sono fra 140 e 160 carri armati fra cui i più numerosi sono ancora i vecchi T-72, pur modernizzati con il supporto russo, più 31 T-90S. Ai mezzi corazzati si aggiungono ben 460 blindati da fanteria e ricognizione, fra cingolati e ruotati, la cui varietà tocca un po’ tutta la serie dei BMP, BTR e BRDM di origine sovietica. L’artiglieria conta fra i vari razzi e missili, i citati Iskander russi, in numero di almeno 25, che assicurano la capacità di colpire fino a 300-400 km. Quest’anno sono stati acquisiti anche mortai, armi leggere e munizioni serbe per un valore di circa un milione di euro.
Quanto all’aviazione, limitandoci ai soli velivoli da combattimento, parliamo di 14 aerei, di cui 10 Sukhoi Su-25 d’attacco e i primi 4 Su-30 (nella foto sopra) da intercettazione ricevuti nel 2019, ai quali si aggiungeranno nei prossimi mesi altri 8 Su-30.
Ci sono inoltre 16 elicotteri Mil Mi-24. L’Armenia conta però anche su forze armate addizionali che sono quelle dell’Artsakh, in pratica una sua provincia. La milizia di difesa del Nagorno-Karabakh conterebbe almeno 20.000 uomini, con ben 316 carri e 324 blindati anche a voler contare i tank più datati di epoca sovietica, tenuti in efficienza con filo di ferro e buona volontà. Una piccola componente aerea del Karabakh schiera un paio di Su-25 e cinque elicotteri Mi-24.
L’Armenia ha un vantaggio teorico sull’Azerbaijan dovuto all’appartenenza all’alleanza CSTO e alla presenza sul suo territorio di una guarnigione russa. Nella cosiddetta 102a Base Militare a Gyumri trovano sede 3000 soldati di Mosca con carri armati, veicoli corazzati, artiglieria e missili antiaerei S-300, mentre nella Base Aerea 3624 di Erebuni, vicino Yerevan, stazionano 1.500 uomini con 18 caccia Mig-29 con elicotteri Mi-8MT e Mi-24..
La Russia, per il momento, attende e osserva, ma mantiene sul chi vive le sue truppe schierate lungo i confini meridionali. Il 17 luglio grandi porzioni delle forze russe dei comandi occidentali e meridionali, per un totale di 150.000 uomini, sono state mobilitate e sottoposte a controlli di prontezza operativa (“snap check”). Il giorno dopo, il viceministro della Difesa, generale Alexander Fomin, ha rifiutato di mettere in collegamento le manovre col deteriorarsi della situazione nel Caucaso, ma non c’è dubbio che massima è la vigilanza poiché la nuova crisi armeno-azera pone ai russi un dilemma assai più delicato che ai turchi.
Il contesto geiopolitico
La posizione di Ankara è ben chiara, tanto che il 20 luglio è intervenuto lo stesso “sultano”, il premier Recep Tayyp Erdogan: “La Turchia non lascerà mai solo l’Azerbaijan in un eventuale conflitto con l’Armenia. Il Karabakh superiore è occupato. Il gruppo di Minsk dell’Osce ha lasciato la questione sul tavolo per 25-30 anni”. Erdogan può permettersi un lusso che, al momento, il suo omologo presidente Vladimir Putin non può permettersi, cioè stare nettamente dalla parte di uno dei due contendenti, accreditando l’interpretazione che vuole gli incidenti “suggeriti” a Baku da Ankara per indurre a più miti consigli i russi e i loro alleati nella partita della Libia.
Infatti, le scaramucce scoppiano proprio mentre nel paese africano l’intervento turco in favore del governo di Tripoli guidato da Fayez Serraj ha oltrepassato il livello oltre il quale il “sultano” non può ritirarsi senza perdere la faccia.
Ma sa anche che se l’Egitto, coi russi e gli emiratini, farà muro a Sirte intervenendo nel paese, rischia grosso. La carta da giocare è cercare di far sfilare almeno i russi dalla Libia, inducendoli a riflettere con questa mossa in Armenia. Non è nemmeno un caso che gli azeri abbiano aperto il fuoco, ammesso che siano stati loro i primi, sul confine nell’area di Tovuz/Tavush e non più a Sud, nel Karabakh.
Così facendo si dà alla reciproca percezione della minaccia una dimensione più marcata perchè riguarda i territori metropolitani, di appartenenza più assodata, e non un’area più periferica e contesa, come quella su cui l’Armenia ha edificato uno staterello di tutela dei compatrioti. Inoltre si va a toccare un territorio in cui transita anzitutto l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che lungo oltre 1700 km porta 50 milioni di tonnellate di greggio azero all’anno fino al porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo, passando per l’anti-russa Georgia per scavalcare il territorio armeno.
