Tra Verdun e Pearl Harbor, dal Donbass allo Stretto di Taiwan: perché il 2026 è una “finestra critica” globale
Le dichiarazioni del segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth sull’urgenza di orientare l’apparato industriale-militare americano verso ritmi produttivi da “grande guerra” segnano un passaggio di fase nell’atteggiamento di Washington verso le crisi in corso. Non si tratta di retorica bellicista, ma del riconoscimento esplicito che gli Stati Uniti si preparano a scenari di confronto ad alta intensità con avversari pari o quasi-pari. L’evocazione del 1939 – e non del 1914 – è linguisticamente significativa: indica consapevolezza dello scontro, non scivolamento inconsapevole nell’abisso.
Taiwan come nodo strategico irrisolto
La questione taiwanese rappresenta il fulcro della competizione sino-americana per l’egemonia indo-pacifica. A inizio novembre, dopo il vertice Trump-Xi in Corea del Sud, è stato concordato un canale di comunicazione militare diretta tra Hegseth e il ministro cinese Dong Jun, formalmente destinato a “deconflittare” eventuali incidenti. Dietro l’apparente normalizzazione diplomatica, però, permangono divergenze strutturali inconciliabili.

Il ministro Dong ha ribadito la narrazione ufficiale di Pechino: la riunificazione costituisce “tendenza storica inarrestabile”, vincolo identitario del Partito Comunista Cinese che trascende qualsiasi calcolo costi-benefici di breve periodo. Hegseth, dal canto suo, ha riaffermato l’impegno statunitense a preservare l’equilibrio di potere nell’Indo-Pacifico, formula che sottintende la disponibilità a intervenire militarmente qualora Pechino tentasse una soluzione di forza.
La frizione con Tokyo ha evidenziato la fragilità di questo equilibrio. La premier giapponese Sanae Takaichi, nota per posizioni critiche verso Pechino, ha incontrato rappresentanti taiwanesi al vertice APEC, suscitando l’ira del Ministero degli Esteri cinese. Organi di stampa di Stato hanno ventilato possibili “prezzi da pagare” per quella che considerano violazione del principio di “una sola Cina”. L’ambasciatore cinese negli Stati Uniti (foto seguente) ha formalizzato quattro “linee rosse” invalicabili: Taiwan, diritti umani, sistema politico interno, modello di sviluppo. Il messaggio è chiaro: l’attraversamento di tali soglie destabilizzerebbe irrimediabilmente le relazioni bilaterali.
L’amministrazione Trump mostra un volto gianesco sulla questione. Se da un lato promette che Pechino non invaderà Taiwan durante il suo mandato e che Washington è pronta a “combattere e vincere”, dall’altro il presidente ha evitato di confermare esplicitamente l’impegno a impedire militarmente un’acquisizione forzata dell’isola. Nel frattempo, Taiwan affronta ritardi nella consegna di sistemi d’arma cruciali (caccia F-16V, bombe plananti) che ne minano la capacità di deterrenza autonoma.

L’obiettivo dichiarato di Pechino – garantire all’Esercito Popolare di Liberazione la capacità operativa di conquistare Taiwan entro il 2027 – viene considerato dagli analisti più aspirazionale che vincolante. Tuttavia, la seconda metà del 2026 emerge sempre più frequentemente come “finestra critica”: momento in cui capacità militari cinesi maturate, condizioni meteorologiche favorevoli e fattori geopolitici contingenti potrebbero convergere. La questione non è se Pechino userà la forza, ma quando e a quali condizioni ritiene di poterlo fare minimizzando i rischi.
Pokrovsk come metafora della guerra di logoramento
Mentre l’attenzione strategica si concentra sull’Indo-Pacifico, il fronte ucraino consuma risorse, vite e credibilità occidentale in una guerra di logoramento che richiama le battaglie del Novecento. Pokrovsk – città che contava 60.000 abitanti prima della guerra e ne ospita oggi circa 7.000 – rappresenta l’epicentro di quello che alcuni analisti definiscono “la Verdun russa”: battaglia di attrito dove ogni metro di terreno viene conteso con sproporzioni di perdite che ricordano gli scenari più cupi della Grande Guerra.
Recentemente, assalti russi condotti con veicoli leggeri (motociclette, automobili civili modificate, mezzi militari) hanno ottenuto successi parziali ma tatticamente significativi. La conquista di Sukhyi Yar, insediamento chiave a sud di Pokrovsk, fornisce a Mosca un trampolino operativo per ulteriori avanzate verso Kramatorsk e Slovyansk, le maggiori città ucraine ancora sotto controllo governativo nel Donetsk.
Il comandante Syrskyi ha confermato la concentrazione di circa 150.000 effettivi russi nell’offensiva su Pokrovsk. Le forze ucraine respingono quotidianamente decine di assalti, ma la presenza di centinaia di soldati russi già operanti dentro il perimetro urbano testimonia la precarietà della situazione. Le autorità militari ucraine ammettono, con formula eufemistica, che “la logistica è complicata” – modo per dire che le linee di rifornimento sono sotto fuoco costante e i rifornimenti avvengono con perdite crescenti.

