Trump e le alleanze: fine di un’epoca o inizio di una nuova strategia globale?
La politica estera è diventata la chiave della politica interna e di quella economica.
Trump, anche in forma sgradevole, ha dato la sveglia al mondo occidentale: la sveglia, strumento utile ma sgradevole, non ci ha fatto riflettere sulle motivazioni e non ha ancora portato alla consapevolezza, concentrandoci solo sugli aspetti negativi.
Se si analizzano gli scritti degli strateghi del suo staff, l’insostenibilità (delle alleanze, e del loro costo) mina la credibilità e le possibilità degli Stati Uniti e impone delle scelte, con la definizione delle priorità.
Va immediatamente analizzato quanto l’amministrazione TRUMP considera insostenibile, e deve correggere, ancor più che volerlo fare: basta rifarsi ai suoi numerosi slogan, in cascata: MAGA, fare di nuovo grande l’America, e – neppure troppo sottinteso – anche: … l’America agli americani … gli americani prima di tutti. Visto in termini di politica interna non è pertanto possibile reggere il peso delle attuali alleanze, che variamente articolate riguardano una popolazione enormemente superiore a quella statunitense
Per Trump le pregresse alleanze degli Stati Uniti non sono funzionali alle attuali minacce e, brutalmente, non sono altro che un cumulo di impegni incrociati e incrostati in decenni che rappresentano un peso inaccettabile per chi ha fatto dei tagli alla spesa pubblica il centro del suo programma.
Chi sono gli alleati
Gli Stati Uniti hanno firmato e ratificato otto trattati di difesa, attivi ancor oggi:
- Il Trattato di Marrakech, del 1786 il primo ed il più longevo trattato degli Stati Uniti;
- il Trattato di Rio (1947);
- la NATO (1949);
- l’ANZUS (1951), impegni di difesa bilaterali con l’Australia e la Nuova Zelanda
- le Filippine (1951),
- la Corea (1953)
- il Giappone (1960).
Certamente alcuni di questi trattati impongono impegni più significativi di altri (e tra questi il Trattato di Rio, di fatto un cadavere insepolto) ma tutti creano obblighi reali di difesa attiva da parte degli Stati Uniti, i casi della tabella successiva.
L’alleanza NATO è la più impegnativa e costrittiva con automatismi (vincolanti tutte le parti anche per un singolo motivo/incidente) non previsti in nessun altro trattato: ovviamente per questa alleanza va considerato il particolare contesto in cui si è resa necessaria cosi come va considerata un’analisi costi/benefici, almeno per tutto il periodo della guerra fredda: tra questi, non insignificante, il contenimento delle minacce e la possibilità di mantenere l’eventuale scontro ben lontano dal territorio statunitense.
I trattati di alleanza sottoscritti a vario titolo e forma dagli Stati Uniti

Gli Stati Uniti si sono nel tempo impegnati a difendere più di 1,4 miliardi di persone a livello globale, in almeno 51 paesi, ossia più di quattro volte la popolazione degli Stati Uniti.
Nella realtà, nel novero di alleati, andrebbero di volta considerati paesi (o le nazioni) dove gli Stati Uniti sono impegnati in azioni belliche, anche se al momento, dopo l’abbandono dell’Afghanistan e la lotta anti-ISIS essenzialmente in Iraq e Siria, la “casella” è vuota.
Cosa implicano le alleanze
Un alleato è uno Stato nei confronti del quale, nel caso specifico, gli Stati Uniti hanno assunto un impegno formale di difesa sulla base di trattato previo, ma è anche uno stato che combatte comunque al fianco degli Stati Uniti, come nel caso delle Potenze Alleate nelle Guerre Mondiali.
Secondo questa interpretazione, gli Stati Uniti sono alleati con più di un quarto dei paesi del globo (e per ironia, troppo spesso, non ne ricevono in cambio un chiaro appoggio nei consessi multilaterali).
C’è una varietà di problemi nell’avere così tanti alleati, in particolare nel mantenere alleanze permanenti, rispetto a quelle temporanee utilizzate per combattere le guerre, ed è evidente che sempre più nel tempo le amministrazioni statunitensi, sino a Trump, hanno continuato a porsi una domanda ed un problema, rinviando sempre risposta e soluzione in base a valutazioni politiche contingenti: gli Stati Uniti potrebbero trovarsi impegnati con stati che non hanno più alcun interesse a difendere.
