Reportage da Varsavia: Guantánamo e i “Forever Prisoners”
Nel fitto calendario della Warsaw Human Dimension Conference, un side event ha riportato al centro del dibattito un dossier spesso eluso: Guantánamo e il destino dei cosiddetti “forever prisoners”.
L’incontro, dal titolo “Guantánamo and the Forever Prisoners”, è stato organizzato da Institutet för Samhällsanalys (INSAN) e Witness Against Torture, con la formula dell’intervista pubblica a Mansoor Adayfi, ex detenuto e autore di “Don’t Forget Us Here”.
La sala ospitava anche una piccola mostra di opere realizzate da ex prigionieri, con particolare rilievo ai disegni attribuiti ad Abu Zubaydah, presentati come rappresentazione delle torture subite nei black sites.
Adayfi ha ricostruito il suo percorso personale, raccontando di essere stato catturato (“venduto”) a 18 anni, detenuto in un sito segreto della CIA e poi trasferito a Guantánamo, dove è rimasto per circa 15 anni senza processo né capi d’accusa formali.
La sua narrazione ha alternato memoria soggettiva e riferimenti a documentazione legale, insistendo su due direttrici: la sistematicità delle violazioni e la costruzione di un linguaggio burocratico capace di sostituire la parola “tortura” con formule come “enhanced interrogation techniques”.

Secondo Adayfi, Guantánamo sarebbe stato organizzato e rimodulato nel tempo come “campo di sperimentazione” sul comportamento dei detenuti, con cicli di isolamento, regimi differenziati, alimentazione forzata e continui trasferimenti interni, in un contesto privo di effettiva accountability.
Il testimone ha indicato nel generale Geoffrey Miller la figura incaricata di “sviluppare” un apparato coercitivo poi esportato in Iraq, richiamando i noti scandali di Abu Ghraib.

Ha parlato di nove decessi complessivi collegati alla detenzione, di ondate di scioperi della fame e di alimentazione forzata praticata per lunghi periodi, descritta come esperienza degradante e dolorosa.
Ha sostenuto che i numeri complessivi dei detenuti transitati nella struttura abbiano superato le 700 unità, con un nucleo di 15 persone ancora presenti e tre classificate come “forever prisoners”, tra cui Abu Zubaydah.

Ha ricordato che molti casi sarebbero stati “chiusi” non da sentenze ordinarie ma da plea deal (accordi extragiudiziali con cui i detenuti ammettevano parzialmente le accuse in cambio della liberazione o di pene ridotte) nel perimetro delle military commissions, un meccanismo eccezionale pensato per evitare il vaglio della giustizia federale quando le prove risultano contaminate dalla tortura o coperte da secretazione.
La dimensione giuridico-politica è emersa in modo netto durante la sessione di domande e risposte.
Adayfi ha ribadito che i procedimenti davanti alle military commissions non sono assimilabili a processi ordinari e che l’architettura speciale di Guantánamo – fra classificazioni, divieti di accesso agli atti e prove estorte – continua a impedire una chiusura “giusta” dei dossier più sensibili.
Ha affermato che alcuni avvocati e organizzazioni che avevano ipotizzato azioni legali risarcitorie avrebbero interrotto le iniziative per timori di ritorsioni, e che i tentativi di ricorso in ambito internazionale non hanno finora prodotto esiti sostanziali.

Ha descritto inoltre le difficoltà della vita “dopo” Guantánamo: sorveglianza amministrativa, stigma sociale, ostacoli all’occupazione, limiti ai viaggi e all’accesso ai servizi essenziali, con differenze rilevanti da paese a paese di ricollocazione.
Il racconto ha toccato anche la questione dei black sites e della rendicontazione pubblica sulle pratiche post-11 settembre, ribadendo che il lessico della “guerra al terrore” avrebbe normalizzato eccezioni destinate poi a riverberarsi su altri ambiti.
In questo quadro, Adayfi ha collegato retoriche securitarie e dispositivi amministrativi impiegati contro migranti, attivisti e giornalisti, presentando la sua tesi come monito su un possibile slittamento delle pratiche emergenziali verso il diritto comune.

Nel dibattito sono emersi interrogativi essenziali: quante condanne “piene” siano mai state ottenute in un foro ordinario; su quale base giuridica si regga l’idea stessa di “forever prisoner”; quali livelli minimi di riconoscimento, riabilitazione e compensazione sarebbero necessari per poter parlare davvero di chiusura di Guantánamo.
La risposta di Adayfi è stata netta: chiudere la struttura non significa soltanto spegnerne le luci, ma ammettere gli errori, accertare le responsabilità, risarcire i danni e garantire percorsi concreti di reintegrazione per le persone liberate.

Come Difesa Online, abbiamo chiesto se, in retrospettiva, non si consideri in qualche modo “fortunato” ad essere stato imprigionato, visto che molti di quelli “venduti” in Afghanistan sono stati uccisi o cancellati assieme a intere famiglie o villaggi.
Adayfi ha annuito, ricordando come, già a Guantánamo, nel 2010, i detenuti scoprirono l’esistenza dei bombardamenti mirati. “Un giorno abbiamo visto in televisione un attacco in Yemen, non lontano da dove vivevo: un intero villaggio di beduini, con famiglie, tende, animali, era stato spazzato via. In quel momento ho pensato che, paradossalmente, essere a Guantánamo mi aveva salvato la vita. Lì almeno non potevano colpirmi con un drone!”
Nel silenzio che spesso circonda Guantánamo, l’evento di Varsavia ha proposto almeno un antidoto: ascoltare i fatti dalla voce di chi li ha vissuti e chiedere, con precisione, le risposte che mancano.
Foto: Difesa Online
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