Il fronte non si limita a Pokrovsk. Nella regione meridionale di Zaporizhia, le forze ucraine hanno dovuto abbandonare diversi villaggi dopo che “tutti i rifugi e le fortificazioni sono stati distrutti de facto” – ammissione rara che illustra l’intensità e l’efficacia del bombardamento russo. “Utilizzando la superiorità numerica, il nemico è avanzato in feroci combattimenti”, hanno dichiarato fonti militari ucraine.
Tattiche del XXI° secolo, dottrine del XX°
L’evoluzione tattica osservata sul campo ucraino offre uno sguardo inquietante sul futuro dei conflitti ad alta intensità tra attori dotati di tecnologia avanzata. Le forze russe hanno sviluppato una metodologia operativa che combina ricognizione hi-tech (droni, satelliti, sensori) con assalti in massa che ricordano le offensive della Prima Guerra Mondiale.
Il pattern è ricorrente: i sistemi di sorveglianza identificano lacune nelle difese nemiche; piccoli gruppi d’assalto vengono lanciati sapendo che la maggioranza verrà annientata dai droni e dall’artiglieria ucraina; i sopravvissuti avanzano metodicamente per localizzare ed eliminare gli operatori di droni nemici; una volta neutralizzata la minaccia aerea, ingaggiano combattimenti ravvicinati dove la superiorità numerica russa fa la differenza.
È guerra di logoramento condotta con strumenti del XXI secolo ma animata dalla mentalità del 1916. La differenza fondamentale risiede nella velocità del ciclo operativo: ciò che a Verdun richiedeva settimane si consuma ora in ore o giorni. Ma il risultato strategico è identico: emorragia continua di risorse umane per guadagni territoriali minimi, con perdite che privilegiano sistematicamente l’attaccante.
Dopo oltre tre anni di resistenza straordinaria, emerge l’interrogativo strutturale che nessuno a Kiev o nelle capitali occidentali vuole affrontare esplicitamente: cosa accade quando una democrazia di medie dimensioni, anche con sostegno esterno massiccio ma politicamente vincolato, affronta un’autocrazia demograficamente ed economicamente superiore, disposta a sacrificare centinaia di migliaia di vite per obiettivi considerati esistenziali?

La scommessa strategica di Putin è sempre stata duplice: sopravvivere politicamente alla volontà occidentale di sostenere Kiev; sopraffare militarmente l’Ucraina attraverso pura superiorità numerica e capacità di sostenere perdite che una democrazia non tollererebbe. Strategia brutale, costosa, inefficiente – ma potenzialmente efficace nel medio-lungo periodo, posto che il Cremlino mantenga controllo interno e che l’Occidente si stanchi prima di Mosca.
Il paradosso nucleare e la geografia dei conflitti limitati
La differenza cruciale rispetto ai precedenti storici del 1914 e 1939 risiede nell’arsenale nucleare. La mutua distruzione assicurata dovrebbe, in teoria, rendere impensabile la guerra totale tra grandi potenze. Ma il paradosso dell’era nucleare è che mentre rende meno probabile il conflitto totale, rende contestualmente più attraente – e praticabile – l’opzione dei conflitti “limitati” geograficamente e intensivamente, dove le superpotenze testano determinazione reciproca senza varcare la soglia dell’annichilimento reciproco.
Ucraina e Taiwan rischiano di diventare i teatri privilegiati di questa nuova modalità di confronto egemonico: Stati che combattono non solo per la propria sopravvivenza nazionale, ma come proxy di rivalità sistemiche che li trascendono. Situazione che pone interrogativi morali profondi sulla responsabilità delle grandi potenze e sulla sostenibilità di un ordine internazionale che permette – o addirittura incoraggia – tali dinamiche.