E poi vi passa il parallelo gasdotto Baku-Tblisi-Erzurum, che porta 25 miliardi di metri cubi di metano all’anno seguendo un tracciato simile al precedente oleodotto, ma che si arresta dopo 692 km appunto a Erzurum, dove si connette al TANAP, il gasdotto transanatolico, che verrà presto collegato alla TAP per l’immissione nella rete italiana presso Brindisi. Sono infrastrutture fondamentali per l’approvvigionamento energetico dell’Europa e se è vero che un loro sabotaggio potrebbe tornare comodo anche ai russi e agli armeni, per lo stesso motivo Ankara e Baku hanno buon gioco per utilizzarli come moventi di un piano armeno di sabotaggio.
La Russia, invece, non può permettersi di schierarsi apertamente solo con l’Armenia ed è per questo che il suo atteggiamento è assai diverso da quello turco. Ancora il 21 luglio il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha interpellato gli ambasciatori azero e armeno a Mosca, rispettivamente Polad Bulbul Ogly e Vardan Toganyan, per cercare una soluzione pacifica e sta proseguendo su questa strada.
Per quanto i russi mantengano due basi militari in Armenia e la considerino un alleato nell’ambito CSTO, tanto da essere pronti a difenderla se invasa, non vogliono però rinunciare ai rapporti con l’Azerbaijan, che resta un importante cliente in fatto di tecnologia, militare e un socio per Transneft per quanto riguarda un altro grande oleodotto che parte dai campi petroliferi azeri, il Baku-Novorossiysk che porta 5 milioni di tonnellate di greggio fino all’omonimo terminal russo sul Mar Nero.
E senza contare i legami che risalgono all’era sovietica, per quanto oggi un po’ deteriorati dalla crescente riscoperta dell’identità turcomanna da parte dell’Azerbaijan, a cui non sono estranei la propaganda neo-ottomana di Erdogan e gli accordi commerciali e militari con Ankara.
Mentre i turchi non avrebbero quindi remore nel giocare il tutto per tutto a fomentare l’Azerbaijan pur di presentarsi ai russi come gli arbitri del loro fronte Sud, gli “osti (russi) con cui fare i conti” vogliono evitare di rompere con loro e con gli azeri, almeno in apparenza, sebbene sia intuibile che dietro le quinte stiano masticando molto amaro.
Giochi pericolosi
A rafforzare queste interpretazioni ci sono ovviamente le fonti armene. Ed è certo interessante citare parti di una bella intervista uscita il 20 luglio su “Il Sussidiario” e realizzata da Paolo Vites, che ha sentito il console onorario armeno in Italia, Pietro Kuciukian, che fra le altre cose osserva: “È possibile che il presidente azero abbia ricevuto un suggerimento da parte turca, la quale ha voluto così mettere pressione alla Russia per quanto riguarda la situazione in Libia, dove i due paesi mirano a spartirsi il territorio”. E poi: “Hanno attaccato quattro villaggi, ma era tanto tempo che il presidente azero incitava il suo ‘invincibile esercito’ a farlo.
La causa specifica di questo attacco per adesso non la sappiamo, qualcuno può avergli suggerito di attaccare oppure no, però è stato un fatto molto grave.
L’attacco è partito attorno a un villaggio azero per far sì che se gli armeni avessero reagito, ci sarebbero state vittime tra a civili, il solito deterrente di certi popoli consistente nell’usare come scudi i civili”.
Kuciukian ha anche evocato un possibile movente tutto interno all’Azerbaijan che può aver contribuito alla decisione di far cercare al suo popolo una valvola di sfogo contro il tradizionale nemico esterno: “Teniamo conto che l’Azerbaijan è sotto attacco del Covid in modo molto grave anche se non si conoscono le cifre, lanciare un attacco militare con una situazione interna così è molto pericoloso, ma può essere un modo per distrarre la popolazione”.
Sempre il 20 luglio l’ambasciatore azero in Italia, Mammad Ahmadzada, ha diffuso un comunicato in cui ribadisce la versione del suo governo che accusa l’Armenia di essere l’iniziatore dei recenti incidenti, citando proprio le infrastrutture energetiche della regione come possibile obbiettivo. In particolare, sostiene Ahmadzada: “L’obiettivo dell’Armenia è volto anche a destabilizzare questa area e impedire il funzionamento di questi progetti fondamentali, che creano accesso a nuovi mercati e a fonti di energia alternative per l’Europa. Non è un caso che l’Armenia abbia avviato un’operazione militare contro l’Azerbaijan tre mesi prima dell’inizio delle forniture di gas dell’Azerbaijan in Europa, inclusa l’Italia”.
