Ucraina 2025: anatomia di una crisi e scenari per il futuro del conflitto
Chiedo scusa al lettore per la lunghezza di questo articolo. In un’epoca di fruizione rapida dell’informazione, proporre un’analisi di diverse migliaia di parole può sembrare un azzardo o, peggio, una mancanza di rispetto per il tempo di chi legge.
Tuttavia, credo che la crisi ucraina, e ciò che essa significa per la sicurezza europea e italiana, meriti uno sforzo di comprensione che vada oltre i titoli di giornale e le dichiarazioni dei politici. Troppo spesso il dibattito pubblico su questo conflitto si riduce a tifoserie contrapposte: filo-ucraini contro filo-russi, atlantisti contro sovranisti, interventisti contro pacifisti. Categorie che semplificano una realtà ben più complessa e, soprattutto, impediscono di vedere ciò che realmente sta accadendo e ciò che probabilmente accadrà.
In questo articolo ho cercato di ricostruire un filo logico che parte dal referendum del 1991 e arriva ai negoziati di questi giorni, passando per Euromaidan, l’intervento russo nel Donbas, gli scandali di corruzione del governo Zelensky, la situazione militare sul campo, il ruolo ambiguo dell’Occidente, e i rischi che il dopoguerra comporterà per la sicurezza europea, inclusa quella italiana.
Non troverete qui né la retorica della “eroica resistenza ucraina” né quella della “denazificazione russa”. Troverete, spero, un tentativo onesto di analisi basato sui fatti documentati, sulle fonti verificabili e su un ragionamento che il lettore potrà seguire, contestare o approfondire.
Se avrete la pazienza di arrivare fino in fondo, credo che il quadro complessivo risulterà più chiaro di quello offerto dalla copertura mediatica quotidiana. E forse, alla fine, avrete gli strumenti per formarvi un’opinione vostra, che è l’unico scopo legittimo del giornalismo d’analisi.
Per comprendere la crisi ucraina nella sua interezza, occorre partire da un dato storico che la propaganda di entrambe le parti tende a ignorare: il 1° dicembre 1991, nel referendum per l’indipendenza dell’Ucraina dall’Unione Sovietica, anche le regioni orientali oggi contese votarono massicciamente a favore.
I numeri parlano chiaro. A Donetsk, l’83,9% dei votanti approvò l’indipendenza, con un’affluenza del 76,7%. A Luhansk, l’83,86% con un’affluenza dell’80,6%. Persino in Crimea, la regione con il consenso più basso, il 54,19% votò “sì”. L’unica eccezione significativa fu Sebastopoli, sede della Flotta del Mar Nero, dove comunque il 57% approvò l’indipendenza.
Questi dati demoliscono la narrativa russa di un Donbas storicamente russo e anti-ucraino, ma sollevano anche una domanda scomoda: cosa è cambiato in ventitré anni per trasformare regioni che avevano votato per l’indipendenza in focolai di separatismo armato?
La risposta non è semplice e non si presta a letture manichee. Il Donbas del 2014 era una regione industriale in declino, dominata da miniere e acciaierie dell’era sovietica poco competitive sui mercati europei. Secondo i sondaggi dell’epoca, il 72,5% della popolazione di Donetsk e il 64,3% di quella di Luhansk preferiva l’adesione all’Unione Doganale Eurasiatica rispetto all’integrazione europea.
Questa preferenza non nasceva da un’identità “russa” contrapposta a quella “ucraina”, quanto dalla consapevolezza che l’apertura ai mercati europei avrebbe significato la fine di un modello economico basato su industrie pesanti non più sostenibili. A questo si aggiungeva un senso di alienazione: molti abitanti del Donbas percepivano la loro regione come vittima di una redistribuzione ingiusta delle risorse nazionali.
Tuttavia, come ha osservato Huseyn Aliyev dell’Università di Glasgow, “il Donbas è certamente russofono, ma non esisteva un separatismo organizzato prima del 2014. Non è una regione che avesse aspirazioni separatiste organizzate prima di allora”.
Euromaidan: rivoluzione popolare o operazione occidentale?
La crisi del 2013-2014 rimane il nodo gordiano dell’intera vicenda ucraina. La narrativa occidentale presenta Euromaidan come una rivoluzione popolare contro un governo corrotto e filo-russo. La narrativa russa la descrive come un colpo di stato orchestrato dalla CIA. La verità, come spesso accade, si colloca in una zona grigia che entrambe le parti preferiscono ignorare.
