Tragedie in mare: come l’USS Indianapolis, la USS Forrestal e la USS Belknap hanno riscritto la sicurezza navale
Nella storia della Marina statunitense ci sono tragedie che hanno lasciato cicatrici profonde, non solo per il numero di vite umane spezzate ma anche per le gravi carenze operative e tecniche che hanno messo a nudo. Tre di queste – l’affondamento dell’USS Indianapolis nel 1945, l’incendio sulla portaerei USS Forrestal nel 1967 e la collisione della USS Belknap nel 1975 – hanno segnato un punto di svolta nelle pratiche costruttive e di sicurezza a bordo delle navi da guerra.
L’Indianapolis: il peggior disastro navale della Marina USA
Nella notte tra il 29 e il 30 luglio 1945, l’incrociatore pesante USS Indianapolis (foto apertura) stava navigando nel Mare delle Filippine dopo aver completato una missione segreta di importanza cruciale: la consegna di componenti fondamentali per la bomba atomica “Little Boy”, destinata a Hiroshima. La nave, che viaggiava senza scorta, fu intercettata dal sottomarino giapponese I-58. Alle 00:14 due siluri colpirono il fianco destro dell’incrociatore, causando esplosioni devastanti che squarciarono i serbatoi di carburante e fecero deflagrare le munizioni di bordo. In appena dodici minuti la nave colò a picco, portando con sé circa 300 uomini.
I circa 890 superstiti si ritrovarono improvvisamente in mare aperto, senza scialuppe sufficienti, senza acqua potabile e con pochissime razioni di emergenza. Nei quattro giorni successivi dovettero affrontare un inferno: disidratazione, ipotermia notturna, ustioni, avvelenamento da acqua salata e, soprattutto, gli attacchi degli squali che cominciarono quasi subito, trascinando via uomini feriti o indeboliti. Le sofferenze dei naufraghi furono aggravate dal fatto che la Marina non si era accorta della scomparsa dell’Indianapolis: la nave non era tenuta a comunicare regolarmente la sua posizione e l’assenza di un sistema di monitoraggio significava che non esisteva alcun allarme automatico per i mancati arrivi.
Fu solo il 2 agosto che un aereo da pattugliamento in ricognizione casuale avvistò per puro caso un gruppo di superstiti. I soccorsi si attivarono immediatamente, ma alla fine solo 316 uomini furono tratti in salvo. La tragedia provocò sdegno nell’opinione pubblica e costrinse la Marina a riconoscere le proprie carenze. L’affondamento dell’Indianapolis portò all’adozione del Movement Report System, un sistema che obbligava ogni nave a comunicare costantemente posizione e stato, consentendo di attivare tempestivamente le ricerche in caso di mancata comunicazione.

USS Forrestal: il fuoco che cambiò per sempre la cultura della sicurezza
Ventidue anni dopo, un’altra tragedia avrebbe segnato la Marina USA, questa volta a bordo della portaerei USS Forrestal nel Golfo del Tonchino, in piena guerra del Vietnam. Il 29 luglio 1967, mentre l’unità si preparava per una giornata intensa di missioni di attacco, una procedura non standardizzata si rivelò fatale. Poco dopo le 10 del mattino, un razzo Zuni montato su un caccia F-4 Phantom si attivò accidentalmente a causa di un cortocircuito durante il passaggio dall’alimentazione elettrica esterna a quella interna dell’aereo. Il razzo, che avrebbe dovuto avere la sicura inserita, non l’aveva perché per risparmiare tempo il collegamento elettrico “pigtail” veniva effettuato in anticipo sul ponte di volo, in violazione delle procedure ufficiali.
Il razzo partì e colpì un A-4 Skyhawk parcheggiato di fronte, pieno di carburante e armato di bombe da 1.000 libbre. L’impatto provocò l’esplosione del carburante e un incendio istantaneo sul ponte. In pochi secondi le fiamme divamparono in mezzo a decine di velivoli schierati, alcuni dei quali carichi di bombe risalenti alla Seconda guerra mondiale. Quegli ordigni, ormai instabili e più sensibili al calore, iniziarono a detonare in sequenza, scagliando schegge letali su tutto il ponte di volo e aprendo varchi nei ponti sottostanti.
Le squadre antincendio, molte delle quali composte da marinai con addestramento minimo, tentarono disperatamente di domare le fiamme, ma l’enorme quantità di carburante in fiamme e le esplosioni a catena resero l’impresa quasi impossibile. Alcuni dei primi uomini accorsi sul ponte morirono all’istante, compreso il capo Gerald Farrier, che cercava di raffreddare le bombe con estintori portatili per evitare la detonazione. L’incendio devastò la nave per ore, uccidendo 134 membri dell’equipaggio, ferendone altri 161 e distruggendo 21 aerei.
L’inchiesta successiva mise in evidenza una serie di gravi problemi: bombe obsolete e instabili che non avrebbero dovuto trovarsi a bordo, procedure scorrette adottate per accelerare le operazioni, difetti tecnici nei sistemi di sicurezza elettrica dei missili Zuni e carenze enormi nella formazione antincendio del personale.
Da questa tragedia nacquero riforme profonde: fu creato il Weapon Systems Explosives Safety Review Board (WSESRB) per certificare la sicurezza delle armi imbarcate; furono riprogettati i sistemi di sicurezza dei missili e dei velivoli per evitare inneschi accidentali; vennero installati robusti impianti di “wash-down” per inondare automaticamente il ponte di volo con acqua e schiuma in caso di incendi; e, soprattutto, ogni marinaio della flotta ricevette un addestramento completo sulle procedure antincendio e di gestione delle emergenze. La Farrier Firefighting School di Norfolk, intitolata al capo che perse la vita nella lotta contro le fiamme, divenne un punto di riferimento nella preparazione degli equipaggi.

