Recessione USA: Fed sotto accusa, debito alle stelle e sfida con la Cina
Le dinamiche politico-economiche americane sono da tempo al centro dell’attenzione. Gli eventi che hanno condotto al sanguinoso affaire Kirk hanno evidenziato tensioni latenti che hanno condotto al reiterarsi di manifestazioni violente, comprese in un arco temporale che, apparentemente lungo, ha accomunato le sorti di Lincoln e Kennedy, in un crescendo di passioni incontrollate. Quanto accaduto, indicativo di un momento storico concitato e frenetico, ha distolto dall’altra incognita, quella economica, elemento che ha costituito il memento dell’esistenza di pericoli di fatto mai sopiti, a prescindere dall’Amministrazione in carica.
Le crisi profonde, di massima, sono bipartisan. Già nel 2022 il 60% dei CEO americani prevedeva l’abbattersi del diluvio recessivo entro 18 mesi; un incubo con cui ha dovuto convivere Jerome Powell, Chairman della Federal Reserve, alle prese con inflazione e shock energetici causati dal conflitto russo-ucraino, dagli strascichi pandemici sulle supply chains, dalle operazioni intraprese sui tassi di interesse. Già Biden, più o meno consapevolmente, era in errore quando affermava, non si sa quanto credendoci, che l’America era tornata. Ma quale America?
Nel 2025 la recessione, connotata da due trimestri consecutivi di crescita negativa del PIL con contestuale aumento della disoccupazione, è più di una possibilità su cui ragionare, visto quanto emerge dai documenti prodotti dalla Federal Reserve, e considerato che lo staff vede la possibilità che l’economia entri in recessione come probabile, quasi come fosse lo scenario di base. I rischi inflattivi e caratterizzanti una più incisiva disoccupazione sono aumentati, sì da indurre la Banca centrale a mantenere, secondo previsioni, i tassi d’interesse al 4,50% in attesa di tempi migliori. Non è un caso che Trump abbia paventato la possibilità di entrare in una fase di transizione, intravvedendo una possibile recessione con una discesa del PIL.
Secondo Goldman Sachs, le probabilità recessive a breve termine sono salite al 45% visto il possibile decremento delle prospettive di crescita, alla luce sia del boicottaggio dei consumatori stranieri sia di un’incertezza politica che inciderà, nel tempo, sulla spesa in conto capitale.
L’incertezza economica, trascinando la base sociale, esalta il fatto che l’assassinio di Charlie Kirk, nel traumatizzare il Paese, sia riuscito a riportare in superficie divisioni mai sanate, tanto che dietro un’unità conclamata, rimangono profonde vulnerabilità, foriere di possibili ulteriori criticità, tanto da indurre il governatore repubblicano dello Utah, Spencer Cox, a parlare di nazione spezzata. In tutto ciò, il presidente ha definito l’economia in transizione, quasi come se la recessione possa far parte di una più precisa strategia, con un forte aumento del debito pubblico ed un’interpretazione delle flessioni di mercato viste come parte di un contesto volto a garantire correttivi che non forniscono tranquillizzante chiarezza.
Il problema sta nelle valutazioni delle tendenze di lungo periodo, un problema che evidenzia come il debito aumenti senza però riuscire a stimolare un’economia difficilmente sollecitabile anche da parte dei più tradizionali volani di spesa.
Malgrado alcune interpretazioni più favorevoli, l’incertezza continua a crescere tanto da far ritenere che, tra politica presidenziale e rallentamenti globali, come asserisce Larry Fink, CEO di BlackRock, la recessione sia già arrivata, anche alla luce della speranza – vana – che i piani tariffari possano rafforzare l’economia interna riducendo il deficit commerciale. Beninteso, non si tratta solo di un fenomeno yankee, visto che anche i mercati internazionali risentono del momento negativo. La speranza è che l’incipiente recessione, pars constituens di un ciclo economico di passaggio, potrebbe non necessariamente condurre a crisi di lungo termine, con la Fed che, presumibilmente, procederebbe a tagli dei tassi di interesse, certificando una conclamata ma transeunte (si spera) situazione di fragilità.
Ma quanto sarà profonda ed incisiva questa recessione? E soprattutto, quanto potrebbe durare con un’economia già in affanno, con una serpeggiante e persistente inflazione e con un mercato del lavoro paralizzato a causa dei gravami fiscali che rallentano o, addirittura, bloccano le assunzioni, o con l’ossimoro del debito incontrollabile delle carte di credito?