Il modello NATO, come numero di aderenti e come automatismi definiti non è considerato il più opportuno da certi settori delle amministrazioni americane: riduce da una parte la contrattualità tra partner e costituisce l’ambizione della maggioranza che non gode di questa stabilità (considerata un previlegio).
Chi sono i “QUASI ALLEATI” e cosa implicano tali rapporti
Oltre ai 51 alleati che gli Stati Uniti sono obbligati a difendere per trattato, va considerato un certo numero di quasi-alleati: stati che gli Stati Uniti non si sono impegnati a difendere, ma ai quali forniscono un notevole grado di sostegno militare e politico: ally & quasi-ally.
Il termine abbraccia paesi che gli Stati Uniti non si impegnano a difendere, ma ricevono un certo grado di sostegno militare e/o politico da parte degli Stati Uniti.
Questa non è – intenzionalmente – una definizione precisa; le quasi-alleanze sono rilevanti perché sono accordi ambigui, con bordi sfocati, che lasciano i partecipanti a chiedersi cosa esattamente gli Stati Uniti faranno per loro, una volta che si trovino sotto costrizione.
L’ambiguo termine di “quasi-alleati” (degli Stati Uniti) dà spazio a ulteriori confusioni, con “non definizioni” quali “principali alleati non-NATO” (Major Non-NATO Allies con acronimo MNNA), uno status legale che “fornisce privilegi militari ed economici”, ma “non comporta alcun impegno di sicurezza nei confronti del paese designato”.
Alcuni MNNA sono sottoscrittori (o beneficiari) di accordi o trattati bilaterali, ma la maggior parte non lo sono: Bahrain, Egitto, Israele, Giordania, Kuwait, Marocco, Pakistan, Qatar, Taiwan, Thailandia e Tunisia.
Taiwan è un quasi-alleato solo per motivi politici (di forma e di opportunità): era un tempo un vero alleato degli Stati Uniti, ma proprio gli Stati Uniti, dalla normalizzazione delle relazioni con la Cina continentale nel 1979, hanno seguito una politica di “ambiguità strategica”, non impegnandosi mai formalmente a difendere Taiwan.
Creando incertezza sugli impegni degli Stati Uniti sia in patria che all’estero, lo status ambiguo dei quasi-alleati presenta rischi sia per gli Stati Uniti che per gli stessi.
Negli Stati Uniti si percepisce sempre più la possibilità di rimanere coinvolti in situazioni rischiose se non contrarie ai propri interessi generando costi inutili, incidenti e persino conflitti.
I quasi-alleati possono essere tentati da una sorta di azzardo; possono credere erroneamente di avere la protezione militare degli Stati Uniti e non dedicare pertanto risorse sufficienti a proteggersi o, su altro versante, sentirsi incoraggiati e provocare pericolosamente gli avversari.
Esiste un movimento negli Stati Uniti, una linea di pensiero trasversale, secondo il quale i leader (americani) dovrebbero essere più cauti trattando di alleanze, considerato che si innescano politiche o posizioni negoziali che – potenzialmente – da un lato potrebbero ampliare la minaccia e dall’altro porterebbero i paesi coinvolti a minimizzare gli investimenti nella difesa come conseguenza della malriposta dipendenza dal sostegno degli Stati Uniti.
L’evoluzione delle alleanze e le relative implicazioni
Di alleanze eterne parlano solo le peggiori dittature, partendo dal fatto che dovrebbero solo la parola non essendo soggette ai meccanismi democratici di approvazione e revisione.
Le caratteristiche e la solidità delle (migliori) alleanze sono la contingenza, la necessità, la convergenza di interessi e (forse) l’affinità culturale.
Per quanto riguarda il caso in esame (che poi si potrebbe ridurre all’aggiornamento delle condizioni e riorientamento delle alleanze) si sta probabilmente dedicando troppo spazio politico alla ricerca di responsabilità decisionali piuttosto che all’essenza: anche se si potrebbe risalire più a monte nel tempo, dall’amministrazione Obama in poi tutti i Presidenti degli Stati Uniti hanno riconosciuto la necessità riconsiderare le alleanze ed i termini delle stesse, definendo priorità.
I concetti e le priorità, mai trasformate in scelte ed azioni erano chiare da tempo: semplicemente né i beneficiari né nessuna amministrazione statunitense era disposta ad assumersi i costi politici per imporre i cambi necessari: Trump l’ha fatto.