La dimensione demografica come vincolo strategico
La demografia rappresenta il vincolo strutturale più sottovalutato nell’analisi dei conflitti in corso. L’Ucraina, con circa 40 milioni di abitanti prima della guerra (probabilmente meno di 35 oggi, considerando rifugiati e perdite), affronta un avversario che può mobilitare risorse umane da una popolazione di oltre 140 milioni. Anche assumendo che le perdite russe siano proporzionalmente superiori – e tutti i dati disponibili lo confermano – la matematica demografica rimane strutturalmente sfavorevole a Kiev nel lungo periodo.
Non si tratta solo di conteggi numerici, ma di conseguenze generazionali: l’Ucraina sta perdendo un’intera coorte di giovani maschi in età riproduttiva, con conseguenze demografiche, economiche e sociali che si protrarranno per decenni. La sostenibilità di una resistenza indefinita diventa quindi questione non solo militare o politica, ma esistenziale per la sopravvivenza stessa della nazione ucraina come entità demograficamente vitale.
Per la Cina, di fronte allo scenario Taiwan, i calcoli sono differenti ma ugualmente complessi. Pechino deve valutare non solo la capacità militare di conquistare l’isola, ma il costo complessivo – economico, diplomatico, reputazionale, umano – di un’operazione che potrebbe trasformarsi in occupazione prolungata di territorio ostile, con conseguenze imprevedibili per la stabilità interna del regime. La politica del figlio unico, pur formalmente abbandonata, ha lasciato un’eredità demografica che rende la società cinese contemporanea meno tollerante verso perdite militari significative rispetto alle generazioni precedenti.

La guerra delle narrazioni come teatro strategico
In un’era di connettività globale istantanea e saturo ecosistema informativo, la dimensione narrativa dei conflitti assume rilevanza strategica pari – se non superiore – a quella cinetica. La battaglia per Pokrovsk si combatte simultaneamente nelle strade devastate della città e sugli schermi di milioni di persone in tutto il mondo. Ogni avanzata russa viene amplificata dai media filo-Cremlino come prova inconfutabile della vittoria inevitabile; ogni atto di resistenza ucraina viene celebrato come dimostrazione della futilità degli sforzi russi.
Questa guerra narrativa influenza direttamente e materialmente la volontà delle democrazie occidentali di continuare a sostenere Kiev. Un’opinione pubblica progressivamente affaticata, esposta quotidianamente a notizie di perdite ucraine e avanzate territoriali russe, potrebbe gradualmente esercitare pressioni sui propri governi per ridurre il sostegno o forzare negoziati alle condizioni del Cremlino. La propaganda non vince le guerre sul campo, ma può efficacemente minare nel tempo la determinazione politica necessaria per sostenerle.
Nel contesto taiwanese, questa dinamica assume contorni ancora più complessi e potenzialmente destabilizzanti. Pechino potrebbe calcolare che una dimostrazione di forza militare schiacciante – blocco navale, bombardamento, operazioni anfibie dimostrative – anche senza invasione e occupazione effettiva, potrebbe essere sufficiente a demoralizzare la popolazione dell’isola e convincere l’opinione pubblica occidentale che la difesa di Taiwan non vale il rischio di confronto diretto con la Cina.

