Sconfitti dai talebani, umiliati dagli emiratini
La cerimonia di ammaina bandiera del contingente italiano a Herat ha suggellato la sconfitta dell’Occidente, degli USA in primis e poi di tutta la NATO, nella più importante campagna combattuta contro i jihadisti dopo l’11 settembre 2001.
Frasi di circostanza e apprezzamenti per il lavoro di qualità svolto dai nostri militari hanno doverosamente evidenziato quanto di buono è stato fatto anche dall’Italia in questi 20 anni di impegno afghano ma non potevano certo coprire le dimensioni di una sconfitta epocale per le potenze occidentali. Una disfatta il cui peso è stato affievolito solo dalla fine di un’operazione militare la cui agonia si trascinava da almeno sei anni, da quando vennero ritirate le forze da combattimento alleate per lasciar spazio a una operazione di solo supporto addestrativo e consulenza alle forze afghane (Resolute Support).
Cacciati dai talebani come gli altri membri della Coalizione, a noi italiani l’8 giugno è toccato pure subire la sferzante umiliazione inflittaci degli Emirati Arabi Uniti, che hanno negato il sorvolo del loro spazio a un aereo militare italiano da trasporto Boeing B-767A dell’Aeronautica carico di militari e giornalisti diretti a Herat per la cerimonia di ammaina bandiera.
Non hanno solo impedito il sorvolo al nostro velivolo ma hanno vietato che atterrasse ad al-Minhad, Base Aerea Logistica Avanzata (nella foto sotto) da anni utilizzata dall’Aeronautica italiana come scalo logistico per le missioni in Iraq e Afghanistan.
Una evidente rappresaglia del governo emiratino, che vietando atterraggio e sorvolo a un aereo pieno di giornalisti ha ottenuto la massima amplificazione dello schiaffo rifilato all’Italia, per i ripetuti sgarbi di Roma sul fronte delle forniture militari.
Come abbiamo più volte commentato su Analisi Difesa paghiamo il conto per la cancellazione dei contratti con gli Emirati Arabi Uniti per le bombe di RWM-Italia ma anche per i pezzi di ricambio per gli aerei MB-339A della pattuglia acrobatica emiratina, creata a immagine e somiglianza della PAN.
Un boicottaggio che riguarda anche l’Arabia Saudita, legato alle vittime civili dei bombardamenti nello Yemen, guerra da cui peraltro gli emiratini si sono ritirati da tempo e in cui le Nazioni Unite non contestano più crimini alle forze della Coalizione araba a guida saudita.
Sarebbe stato da ingenui pensare che non ci sarebbero state rappresaglie per l’ennesima umiliante fregatura rifilata agli emiratini negando loro il rispetto di contratti già firmati per forniture aeree.
Il mese scorso titolammo un editoriale si questo tema “Tanto tuonò che piovve” mentre oggi potremmo affermare “tanto piovve che ci bagnammo”.
Facile quindi trarre le cosiddette lezioni apprese da quella che potremmo definire “la beffa dell’emiro”: l’Italia raccoglie quello che ha seminato prima nella Commissione Esteri della Camera e poi alla Farnesina.
Oggi subiamo una rappresaglia che ridicolizza l’Italia ma potrebbe anche andare peggio perché Abu Dhabi, oltre a stracciare i contratti commerciali per il made in Italy in settori diversi dalla Difesa, potrebbe anche imporci di lasciare la base aerea di al-Minhad (nella foto siotto) complicando non poco la logistica del ritiro dall’Afghanistan.
Certo esiste in accordo bilaterale per l’uso di quella base ma del resto esistevano contratti regolari anche per le forniture militari agli EAU che Roma ha reso carta straccia.
