Reportage da Varsavia: “Investigating War Crimes of Authoritarian Regimes”
Nel side event della Warsaw Human Dimension Conference dell’OSCE, organizzato dall’ONG Union of Informed Citizens, giornalisti, ricercatori e attivisti da Ucraina, Bielorussia e Armenia hanno raccontato come si documentano i crimini di guerra in contesti inaccessibili. Dalle deportazioni e dal reclutamento forzato nelle aree ucraine occupate, ai campi di filtraggio bielorussi, fino alla sistematica cancellazione dell’eredità culturale armena nel Nagorno-Karabakh, il confronto ha mostrato l’importanza dell’indagine indipendente come strumento di verità e di memoria collettiva.
L’incontro “Investigating War Crimes of Authoritarian Regimes”, svoltosi oggi nella sala Krolewski 3, è stato aperto da Daniel Ioannisyan, coordinatore di Union of Informed Citizens, ONG armena impegnata nella trasparenza istituzionale e nella promozione dei diritti umani.
Nel suo intervento introduttivo, Ioannisyan ha ricordato che oggi gran parte dei crimini di guerra avviene in contesti autoritari o sotto occupazione militare, dove la stampa indipendente è repressa o messa a tacere. «Le guerre del XXI secolo – ha spiegato – non sono più solo combattute sul terreno, ma anche nella sfera informativa. Eppure, grazie agli strumenti OSINT, i giornalisti e i ricercatori riescono a documentare crimini e abusi anche senza poter accedere fisicamente ai luoghi».
Tre testimonianze – provenienti da Ucraina, Bielorussia e Armenia – hanno mostrato come la ricerca indipendente e il giornalismo investigativo diventino oggi una forma di resistenza civile e di tutela della verità.
Ucraina: l’occupazione invisibile e la “mobilitazione forzata”
Galina Petrenko, direttrice dell’organizzazione ucraina Detector Media, ha illustrato anni di lavoro dedicato al monitoraggio delle aree temporaneamente occupate.
«I nostri giornalisti – ha detto – non possono entrare in quei territori, ma abbiamo trovato altri modi per capire cosa accade».

Ha descritto la realtà del reclutamento forzato nelle regioni controllate dalla Russia: un fenomeno di massa che colpisce in modo sproporzionato i tatari di Crimea. «Il 90% delle chiamate di leva da settembre 2022 riguarda uomini tatari – ha sottolineato – costretti a combattere contro il proprio Paese».
Accanto alla mobilitazione, Petrenko ha illustrato un programma di “educazione militare” dei minori. Eventi come il Conscript Day, corsi di addestramento nelle scuole e la diffusione del movimento giovanile Yunarmia (Youth Army) contribuiscono alla militarizzazione dell’infanzia.
«Si crea un immaginario di guerra permanente in cui la Russia si presenta come difensore del bene e l’Ucraina come nemico esistenziale. È un lavoro di propaganda di lungo periodo che prepara le nuove generazioni al conflitto».
Ha poi descritto i cosiddetti “campi di rieducazione” in Russia, dove bambini ucraini deportati vengono sottoposti a indottrinamento e in alcuni casi impiegati nella produzione di droni. Secondo ricerche dell’Università di Yale, oltre 200 centri avrebbero questa funzione.
Infine, Petrenko ha ricordato i rischi corsi da giornalisti e attivisti nelle aree occupate: «Il Consiglio d’Europa ha chiesto il rilascio immediato di 26 reporter ucraini detenuti in Russia. Molti altri sono stati torturati fino alla morte».
Bielorussia: la retrovia della guerra e i campi di filtraggio
Stanislau Ivashkevich, del Belarusian Investigative Center, ha illustrato le indagini del suo team sui legami tra Minsk e l’invasione russa.
Attraverso documenti ospedalieri ottenuti in modo indipendente, gli investigatori hanno tracciato i movimenti di centinaia di soldati russi feriti nei primi mesi della guerra e curati a Gomel, vicino al confine ucraino. Incrociando quei dati con testimonianze e foto, è stato possibile collegare alcuni militari alle uccisioni di civili a Bucha e Hostomel.