Sulla situazione di sconcerto (pubblici e non motivato) generato dalle dichiarazioni di Trump ha subito approfittato la propaganda, nel più classico copione della guerra fredda, molto cinese e molto con sponda nostrana, che comodamente attribuisce ogni responsabilità alla volatilità della politica americana, per poi lasciare tutti gli alleati di fronte a un dilemma lacerante: la dipendenza dalla garanzia di sicurezza di un alleato sempre più inaffidabile che costringe a riconsiderare i nostri paradigmi.
Quella dell’aumento delle spese militari è una reale necessità, ma è anche una foglia di fico che viene sfruttata in vari modi dalla propaganda e dalla politica interna di paesi che hanno eluso responsabilità. È tipica di un quadro europeo, più ancora di un quadro nazionale di frammentazione e colpevole permeabilità a interessi esterni, in un contesto simile alla guerra fredda, solo con un cambio di soggetto, molto più subdolo e molto più presente, radicato sul territorio.
La NATO è l’obiettivo, ben al di là delle esternazioni di Trump e delle interessate interpretazioni delle stesse da parte di una capillare propaganda avversa: cancellarla e non aggiornarla, proprio perché si tratta di un’alleanza solida, strutturata e (sinora) basata su impegni ed automatismi, messa alla prova: annullarla da una parte perché costosa (ma la pace ha un prezzo, significa mettersi d’accordo su quello giusto…) dall’altra perché temibile, ancor più se dovesse essere riorientata nel quadro di un inevitabile nuovo ordine globale.
Indipendentemente dagli accordi raggiunti in sede NATO con più o meno compiacenza dello “Zio Sam”, i semi del cambio e di diverse priorità sono stati piantati molto tempo fa, hanno attecchito, e anche – ormai improbabile – se una nuova amministrazione volesse riconsiderare gli aiuti all’estero e potesse mostrare maggior accondiscendenza verso gli (attuali) alleati della NATO, non annullerebbe mai il pivot to Asia.
È la NATO, semmai, che deve considerare quanto le convenga un riorientamento, e quanto le convenga la compattezza: anche se per i paesi europei della NATO la minaccia russa esiste e rimane e deve essere contenuta, con le attuali premesse nel lungo periodo è evidente che la Russia è destinata a diventare (economicamente e più ancora) una colonia cinese, visto l’enorme dislivello nei rapporti di forza, ed allora per contenere la Russia bisogna agire anche dall’Indopacifico, magari più propriamente dall’Oceano Indiano, ma nell’ambito di una solida alleanza con meccanismi non buttati alle ortiche.
Viene da chiedersi se tra la pletora di opinionisti da social, di esperti (di tastiera), tuttologi presenzialisti, qualcuno si sia mai chiesto quale sarebbe lo scenario, in costanza di minacce, senza la NATO, e abbia tentato una simulazione.
Qualcuno, nei posti giusti, probabilmente l’ha fatto, molto riservatamente, visto che già nel 2023, e prima delle elezioni, era trapelato negli USA almeno uno schema, inosservato se non per pochi addetti ai lavori.
Qualcosa che certamente è frutto di un notevole lavoro (visto come e dove è stato pubblicato); si può ipotizzare che sia inavvertitamente sfuggito o si tratta di un segnale non colto?
Un esercizio naturale di simulazione di analisti, al limite dell’accademico, o un aspetto di pianificazione, un risultato da sottoporre, ed a quale livello?
Qualcosa di molto più significativo delle minacce di Trump, che hanno creato tanto scompiglio e tante irate reazioni, ed anche più allarmante se fosse parte integrante di una pianificazione strategica.
Il seguente quadro ne è l’evidenza, si direbbe almeno con valore ufficioso.

La fonte ( https://executivegov.com) è simile, anzi vicina, a quella del precedente quadro che con un colpo d’occhio illustrava i molteplici trattati di alleanza degli Stati Uniti nel mondo, ma il dettaglio e le definizioni che emergono sono impietosi, prima ancora di essere valutati e risultare inesatti.
Un’alleanza organica come la NATO non traspare neppure in tale schema, il termine di alleati è riservato a 6 (sei!!!) paesi, la UE come unità non è neppure presa in considerazione, nel “mare verde” sono compresi sia paesi con una consolidata ostilità e legami con gli avversari degli USA sia i paesi legati a “simil blocchi”, quali i BRICS, che non si distinguono per un’attitudine filoamericana, per concludere che dallo schema non emerge se e quali tra i paesi “amichevoli” qualcuno goda di qualsiasi vicinanza o previlegio, neppure in termini di “quasi-ally” …
Non è forse corretto dare importanza allo schema in sé, del tutto opinabile come sintesi ed aggregazioni, ma diventa importante inserirlo in un contesto, considerarlo un indice, chiedersi il perché e a vantaggio di chi vengono elaborati questi scenari: inputs non solo molto opinabili e lontani dalla realtà ma outputs non si sa dove e come destinati e quanto fatti propri dai decisori; perché e come queste opinioni sono emerse e sono state pubblicate?
