Reportage da Varsavia: “Occupare terre senza le anime: Le guerre dei dittatori contro le popolazioni civili”
Ieri mattina, durante la Warsaw Human Dimension Conference dell’OSCE, si è tenuto il primo evento collaterale che abbiamo seguito: “Taking land without souls: Dictators’ Wars Against Civilian Populations”, organizzato dalla Union of Informed Citizens.
Il panel, in lingua inglese, ha acceso i riflettori su una tendenza inquietante: l’uso sistematico della violenza contro i civili da parte di regimi autoritari che, pur proclamando di non colpire popolazioni innocenti, mirano in realtà a svuotare territori interi.
La moderatrice ha aperto i lavori sottolineando come non bastino numeri e statistiche per comprendere l’impatto reale della guerra: oggi la strategia di “occupare terre senza anime” significa esecuzioni arbitrarie, torture, deportazioni e sfollamenti di massa, non come effetti collaterali ma come obiettivi pianificati. L’attenzione si è concentrata sui rifugiati, sulle loro esigenze più urgenti e sul costo umano nascosto dietro i dati.
L’esodo armeno e la vita spezzata nel Nagorno-Karabakh
La prima a intervenire è stata Vardine Grigoryan, attivista per i diritti umani armena. Ha descritto l’esodo dal Nagorno-Karabakh come risultato di una strategia di lungo periodo volta a rendere invivibile la vita quotidiana.
Dopo la guerra del 2020 molti armeni erano tornati confidando nella protezione dei peacekeeper russi, ma episodi di fuoco azero contro civili intenti a lavorare la terra, persino in presenza dei militari, hanno presto smentito quella speranza.

Il blocco di otto mesi imposto alla regione ha tagliato carburante, trasporti e beni essenziali, costringendo intere comunità a lasciare le proprie case già prima dell’offensiva lampo del 2023. Il giorno più tragico, ha ricordato Grigoryan, è stato l’esplosione di un deposito di carburanti durante la fuga: circa duecento morti, centinaia di feriti gravi e molti corpi mai identificati. “Una tortura senza fine” – così ha definito l’incertezza che pesa sui familiari dei dispersi, privati perfino della possibilità di piangere su una tomba.
Dopo l’arrivo in Armenia, le organizzazioni della società civile hanno fornito assistenza legale e documentale, portando decine di casi fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma il ritorno appare irrealistico: in un contesto autoritario, ha detto l’attivista, non esistono garanzie minime di sicurezza personale, e persino voci azere critiche rischiano di non sentirsi al sicuro in patria.
L’Armenia ha accolto in pochi giorni l’equivalente del cinque per cento della propria popolazione, evitando tendopoli e predisponendo alloggi; una misura apprezzata è stata l’assegnazione di voucher per acquistare case, ma legare il beneficio alla cittadinanza armena crea un dilemma: molti temono che significhi rinunciare ai propri beni e al diritto di tornare.
Dall’accoglienza alla stanchezza: il fronte ucraino in Europa
La seconda relatrice, Ines Julia Ramlau, attivista per i diritti umani impegnata nella tutela dei rifugiati ucraini, ha portato la prospettiva dell’Europa orientale.
Dopo l’invasione russa del 2022 la Polonia aveva aperto case e servizi “con i panini in mano” ai valichi di frontiera; tre anni dopo, ha osservato, il clima è cambiato: retoriche anti-migranti, hate speech e persino aggressioni fisiche colpiscono chi un tempo era stato accolto con solidarietà. Questa “fatica dell’accoglienza” è stata usata come leva politica e ha alimentato un quadro normativo incerto.

Il nodo principale è la protezione temporanea, pensata come misura ponte e ora divenuta terreno instabile. L’ipotesi di condizionarla al lavoro rischia di lasciare senza tutela categorie vulnerabili – anziani, persone con disabilità, madri sole, veterani – che non possono mantenersi autonomamente. Molti profughi provenienti dai territori occupati arrivano inoltre senza documenti, spesso trattenuti o sottratti dalle autorità occupanti; la mancanza di strumenti per riconoscere l’apolidia porta a detenzioni amministrative e a lunghi limbi burocratici. Anche minori sottratti e successivamente fuggiti si trovano senza identità ufficiale, con un futuro incerto.
Ramlau ha lanciato un appello all’Unione europea: servono soluzioni durevoli che diano stabilità giuridica, continuità scolastica ai bambini e un orizzonte economico certo alle famiglie. Senza, la paura iniziale delle bombe lascia spazio a una nuova paura, quella di non avere più un posto sicuro dove vivere.
Propaganda e politiche: un circuito che alimenta esclusione
Rispondendo alle domande del pubblico, le due attiviste hanno spiegato che propaganda e politica si alimentano a vicenda. Le narrazioni manipolate, anche provenienti dall’estero, creano bolle informative che influenzano l’opinione pubblica; i leader politici le intercettano e le amplificano per guadagnare consenso, irrigidendo norme e percezioni. Nei regimi autoritari la retorica identitaria e i progetti di “ritorno” vengono usati anche senza una reale domanda sociale, mentre nelle democrazie la ricerca di voti può tradurre la stanchezza in politiche restrittive che colpiscono proprio chi ha più bisogno di protezione.

La parte finale dell’incontro è stata segnata da domande e interventi (soprattutto di presenti azeri) che hanno cercato di spostare il confronto sulla conta storica delle sofferenze. Le relatrici hanno rifiutato la “gara a chi ha patito di più”, riportando la discussione ai diritti e alla sicurezza di chi oggi è vivo e vulnerabile. La protezione dei civili, hanno ribadito, non ammette eccezioni e non può essere relativizzata.
Dalla sala è emersa con chiarezza un’unica esigenza: dare stabilità e futuro alle persone costrette a fuggire. Sicurezza, status legale certo, istruzione, lavoro e assistenza sono condizioni senza le quali l’uscita dalla guerra rischia di trasformarsi solo in una diversa forma di precarietà, dove la paura non è più quella delle bombe ma quella di un domani sospeso.
Foto: Difesa Online
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