Ciò che è documentato oltre ogni ragionevole dubbio è l’esistenza di un significativo coinvolgimento occidentale, sebbene non nel senso di un’orchestrazione diretta. La telefonata trapelata tra Victoria Nuland, sottosegretaria di Stato USA per gli affari Europei, e l’ambasciatore Geoffrey Pyatt nel febbraio 2014 rivela diplomatici americani che discutono apertamente di quali leader dell’opposizione dovrebbero entrare nel governo e in quali ruoli. “Yats è il tipo che ha l’esperienza economica, l’esperienza di governo”, dice Nuland riferendosi ad Arseniy Yatsenyuk, che diventerà effettivamente Primo Ministro dopo la caduta di Yanukovych.
Il National Endowment for Democracy (NED), organizzazione fondata nel 1983 per svolgere apertamente attività che prima la CIA conduceva segretamente, ha ammesso di aver finanziato ONG, media e think tank ucraini per decenni. Philip Agee, ex ufficiale CIA, descrisse il NED in questi termini: “Oggi, invece di avere solo la CIA che va in giro dietro le quinte cercando di manipolare il processo segretamente, hanno ora un compare pubblico”.
Tuttavia, affermare che milioni di ucraini siano scesi in piazza perché pagati o manipolati dalla CIA significa negare l’evidenza. La corruzione del governo Yanukovych era reale e documentata. Il malcontento popolare era genuino. Ciò che l’Occidente fece fu canalizzare, orientare e amplificare forze che esistevano indipendentemente dalla sua azione.
La domanda che rimane senza risposta definitiva è: a quale livello l’influenza esterna delegittima un movimento popolare? Se finanzi i media che formano l’opinione pubblica, le ONG che organizzano la società civile, i partiti che competono per il potere e formi i futuri leader politici, stai semplicemente “promuovendo la democrazia” o stai plasmando il panorama politico di un paese sovrano?
L’intervento russo nel Donbas: la risposta asimmetrica
La reazione russa a Euromaidan fu rapida e brutale. In marzo 2014, forze speciali senza insegne occuparono la Crimea, seguita da un referendum farsa e dall’annessione. In aprile, un commando guidato da Igor Girkin, ex colonnello dell’FSB russo, sequestrò Sloviansk dando il via all’insurrezione nel Donbas.
Il coinvolgimento russo fu inizialmente mascherato ma progressivamente sempre più evidente. Come documentato da numerose fonti, cittadini russi guidarono il movimento separatista a Donetsk da aprile ad agosto 2014, supportati da volontari e materiale dalla Russia. Con l’escalation del conflitto, Mosca impiegò un “approccio ibrido” che combinava disinformazione, combattenti irregolari, truppe regolari e supporto militare convenzionale.
È significativo notare che, secondo i sondaggi dell’epoca, solo una minoranza della popolazione locale sosteneva attivamente il separatismo: il 18% a Donetsk e il 24% a Luhansk appoggiavano l’occupazione degli edifici governativi. Il 27,4% a Donetsk e il 30,3% a Luhansk riteneva che la regione dovesse separarsi dall’Ucraina e unirsi alla Russia. Una minoranza significativa, ma pur sempre una minoranza.
La situazione attuale: la tempesta perfetta
A dicembre 2025, l’Ucraina si trova in una situazione che può essere definita senza esagerazione come la più critica dalla sua indipendenza.
Sul fronte militare, le notizie sono allarmanti. Le forze russe hanno catturato circa 505 chilometri quadrati di territorio ucraino nel solo mese di novembre 2025, quasi il doppio dei guadagni registrati a settembre. Taras Chmut, capo del Fondo di Aiuto alle Forze Armate Ucraine, ha descritto la situazione in termini inequivocabili: “Le Forze Armate ucraine stanno perdendo terreno, ritirandosi, e non c’è prospettiva di cambiamento. In questo momento, le difese a livello di battaglione stanno cedendo, poi intere brigate cominceranno a cedere, fino al collasso”.
Le statistiche sulle forze sono impietose: compagnie con 11 uomini invece degli organici previsti, battaglioni con 20 uomini in posizione, brigate con circa 200 uomini nei plotoni e nelle compagnie. La carenza di personale è il problema principale, aggravato da una mobilitazione impopolare e da diserzioni crescenti.