Il dilemma della deterrenza nell’era della razionalità divergente
La teoria classica della deterrenza si fonda su un presupposto fondamentale: l’avversario è attore razionale che calcola costi e benefici secondo parametri comparabili, concludendo che i costi dell’aggressione supererebbero i benefici ottenibili. Ma cosa accade quando questa razionalità condivisa viene meno, o quando i parametri di calcolo differiscono così radicalmente da rendere impossibile la comprensione reciproca?
Putin potrebbe razionalmente calcolare che il controllo dell’Ucraina orientale, la dimostrazione della debolezza strategica occidentale e il consolidamento del proprio regime interno valgano qualsiasi prezzo in termini di sanzioni economiche, isolamento diplomatico e perdite militari. Xi Jinping potrebbe considerare la riunificazione con Taiwan così fondamentale per la legittimità storica del Partito Comunista Cinese da giustificare rischi che agli occhi occidentali appaiono sproporzionati o addirittura irrazionali.
La sfida per l’Occidente diventa quindi duplice e apparentemente contraddittoria: mantenere una deterrenza credibile senza provocare inutilmente; evitare che la paura dell’escalation si trasformi in auto-deterrenza che incoraggia l’aggressione incrementale. Equilibrio precario che richiede capacità di comunicazione strategica, chiarezza nelle linee rosse, credibilità negli impegni – attributi tutti che le democrazie occidentali faticano a esprimere in modo coerente e prolungato.

Prospettive: tra resistenza e rassegnazione
Mentre le truppe russe avanzano metodicamente tra le rovine di Pokrovsk e la Cina intensifica sistematicamente la pressione militare e diplomatica su Taiwan, la comunità internazionale affronta scelte che definiranno l’architettura geopolitica dei decenni a venire. La questione centrale non è più se stiamo vivendo un momento di svolta storica – certamente lo stiamo vivendo – ma quale risposta collettiva saprà elaborare l’Occidente democratico.
Nel 1914, l’Europa precipitò nella catastrofe perché nessuno credeva davvero che potesse accadere, nonostante segnali inequivocabili. Nel 1939, la guerra divenne inevitabile perché troppe élite politiche credettero di poterla evitare attraverso concessioni progressive a un aggressore la cui natura e i cui obiettivi erano stati radicalmente fraintesi. Nel 2025 dobbiamo evitare entrambi questi errori: riconoscere i pericoli senza cedere alla disperazione; preparare le difese necessarie senza provocazioni inutili; mantenere ferma la bussola normativa anche quando il percorso si oscura.
Mosca ha recentemente dichiarato disponibilità a riprendere negoziati, sostenendo che “la palla è nel campo ucraino”. Ma questa apertura diplomatica arriva mentre Putin intensifica simultaneamente gli attacchi su Pokrovsk e Zaporizhia, suggerendo che il Cremlino cerca negoziati da posizione di forza sul terreno, non da genuino desiderio di pace equa e sostenibile.

I tempi sono indubbiamente difficili. Ma la storia insegna che i periodi davvero catastrofici non furono quelli caratterizzati da sfide oggettivamente grandi, quanto piuttosto quelli in cui élite politiche e opinione pubblica smisero di credere che le proprie azioni potessero fare differenza, abbandonandosi alla passività strategica di fronte all’ingiustizia sistemica.
La resistenza – nelle strade di Pokrovsk dove soldati ucraini combattono in inferiorità numerica di otto a uno, o negli uffici dove si decidono stanziamenti e forniture militari alle democrazie minacciate – non rappresenta spirito bellicista o incapacità di immaginare compromessi onorevoli. È piuttosto il riconoscimento che alcune questioni fondamentali meritano ancora difesa attiva: autodeterminazione dei popoli, principio che la forza non crea diritto, tutela di società aperte contro autocrazie aggressive.
Anche quando il costo appare elevato e l’esito incerto, questi principi costituiscono ancora la stella polare normativa dell’ordine internazionale liberale. La domanda che ci pone questo momento storico non è se avremo il coraggio di guardare l’abisso negli occhi, ma se avremo la determinazione collettiva di non cadervi dentro.
Foto: The White House / Embassy of the People’s Republic of China in the USA / MoD Ukraine / Xinhua / Cremlino
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