Un’altra lezione di cui alcuni ambienti parlamentari e ministeriali dovrebbero far tesoro, è che le nazioni che guardano con ambizione al proprio rango di potenza valutano i rapporti bilaterali in ambito globale. Lo stop alle forniture militari è uno sgarbo che ricade su tutto l’interscambio commerciale. E che gli EAU siano una grande potenza anche nel Mediterraneo sarebbe il caso se accorgessero tutti in Italia: gli emiratini hanno basi, militari e contractors nella Cirenaica libica e hanno inviato caccia F-16 a Creta in appoggio ai greci ai ferri corti con i turchi.
Infine, l’Italia non può più permettersi di lasciare la sua politica estera in balia di dilettanti che si credono Metternich e a pacifisti da oratorio e centro sociale, né alle lobby filo-francesi e più recentemente anche filo-cinesi e filo-iraniane la cui somma può solo produrre danni agli interessi nazionali.
Ora che ci siamo bruciati in pratica in tutto il Mediterraneo allargato, la “beffa dell’emiro” ha avuto almeno l’effetto di imporre a molti di chiedersi come poter ricucire i rapporti con gli Emirati Arabi Uniti (e con sauditi ed egiziani). Il modo più rapido ed efficace è ripristinare immediatamente i contratti per la Difesa interrotti.
Ieri il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, ne ha certamente parlato in una conversazione telefonica con il suo omologo emiratino, Mohammed bin Ahmed al-Bowardi, che potrebbe aver sbloccato la situazione.
In Italia la notizia non sembra essere stata resa nota ma secondo l’agenzia di stampa di Stato emiratina WAM, ripresa in Italia dall’Agenzia Nova, i due ministri hanno discusso del “rafforzamento della cooperazione tra i due Paesi in campo militare e nel settore della difesa” e delle “modalità per sviluppare le loro relazioni al servizio degli interessi dei rispettivi Paesi”.
Sarebbe estremamente positivo se il Ministero della Difesa assumesse un’iniziativa idonea a riparare i danni provocati dal Ministero degli Esteri, anche perchè in ballo ci sono il nostro assetto strategico e geopolitico in Medio Oriente e importanti commesse militari di cui l’Italia ha oggi più che mai bisogno per salvaguardare le aziende hi-tech della Difesa e Aerospazio e i posti di lavoro ultra qualificati.
Un tema molto caro ad Analisi Difesa, che più volte ha evidenziato la necessità di colmare con ingenti ordini militari il gap di commesse civili che ha fatto seguito all’epidemia di Covid, ma che stranamente non sembra raccogliere molto interesse.
Lo ha confermato purtroppo anche in queste ore le scarse reazioni (al momento in cui scriviamo dal governo l’unica voce che si è sentita è stata quella del sottosegretario alla Difesa, Stefania Pucciarelli) suscitate dal mega contratto siglato da Fincantieri in Indonesia per 6 nuove fregate Fremm e 2 vecchie classe Maestrale dismesse che la Marina potrà vendere all’azienda cantieristica che le ammodernerà prima di cederle a Giakarta.
Un contratto stimato oltre 4 miliardi di euro (quasi quanto l’intero export nazionale dell’anno scorso nel settore Difesa) che garantirà i posti di lavoro esistenti e ne aggiungerà di nuovi a Fincantieri e in molte altre aziende grandi e piccole producendo punti preziosi di PIL alla vigilia dello sblocco dei licenziamenti che si abbatterà sull’occupazione in Italia.
Un contratto che, vale la pena sottolinearlo in un’epoca in cui tanto si parla di esportare grazie agli accordi tra governi (GtoG), negoziato e concluso interamente dall’azienda guidata da Giuseppe Bono in una delle due aree del mondo (l’altra è il Medio Oriente) in cui la spesa militare è in costante e vertiginosa crescita.
Per chiudere con un pizzico di amarezza si può affermare che se da un lato non ha meravigliato la vasta eco mediatica avuta dalla “beffa emiratina”, dall’altro sorprende il silenzio istituzionale con cui è stato accolto il successo commerciale di Fincantieri che sta imponendo la FREMM italiana come unità da combattimento di riferimento sul mercato.