Sul fronte interno, lo scandalo di corruzione che ha travolto la cerchia di Zelensky rappresenta il più grave della sua presidenza. Il Bureau Nazionale Anticorruzione (NABU) ha scoperto uno schema di appropriazione indebita presso Energoatom, l’operatore statale delle centrali nucleari, con tangenti per oltre 100 milioni di dollari. Timur Mindich, ex socio in affari di Zelensky e co-fondatore della società di produzione televisiva Kvartal 95, è accusato di essere la mente dello schema. Mindich è fuggito dal paese prima dei raid del NABU, che hanno scoperto borsoni pieni di contanti e un water d’oro, particolare che ricorda amaramente le accuse mosse a Yanukovych nel 2014.
Il 28 novembre, Andrii Yermak, potentissimo capo di gabinetto di Zelensky e negoziatore principale nei colloqui di pace, si è dimesso dopo che la sua residenza è stata perquisita dagli investigatori anticorruzione. Due ministri (Energia e Giustizia) si sono già dimessi, e l’indagine sembra destinata ad allargarsi.
L’ironia storica è evidente: Zelensky fu eletto nel 2019 con un mandato esplicito di combattere la corruzione. Oggi si trova a fronteggiare accuse simili a quelle che contribuirono alla caduta del suo predecessore.
Sul fronte dell’opinione pubblica, i dati sono più sfumati di quanto alcune narrative suggeriscano. Secondo i sondaggi più recenti, Zelensky mantiene un tasso di approvazione intorno al 60-68%, significativamente più alto di qualsiasi predecessore e superiore a quello di molti leader occidentali. Tuttavia, questo dato va contestualizzato: la fiducia nel governo nazionale è scesa al 35%, e l’85% degli ucraini ritiene che la corruzione sia diffusa nell’apparato statale.
Le proteste di luglio 2025, quando Zelensky tentò di subordinare le agenzie anticorruzione al Procuratore Generale, hanno dimostrato che la cultura politica pluralista ucraina è sopravvissuta alla concentrazione di potere in tempo di guerra. Il presidente fu costretto a fare marcia indietro sotto la pressione combinata delle piazze e dell’Unione Europea.
Il ruolo dell’Europa: leva finanziaria senza muscoli militari
L’Unione Europea si trova in una posizione peculiare: dispone di una leva finanziaria enorme sull’Ucraina, ma manca delle capacità militari per sostituire gli Stati Uniti.
Sul piano economico, l’UE è il principale finanziatore dell’Ucraina. I pagamenti graduali del fondo da 50 miliardi di euro, cruciali per sostenere i servizi pubblici e pagare gli stipendi, rappresentano uno strumento di pressione potentissimo. L’episodio di luglio 2025 lo ha dimostrato: quando Zelensky firmò la legge che subordinava NABU e SAPO, la reazione di Bruxelles fu durissima, con von der Leyen che chiamò personalmente il presidente ucraino per esprimere “forti preoccupazioni”. La combinazione di proteste interne e pressione europea costrinse Zelensky alla retromarcia.
Sul piano militare, tuttavia, l’Europa mostra limiti strutturali. Quando gli USA sospesero gli aiuti in maggio-giugno 2025, l’Europa colmò il vuoto e superò Washington per la prima volta da giugno 2022. Dall’inizio della guerra, l’Europa ha stanziato almeno 35,1 miliardi di euro in aiuti militari tramite contratti con l’industria della difesa, superando gli USA di 4,4 miliardi.
Tuttavia, come ha osservato un analista, “le fabbriche europee avrebbero bisogno di decenni per eguagliare ciò che gli aiuti americani forniscono in mesi”. Il gap è particolarmente evidente nelle capacità critiche: gli USA operano 247 satelliti militari contro i 17 della Francia, il principale operatore europeo. La difesa aerea rimane il punto dolente: secondo gli esperti, l’Ucraina ha 3-6 mesi di forniture grazie ai pacchetti finali di Biden, ma dopo quel termine i punti critici saranno la difesa aerea e missilistica.
Scenari per la fine del conflitto
Analizzare e ipotizzare in un contesto di propaganda e fake news un possibile futuro scenario non è facile ma analizzando la situazione e il contesto ho voluto provare a delineare alcuni scenari realistici per l’evoluzione del conflitto.