Un’altra inchiesta ha individuato un campo di filtraggio a Naroch, nel sud della Bielorussia, dove sarebbero stati detenuti civili e prigionieri ucraini, compresi minorenni. «Abbiamo parlato con sopravvissuti – ha spiegato Ivashkevich – molti hanno raccontato torture e pestaggi. I militari russi stessi ammettevano che i civili venivano picchiati più duramente dei soldati».
Il giornalista ha inoltre raccontato la propaganda rivolta ai minori deportati in Bielorussia, con spettacoli musicali dove artisti filo-governativi inneggiavano alla morte di Biden e Zelensky. «È un linguaggio che normalizza la violenza e alimenta l’odio».
Nella parte finale, Ivashkevich ha denunciato il rallentamento dei controlli occidentali sulle sanzioni. «Dopo il 2025, gli Stati Uniti hanno quasi cessato di monitorare l’elusione. Oggi macchinari di produzione americana arrivano comunque all’industria militare russa, passando da società di comodo cinesi o taiwanesi».
Armenia: la distruzione della memoria nel Nagorno-Karabakh
La testimonianza più intensa è stata quella di Ani Grigoryan, giornalista investigativa e responsabile di CivilNetCheck.
Attraverso immagini satellitari, video pubblicati da canali militari azeri e mappe storiche, ha documentato quella che definisce «una cancellazione culturale pianificata».

«Abbiamo raccolto prove della distruzione di chiese, monasteri, cimiteri e villaggi armeni nelle regioni del Nagorno-Karabakh passate sotto controllo azero tra il 2020 e il 2023. A Shushi, per esempio, la cupola della cattedrale di Ghazanchetsots è stata rimossa con la scusa di un restauro, ma l’edificio è stato alterato fino a perdere il suo aspetto originario».
In altre aree, come Hadrut e Harut, i villaggi armeni sono stati completamente demoliti. «In due anni – ha proseguito – non è rimasta in piedi una sola abitazione. Al loro posto sorgono nuove infrastrutture azere e moschee costruite dove, storicamente, non ne esistevano. È un tentativo di riscrivere la memoria del territorio».
La giornalista ha sottolineato che non si tratta solo di distruzione materiale: «È un attacco simbolico all’identità armena. Alterare un monumento o cancellare un’iscrizione significa riscrivere la storia di un popolo».

CivilNet ha inoltre analizzato, con strumenti OSINT, l’avanzamento di infrastrutture militari azere oltre il confine armeno. Le mappe mostrano nuove strade e postazioni fino a sette chilometri all’interno del territorio della Repubblica d’Armenia. «Il messaggio è chiaro: non è un’occupazione temporanea, ma una presenza destinata a consolidarsi».
Giornalisti come bersagli e la propaganda della crudeltà
Nel dibattito finale, Ioannisyan ha chiesto se oggi i giornalisti siano considerati più pericolosi dei soldati.
Petrenko ha risposto che «in una guerra totale la libertà d’informazione è una minaccia diretta per chi governa con la menzogna». Grigoryan ha ricordato i casi di reporter stranieri uccisi nel Nagorno-Karabakh nel 2020, mentre Ivashkevich ha citato le proteste bielorusse del 2020, quando «la polizia mirava prima di tutto a chi portava la scritta PRESS».

La discussione si è poi accesa con gli interventi di alcuni rappresentanti azeri, che hanno contestato la terminologia armena e parlato di restauri in corso. Ioannisyan ha ribadito che «chiunque, anche da Baku, può presentare formali richieste di accesso agli archivi armeni», sottolineando che «la differenza tra un regime autoritario e uno democratico è che nel secondo le domande non portano in prigione».
Nel dibattito, Difesa Online ha chiesto alla relatrice ucraina se parlare pubblicamente di “reclutamento forzato” non sia rischioso, visto che lo stesso termine (con a supporto centinaia di video ucraini) viene usato dalla propaganda russa per accusare Kyiv.
La risposta è stata: «La differenza è evidente: noi mobilitiamo cittadini ucraini per difendere la nostra patria; la Russia mobilita cittadini ucraini nelle aree occupate per farli combattere contro di noi. È un crimine, riconosciuto come tale dal diritto internazionale».
In chiusura, i relatori hanno affrontato il tema della spettacolarizzazione della violenza. Video di prigionieri giustiziati, corpi mutilati e trofei di guerra vengono diffusi e celebrati come atti eroici. «È una guerra trasmessa in diretta – ha detto Petrenko – che anestetizza lo spettatore e normalizza l’orrore». Grigoryan ha ricordato i video dell’esecuzione di nove prigionieri armeni, diffusi con orgoglio da militari azeri: «Il problema non è solo il crimine, ma la sua messa in scena. L’orrore diventa strumento politico».
Il panel ha mostrato come giornalisti, ricercatori e attivisti civili riescano, anche in condizioni proibitive, a raccogliere prove, mappare violazioni e fornire strumenti per future indagini giudiziarie.
Dalle parole dei relatori è emerso un filo comune: la ricerca della verità come forma di resistenza contro l’oblio e la manipolazione.
Senza la documentazione indipendente – hanno ricordato – la memoria dei conflitti resta prigioniera della propaganda dei vincitori.
Foto: Difesa Online
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