Prosegue il diplomatico azero: “Questa avventura militare della leadership dell’Armenia è anche il risultato della mancata distinzione, da parte della comunità internazionale, tra aggressore – l’Armenia, che ha occupato i territori dell’Azerbaijan, e la vittima – l’Azerbaijan, che subisce oggi e da quasi 30 anni l’aggressione dell’Armenia. Finché la comunità internazionale non eserciterà una forte pressione sull’aggressore, affinché rinunci alla sua politica di aggressione, l’Armenia continuerà i suoi atti criminali, perché crimini impuniti aprono la strada a nuovi crimini”.
Anche l’interpretazione azera sembra plausibile, senonchè, almeno a prima vista sembra assai più difficile che gli armeni abbiano deciso da soli di scatenare una crisi senza essere sicuri a priori di avere le spalle coperte da una potenza protettrice, nel loro caso la Russia. La quale invece, come sta dimostrando la sua diplomazia, cerca di risolvere la crisi con la mediazione e l’equidistanza, piuttosto che il contrario.
Possibile quindi che a iniziare le ostilità abbiano volutamente provveduto gli azeri, forti del palese appoggio turco dimostrato dalle ferme parole di solidarietà di Ankara fin dai primi giorni delle sparatorie ma, naturalmente, non è da escludersi la possibilità che quel 12 luglio da una parte o dall’altra del confine tutto si sia originato per banali errori di valutazione di soldati sul terreno, per fatalità che esulano dalla volontà dei governi.
Ma il momento particolare delle relazioni russo-turche, in Libia e altrove, indica che poco o nulla è stato lasciato al caso. L’assertività di Erdogan in Africa e anche nel Mediterraneo contro la Grecia e Cipro, specie in fatto di perforazioni petrolifere del fondo marino, per non parlare di un messaggio altamente simbolico come la riconsacrazione a moschea della basilica-museo di Santa Sofia a Istanbul, sono tutti segnali inquietanti che sembrano voler impostare i rapporti con la Russia da una posizione di forza relativa, contando sul ricatto della stabilità di tutta la fascia Sud del mondo russo.
Ankara sembra voler porre le sue condizioni all’amicizia con la Russia poiché ritiene di aver la chiave per destabilizzarne i confini meridionali. Al tempo stesso, Erdogan sa anche che fra i componenti della coalizione pro-Haftar che combatte in Libia, la Russia è proprio l’unica che, per ragioni geografiche, è pienamente ricattabile dalla Turchia, a differenza dell’Egitto e degli Emirati, meno esposti nei confronti di Ankara.
Del resto, i turchi sanno bene che la generale superiorità militare russa su di loro, che sulla carta sarebbe ovviamente incolmabile, e senza nemmeno bisogno di prendere in considerazione anche le armi nucleari, è di fatto annullata dall’appartenenza alla NATO che fornisce al paese erede degli ottomani un sufficiente scudo,
Si conferma quindi l’ormai assodata tendenza di Ankara a perseguire i propri interessi imitandosi a usare l’Alleanza Atlantica come una “coperta” in grado di fornire garanzie di impunità. Perciò, ammesso sia corretta la versione della Turchia come “regista” delle azioni azere sul confine armeno, il fine sarebbe quello di impedire che i russi possano ripetere in Libia ciò che hanno già attuato in Siria, quando nel 2015 arrivarono a rompere le uova nel paniere a Erdogan, spingendolo, dopo iniziali contrasti, a mostrare a Putin sorrisi a denti stretti.
E’ un gioco altamente pericoloso, specialmente nella polveriera del Caucaso e, più a Oriente, nei vari “stan” turcofoni corteggiati da Ankara, che un tempo formavano l’Asia Centrale Sovietica.
E se, alla lunga, non causerà disastri, sarà in gran parte merito della preparazione e cautela di una classe diplomatica come quella russa, che già è riuscita a superare a suo tempo 45 anni di “equilibrio del terrore” al tempo della Guerra Fredda.
Ma è anche un gioco forse al limite delle possibilità turche, se si considera che a suo tempo non sono riusciti, perlomeno non in maniera compiuta, i giochi nella vicina, attigua Siria. Più difficile sarà farli riuscire in Libia, più lontana, oltre il mare, mentre lo schieramento avversario conta sul vicino Egitto come retroterra strategico sicuro. Perciò, portare incertezza nel Caucaso, alle spalle di Mosca, è forse l’unica vera alternativa strategica che resta al “sultano”.
Foto: TRT, TASS, Nkrmil.am. Presinza Repubblica Azera, Anadolu, Ministero Difesa Armeno e Ministero Difesa Azero