Scenario 1: Pace imposta dall’amministrazione Trump (probabilità: ALTA)
L’amministrazione Trump ha mostrato chiaramente di voler chiudere il dossier ucraino. I negoziati in corso coinvolgono emissari americani in contatto diretto con il Cremlino, spesso bypassando Kiev. Un accordo potrebbe prevedere:
- Riconoscimento de facto del controllo russo sui territori attualmente occupati
- Garanzie di neutralità per l’Ucraina (esclusione dalla NATO)
- Zone smilitarizzate o “cuscinetto”
- Possibile dispiegamento di peacekeepers europei
Implicazioni: Zelensky si troverebbe di fronte a un dilemma lacerante. Rifiutare significherebbe perdere il supporto americano in un momento di estrema vulnerabilità militare. Accettare significherebbe firmare quella che molti ucraini percepirebbero come una capitolazione. I sondaggi mostrano che gli ucraini “vogliono genuinamente la pace, ma la stragrande maggioranza si oppone a una pace a qualsiasi costo”.
Scenario 2: Collasso del fronte ucraino (probabilità: MEDIA)
Se le tendenze attuali continuassero senza interventi correttivi, un collasso parziale del fronte è possibile. Gli indicatori sono preoccupanti: unità sottodimensionate, carenza cronica di personale, avanzate russe accelerate. In questo scenario:
- La Russia potrebbe conquistare l’intero Donbas e potenzialmente spingersi verso il Dnepr
- L’Ucraina sarebbe costretta ad accettare qualsiasi condizione pur di fermare l’avanzata
- L’Europa si troverebbe con una crisi di sicurezza esistenziale ai suoi confini
Implicazioni: Questo scenario renderebbe inevitabile un massiccio riarmo europeo e probabilmente segnerebbe la fine dell’ordine di sicurezza post-Guerra Fredda in Europa.
Scenario 3: Stallo prolungato con conflitto congelato (probabilità: MEDIA)
Né la Russia né l’Ucraina riescono a prevalere militarmente. Il conflitto si trasforma in una guerra di attrito a bassa intensità lungo linee di contatto stabilizzate, simile al periodo 2015-2022 ma su scala maggiore:
- Nessun trattato di pace formale, solo cessate il fuoco de facto
- L’Ucraina mantiene la sovranità formale sui territori occupati ma non può esercitarla
- Entrambe le parti si riarmano per un potenziale round successivo
Implicazioni: Questo scenario perpetua l’instabilità e lascia aperta la possibilità di una ripresa delle ostilità. È lo scenario che Putin probabilmente preferirebbe evitare, dato il costo economico e demografico della guerra.
Scenario 4: Crisi politica interna in Ucraina (probabilità: MEDIA-ALTA)
Lo scandalo di corruzione, combinato con le difficoltà militari e la pressione per un accordo percepito come ingiusto, potrebbe innescare una crisi politica interna:
- Proteste contro Zelensky o il suo eventuale successore
- Tensioni tra fazioni politiche e militari
- Possibile frammentazione del fronte interno
Implicazioni: Una “nuova Euromaidan” in senso classico è improbabile finché la guerra continua, nessuno vuole destabilizzare il paese sotto bombardamento. Tuttavia, se un cessate il fuoco venisse percepito come una svendita, la rabbia accumulata per la corruzione potrebbe esplodere.
Scenario 5: Cambio di regime a Mosca (probabilità: BASSA)
È lo scenario meno probabile ma non impossibile. Un deterioramento drastico della situazione economica russa, combinato con perdite militari insostenibili, potrebbe innescare una transizione al Cremlino:
- Successore di Putin potrebbe cercare una via d’uscita onorevole
- Possibile ritiro parziale in cambio di revoca delle sanzioni
- Normalizzazione graduale delle relazioni con l’Occidente
Implicazioni: Questo scenario offrirebbe all’Ucraina le condizioni migliori, ma non vi sono attualmente indicatori che lo rendano probabile nel breve-medio termine.
Le trattative di dicembre: la diplomazia dell’urgenza
Mentre questo articolo viene redatto, la diplomazia internazionale è in fermento. Il piano di pace in 28 punti dell’amministrazione Trump, presentato a Zelensky il 20 novembre 2025, ha innescato una frenetica attività negoziale che sta ridisegnando i rapporti di forza tra le parti.