Secondo Morgan Stanley l’economia americana ha testato una sorta di recessione a ondate, in cui l’andamento tra settori differisce l’uno dall’altro, per entrare in contrasto con la recessione da manuale, per cui quasi tutti i settori dell’economia vengono spinti verso il basso.
I rischi ovviamente ci sono; Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analytics, sollecita maggiori attenzioni sull’economia, ritornando tuttavia a suonare la campana della recessione, visto che spesa dei consumatori, edilizia, manifatture e occupazione sembrano in contrazione, con un’inflazione invece in espansione. Difficile in questi frangenti che la Fed possa interpretare il ruolo (improprio) del cavaliere bianco giusto per ovviare ai problemi di liquidità.
Secondo il modello Barclays, dopo le fasi di rapida espansione, espansione, stallo, ci si trova in una condizione di vulnerabilità prossima alla recessione, cosa che conferma la sensazione che l’economia fosse già in fase recessiva dal 2024, che i dati profferti dalla Fed fossero – nella migliore delle ipotesi – involontariamente sbagliati, che paradossalmente l’economia americana, alla luce di quei numeri, fosse contemporaneamente in recessione ed in espansione così, tanto per accontentare il gatto di Schrödinger. Conclusione: fine ingloriosa della narrazione positiva proposta durante una campagna elettorale senza esclusione di colpi, e mercato del lavoro deficitario. Resta da comprendere se e come la questione da tecnico-economica sia divenuta squisitamente politica, cosa che renderebbe più comprensibili gli attacchi portati a posteriori dalla Casa Bianca al presidente della Fed, Powell.
Il rischio è dunque quello di portare la banca centrale, per sua natura indipendente, al centro di un vortice che ne incrina una credibilità giocata e spesa sul tavolo di una politica monetaria basata su dati fuorvianti. Immaginabili le conseguenze, a cominciare dal già invocato licenziamento di Powell, accompagnato da revisioni ribassiste delle assunzioni, condizionate da un’offerta di lavoro ridotta e che andrà a colpire, presumibilmente, le piccole e medie imprese.
L’importante è che il PIL non sia soggetto ad ulteriori distorsioni cognitive, ma che rifletta il reale andamento economico, posto che le tariffe aumenteranno prima della fine dell’esercizio; in sintesi: l’America rischia o no il collasso?
Anche se la fiducia è ai minimi ed il PIL si sta contraendo, il dollaro rimarrà la moneta di riferimento in funzione del fatto che mancano validi concorrenti, cosa che, comunque, non evita il fatto che Washington debba temere di correre il rischio di diventare un anello debole della catena economica; la fiducia dei consumatori è in calo mentre quella delle imprese oscilla sulla sottile linea rossa che separa la crescita dalla contrazione, tanto che nel primo trimestre 2025 il PIL ha fatto segnare una riduzione pari allo 0,3%, avendo sullo sfondo un’escalation sempre più reale della guerra commerciale. Di fatto, il sistema di bilanciamenti politici e regolamentari su cui si è retto finora il sistema americano si sta infrangendo, e potrebbe provocare alla lunga la fuga da Wall Street.
Sia chiaro: il momento è critico per tutti; l’economia cinese, l’espressione finanziaria e mercantile dell’antagonismo egemonico, evidenzia un evidente affanno, incentivato da deflazione e rallentamento delle importazioni. L’indice dei prezzi al consumo di Pechino è sceso dello 0,1% su base annua certificando il quarto mese consecutivo di deflazione, un risultato in linea con le mensilità precedenti e che conferma una domanda interna debole e seri rischi commerciali con gli USA. Mentre le esportazioni segnano un ritmo troppo lento, si delinea il quadro complessivo di un’economia in difficoltà per un surplus produttivo senza sbocchi e per un mercato troppo fragile, fiaccato dal crollo delle spedizioni verso gli USA. Anche in Cina la crescita non può essere sostenibile senza rilanciare la domanda interna ed incentivare la distensione commerciale. Insomma, se Atene piange Sparta non ride, ed anche a Zhongnanhai bisogna cominciare a considerare una possibile recessione, tra crisi immobiliare, debolezza della domanda interna, disoccupazione e tensioni geopolitiche, secondo le linee segnate da una spiccata giapponesizzazione, ovvero da una pesante stagflazione.
Il momento globale non induce a particolari tranquillità; le parate militari e le continue ed incostanti giravolte in politica indeboliscono un quadro di per sé ora inaffidabile, mutando convinzioni radicate che, per non meno di 90 anni, hanno contribuito a conferire una stabilità egemonica e dalle polarizzazioni controllate.
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