Probabilmente solo la dimostrazione che c’è un dibattito in corso sul valore e il mantenimento delle alleanze.
È d’altra parte evidente, esternazioni a parte, la necessità degli Stati Uniti di avere alleati nel nuovo confronto globale e nel tentativo di recuperare o mantenere la leadership nel nuovo ordine globale (per non parlare del dominio marittimo).
Una provocazione? Sarebbe stata inutile alla vigilia delle elezioni americane; certamente qualcosa utile almeno per far riflettere la politica europea e cominciare a fare tardive simulazioni (e preparazione) anche da parte della politica nostrana ed europea (quale validità di Rearm Europe con una frattura non solo ipotetica all’interno di un quadro strategico globale, che sottintende costi e posizionamenti chiaramente alternativi, e non conciliabili, sempre secondo il quadro e le sue scarne definizioni…).
Considerare Trump la causa di tutti i mali ci fa perdere di vista la vera trave nell’occhio che è il peso, o meglio l’ininfluenza, di una Europa nel momento della reale contesa globale che è quella del controllo delle risorse e degli scambi (e come sotto problema del controllo del commercio e delle libertà nel Pacifico, il principale teatro di contesa).
Trump non può essere l’alibi: è la nostra incapacità e soprattutto l’incapacità dell’Europa di identificare le priorità, e le risorse da dedicare senza funambolismi o aggiramenti.
Gli Stati Uniti l’hanno fatto, cominciando a definire una strategia delle priorità (che verrà trattata in altra sede) e la trave nell’occhio è la mancanza europea e italiana degli ultimi decenni, in particolar la politica del rinvio e dell’aggiramento, la mancanza di percezione della minaccia e dei tempi senza sensibilità sulla necessità di investire sulla prevenzione, sul contenimento come preservazione di pace e sviluppo.
Il controverso schema di cui sopra, con la ristrettissima rosa dei “veri alleati” deve servire come riflessione, per tutti, anche per gli “eletti”.
La priorità europea, italiana in particolare, è stata sempre la politica interna, dimenticando che per i paesi, anche per le “potenze minori” che aspirano ad avere almeno voce nell’ordine globale, la politica interna, che riguarda continuità, sopravvivenza e sviluppo, si fa attraverso una forte politica estera.
Trump è tutt’altro che un outsider come spesso lo si vuol far apparire, ma supportato da una strategia, nota ed elaborata almeno dal 2021 da una serie di esperti, tra cui dall’attuale under secretary of Defense for Policy, Elbrige Colby. Votando in aprile contro la sua conferma nell’incarico di sottosegretario, il senatore Mitch McConnell, un sostenitore conservatore della leadership globale degli Stati Uniti, ha condannato la strategia di prioritizzazione sostenuta da Colby come “autolesionismo geostrategico che incoraggia i nostri avversari e spinge cunei tra l’America e i nostri alleati”, ma questa è forse la certificazione del “nuovo” pragmatismo in materia di alleanze.
La strategia della priorizzazione andrebbe valutata e forse adottata anche da questa parte dell’Atlantico, magari condivisa.
La guerra fredda è stata atipica in quanto lo scontro atteso era militare: l’attuale conflittualità diffusa (più che mai calda) ha un aspetto diverso, molto più subdolo e pericoloso: si prospetta come un confronto economico che ha risvolti militari e, trattandosi di un confronto economico, le connivenze e gli schieramenti non sono perseguibili.
Si criticano gli Stati Uniti per le loro ingerenze e comunque ci si lamenta quando non lo fanno: le alleanze per essere credibili efficaci devono essere prima di tutto sostenibili oltre che equilibrate, e questo sembra il fulcro dell’attuale politica statunitense: evidentemente le cose possono essere valutate diversamente da chi deve assumere e giustificare maggiori spese ma la sostenibilità può essere letta in due modi: della propria difesa o di un’alleanza. Qual è la più conveniente? Costa meno difendersi da soli o condividere con gli alleati (quelli con vere capacità)?
Se la strategia USA è ormai definita, siamo sicuri che l’Europa abbia una strategia? O sta solo sperando che la sveglia Trump non suoni troppo forte?
Foto: U.S. Air National Guard
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