Il piano, nella sua versione originale, rappresentava una capitolazione mascherata da compromesso. Prevedeva il riconoscimento de facto di Crimea, Luhansk e Donetsk come territorio russo, inclusa la porzione di Donetsk ancora sotto controllo ucraino (circa il 25% della regione). Le linee del fronte in Kherson e Zaporizhzhia sarebbero state congelate. L’esercito ucraino avrebbe dovuto essere ridotto a 400.000 effettivi (dai circa un milione attuali), con il divieto di possedere armi a lungo raggio capaci di colpire il territorio russo. L’adesione alla NATO sarebbe stata esclusa. In cambio, l’Ucraina avrebbe ricevuto “garanzie di sicurezza” modellate sull’Articolo 5 dell’Alleanza Atlantica, ma senza essere membro della NATO stessa.
La reazione europea e ucraina è stata di shock. “Sembra un piano progettato per assistere la capitolazione dell’Ucraina”, ha commentato Oleksiy Melnyk del Razumkov Center di Kiev. Il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato: “La pace non può essere una capitolazione”.
Nelle settimane successive, il piano è stato modificato attraverso round negoziali a Ginevra, in Florida e ad Abu Dhabi. Il 2 dicembre, gli inviati di Trump, Steve Witkoff e Jared Kushner, hanno incontrato Putin a Mosca per cinque ore. L’esito? Nessuna svolta. L’aiutante di Putin, Yuri Ushakov, ha definito alcuni elementi “accettabili” e altri “duramente criticati”. Il piano, che originariamente contava 28 punti, sembra essere cresciuto a 27 punti più quattro documenti aggiuntivi, un dettaglio che ha irritato Kiev, suggerendo modifiche negoziate senza il suo coinvolgimento.
Il 3 dicembre, mentre i ministri degli Esteri NATO si riunivano a Bruxelles, il Segretario di Stato americano Marco Rubio era assente, la prima volta in 22 anni che il capo della diplomazia USA salta un vertice ministeriale dell’Alleanza. Un segnale inequivocabile delle priorità di Washington.
La dinamica negoziale è brutalmente chiara. Putin non ha fretta. Come ha osservato l’analista Tatiana Stanovaya del Carnegie Russia and Eurasia Center: “Putin si sente più sicuro che mai sulla situazione del campo di battaglia ed è convinto di poter aspettare finché Kiev non accetterà finalmente che non può vincere e dovrà negoziare alle condizioni ben note della Russia. Se gli americani possono aiutare a muovere le cose in quella direzione, bene. Altrimenti, sa come procedere comunque.”
Trump, dal canto suo, vuole una pace sopra ogni altra cosa. Ha mostrato nei mesi recenti che pressare gli alleati a fare concessioni è un riflesso istintivo, logico se sei un magnate immobiliare che stringe i subappaltatori per migliorare i termini per un potenziale acquirente, meno efficace quando cerchi di convincere un occupante armato ad abbandonare una proprietà che ha dato alle fiamme.
L’Europa: tra umiliazione e risveglio
La posizione europea in questa partita è insieme cruciale e marginale. Cruciale perché l’Europa è il principale finanziatore dell’Ucraina e perché qualsiasi accordo di pace richiederà garanzie di sicurezza europee. Marginale perché nessun rappresentante europeo è stato presente ai negoziati tra Washington e Mosca.
“È pericoloso ed è umiliante, perché ciò che viene discusso è la sicurezza europea”
ha dichiarato l’ex ministro degli Esteri lituano Gabrielius Landsbergis. Il ministro degli Esteri estone Margus Tsahkna ha fatto eco:
“Dobbiamo davvero decidere cosa faremo in Europa. Putin non può decidere per noi. E nemmeno gli Stati Uniti possono prendere decisioni al posto nostro.”
Eppure, proprio questa marginalizzazione sta producendo un effetto inatteso: un risveglio europeo.
Al vertice NATO di Bruxelles del 3 dicembre, la Commissione Europea ha proposto di utilizzare circa 100 miliardi di dollari di asset russi congelati come garanzia per un prestito a Kiev. Ursula von der Leyen ha dichiarato:
“Possiamo equipaggiarli con i mezzi per difendersi e per condurre negoziati di pace da una posizione di forza. E poiché la pressione è l’unico linguaggio che il Cremlino comprende, possiamo anche intensificarla.”