La Belknap: l’alluminio sotto accusa
Otto anni dopo la Forrestal, un altro grave incidente mise in evidenza un ulteriore punto critico nella progettazione navale: l’uso delle sovrastrutture in alluminio. La sera del 22 novembre 1975, durante un’esercitazione nel Mar Mediterraneo, l’incrociatore lanciamissili USS Belknap (classe omonima) entrò in collisione con la portaerei USS John F. Kennedy. Il carburante fuoriuscito dalla portaerei prese fuoco e le fiamme si propagarono rapidamente sulle sovrastrutture in alluminio della Belknap.
L’alluminio, esposto alle altissime temperature, perse rapidamente ogni resistenza meccanica e collassò, facilitando la diffusione degli incendi nei ponti sottostanti. Nonostante gli sforzi dell’equipaggio, sette marinai persero la vita e la nave fu devastata dalle fiamme. L’indagine concluse che la scelta dell’alluminio, fatta negli anni ’60 per ridurre peso e aumentare stabilità, aveva contribuito all’estrema vulnerabilità della nave in caso di incendio.
A seguito di questo incidente, la Marina statunitense ridusse drasticamente l’impiego dell’alluminio nelle sovrastrutture delle navi di nuova costruzione, preferendo l’acciaio o materiali compositi più resistenti al calore. La lezione fu confermata pochi anni dopo dall’affondamento della britannica HMS Sheffield (1982), colpita da un missile Exocet: anche in quel caso le sovrastrutture in lega leggera bruciarono e cedettero rapidamente.

Un’eredità che ha salvato migliaia di vite
Le tragedie dell’USS Indianapolis, della USS Forrestal e della USS Belknap hanno dimostrato che la sicurezza in mare non può essere data per scontata. L’Indianapolis evidenziò la necessità di monitorare costantemente le unità navali e di intervenire immediatamente in caso di anomalie nelle comunicazioni. La Forrestal insegnò che le scorciatoie nelle procedure, le munizioni instabili e l’addestramento insufficiente possono trasformarsi in una catastrofe. La Belknap, infine, mise in luce come le scelte costruttive – come l’impiego dell’alluminio – possano avere conseguenze fatali.
Le riforme introdotte dopo questi tre disastri hanno salvato innumerevoli marinai negli anni successivi. Oggi la Marina statunitense si basa su un sistema di controllo e addestramento continuo che nasce proprio da quelle esperienze: ogni nave deve comunicare regolarmente con il comando centrale, ogni procedura è codificata e supervisionata, ogni arma imbarcata è certificata sicura, ogni sovrastruttura è costruita con materiali resistenti al fuoco e ogni membro dell’equipaggio sa come rispondere a un incendio o a un’esplosione sul ponte.
Queste lezioni, pagate a caro prezzo, restano vive nella cultura navale moderna e ricordano che la sicurezza non è mai un traguardo definitivo, ma un impegno quotidiano che richiede rigore, disciplina e memoria storica.

E l’Italia?
Anche in Italia la Marina Militare ha progressivamente rafforzato la propria cultura della sicurezza in mare, adeguandosi agli standard NATO più elevati. Oggi le navi italiane sono progettate e operate con grande attenzione alla prevenzione dei rischi:
- uso quasi esclusivo di acciaio o materiali compositi resistenti al calore, evitando l’alluminio nelle sovrastrutture vitali,
- sistemi automatici di rilevamento e soppressione incendi presenti in ogni compartimento,
- addestramento antincendio e di sopravvivenza a bordo esteso a tutto l’equipaggio.
Tuttavia, a differenza degli Stati Uniti, queste lezioni sono state acquisite in maniera più graduale e frammentata, senza un singolo “evento catalizzatore” paragonabile a quelli che hanno scosso la U.S. Navy. La consapevolezza del rischio rimane quindi legata soprattutto all’esperienza degli equipaggi e alla formazione interna, più che a una cultura nazionale diffusa della sicurezza marittima.
In un contesto geopolitico che richiede alla Marina Militare di operare sempre più lontano dalle proprie basi e in scenari caratterizzati da rischi bellici crescenti, mantenere e coltivare questa consapevolezza diventa oggi essenziale per non ripetere errori che altrove sono stati pagati a carissimo prezzo.

Foto: U.S. Navy / Marina Militare
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