La “Coalition of the Willing” guidata da Francia e Regno Unito sta prendendo forma concreta. Ventisei paesi hanno formalmente impegnato truppe per una “forza di rassicurazione” da dispiegare in Ucraina dopo un eventuale cessate il fuoco. Non si tratterebbe di peacekeepers sulla linea del fronte, ma di forze posizionate in località strategiche (Kiev, Odessa, Leopoli) per addestramento, deterrenza e dimostrazione di impegno a lungo termine. Si parla di circa 10.000 uomini, con Francia e Regno Unito come principali contributori.
Macron ha chiarito la posizione francese con una formula che sintetizza l’approccio europeo:
“L’Ucraina è sovrana, se richiede forze alleate sul suo territorio, non spetta alla Russia accettare o rifiutare”
Una posizione che Mosca considera inaccettabile e che Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, ha definito un piano per “intervento militare in Ucraina” mascherato da missione di pace.
Le divisioni europee, tuttavia, rimangono. L’Italia di Giorgia Meloni ha escluso la partecipazione a qualsiasi forza sul terreno. La Polonia ha fatto altrettanto. L’Ungheria di Orbán continua a bloccare molte iniziative comunitarie. E il Belgio, che custodisce la maggior parte degli asset russi congelati, chiede garanzie sulla condivisione dei rischi legali prima di accettare il loro utilizzo.
Cosa potrebbe accadere nei prossimi mesi?
Sulla base dell’analisi condotta, è possibile formulare una previsione ragionata dell’evoluzione più probabile del conflitto nei prossimi sei-dodici mesi.
Fase 1 (dicembre 2025 – febbraio 2026): Intensificazione negoziale senza accordo. I negoziati continueranno con ritmo frenetico. Trump premerà per un accordo rapido, ma Putin non ha incentivi a cedere mentre avanza sul campo. L’Ucraina resisterà alle pressioni più estreme, sostenuta dall’Europa. Il piano subirà ulteriori modifiche, ma le posizioni fondamentali (territorio, NATO, dimensione dell’esercito) rimarranno incompatibili.
Fase 2 (marzo – giugno 2026): Cessate il fuoco parziale o localizzato. Esaurita la pazienza di Trump, potrebbe emergere un accordo parziale: cessate il fuoco lungo le linee attuali, senza riconoscimento formale delle annessioni russe, con negoziati territoriali rimandati a data da destinarsi. Un “congelamento” de facto simile al 2015-2022 ma su scala maggiore. Le forze europee potrebbero iniziare il dispiegamento nelle retrovie ucraine.
Fase 3 (2026-2027): Conflitto congelato con tensioni ricorrenti. Senza un trattato di pace formale, le violazioni del cessate il fuoco saranno frequenti. L’Ucraina manterrà la sovranità formale sui territori occupati senza poterla esercitare. L’Europa dovrà finanziare sia la ricostruzione ucraina sia il proprio riarmo. La Russia, sollevata parzialmente dalle sanzioni, ricostruirà le proprie forze.
Rischi principali: Il rischio maggiore non è il fallimento dei negoziati in sé, ma un accordo imposto che l’Ucraina firmi sotto pressione senza reale capacità di farlo rispettare. Un tale accordo seminerebbe i semi del prossimo conflitto, esattamente come accadde con Minsk I e Minsk II.
Il secondo rischio è il collasso del fronte ucraino prima che qualsiasi accordo venga raggiunto. Se le linee cedessero nell’inverno 2025-2026, Putin non avrebbe alcun incentivo a negoziare e potrebbe puntare a obiettivi massimalisti (il Dnepr, o addirittura Kiev).
Il terzo rischio, spesso sottovalutato, è interno all’Ucraina: la combinazione di stanchezza bellica, scandali di corruzione e percezione di tradimento occidentale potrebbe innescare una crisi politica che indebolirebbe ulteriormente la posizione negoziale di Kiev.
L’incognita europea: L’unico fattore che potrebbe alterare questa traiettoria è un’Europa che smetta di aspettare inviti americani e assuma un ruolo autonomo nella garanzia della sicurezza ucraina. I segnali di dicembre, la proposta sugli asset congelati, l’impegno dei 26 paesi, il linguaggio sempre più assertivo di Macron e von der Leyen, suggeriscono che questa evoluzione è in corso. Ma rimane da vedere se l’Europa riuscirà a tradurre le parole in capacità militari credibili prima che sia troppo tardi.
Il fantasma degli Arditi: reduci, milizie e la destabilizzazione del dopoguerra
Esiste un aspetto del conflitto ucraino che la discussione pubblica occidentale tende a minimizzare ma che gli analisti di sicurezza osservano con crescente preoccupazione: il ruolo che le formazioni paramilitari di estrema destra potranno svolgere nell’Ucraina del dopoguerra, e le implicazioni per la sicurezza europea nel suo complesso.
Il parallelo storico più pertinente non è quello, abusato dalla propaganda russa, con la Germania nazista, ma piuttosto con l’Italia del primo dopoguerra e il fenomeno dell’arditismo. Gli Arditi, reparti d’assalto d’élite del Regio Esercito, furono sciolti nel 1920, ma i reduci non scomparvero. Una parte confluì nei Fasci di combattimento di Mussolini, portando con sé competenze militari, assuefazione alla violenza e incapacità di reinserirsi nella vita civile. Furono loro a formare l’ossatura dello squadrismo che tra il 1920 e il 1922 devastò le organizzazioni socialiste e spianò la strada alla Marcia su Roma.
Le analogie con la situazione ucraina sono inquietanti. Il Battaglione Azov, fondato nel 2014 da Andriy Biletsky, ex leader dell’organizzazione ultranazionalista “Patriota d’Ucraina” e autore di scritti sulla “missione storica della nostra nazione di guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale per la loro sopravvivenza”, si è trasformato da milizia di poche centinaia di uomini in una struttura che, secondo le stime più recenti, conta oggi tra i 20.000 e i 40.000 effettivi distribuiti in due corpi d’armata: la 3ª Brigata d’Assalto dell’esercito e la 12ª Brigata della Guardia Nazionale, oltre al Reggimento Forze Speciali Kraken integrato nell’intelligence militare.
Questa crescita esponenziale è stata possibile grazie all’efficacia in combattimento, Azov si è guadagnato una reputazione di unità d’élite nella difesa di Mariupol e in altre battaglie cruciali, ma anche grazie a una macchina di propaganda sofisticata e a un reclutamento che ha attratto combattenti motivati dall’ideologia o semplicemente dalla fama del reggimento. Nel 2015, un portavoce di Azov ammise che tra il 10% e il 20% dei membri erano nazisti. Da allora l’unità è stata formalmente integrata nelle forze armate regolari, ma gli analisti sono scettici sul successo della “depurazione” ideologica: la simbologia delle SS rimane visibile su uniformi e corpi di molti membri, e la leadership originaria è rimasta in gran parte al comando.
Ciò che preoccupa maggiormente gli osservatori è la documentata tendenza di queste formazioni a ignorare gli ordini quando non corrispondono ai loro obiettivi. Come ha osservato un’analisi di Responsible Statecraft del settembre 2025, “un’organizzazione di estrema destra con le uniche formazioni realmente capaci in combattimento e una dimostrata disponibilità a ignorare gli ordini rischia di far saltare qualsiasi accordo di pace con la Russia, anche se nessuno dei governi coinvolti fosse interessato a combattere”.
Il parallelo con gli Arditi italiani diventa ancora più calzante se si considera la struttura politica del movimento. Azov non è solo un’unità militare: esiste un partito politico collegato (il Corpo Nazionale), campi estivi paramilitari per giovani, e una rete di reclutamento che si estende ben oltre i confini del reggimento. Esattamente come i Fasci di combattimento del 1919 univano “la temerarietà dell’azione politica futurista con l’assuefazione alla violenza dei reduci”, così il movimento Azov combina capacità militari di primo livello con un’ideologia radicale e ambizioni politiche esplicite.
Va detto, per onestà intellettuale, che non tutti gli Arditi italiani confluirono nel fascismo. Una parte significativa fondò gli “Arditi del Popolo”, formazione antifascista che difese Parma dallo squadrismo nel 1922. Allo stesso modo, sarebbe scorretto dipingere l’intero corpo degli ufficiali e dei reduci ucraini come estremisti. La stragrande maggioranza dei combattenti ucraini è composta da cittadini comuni che difendono il proprio paese. Ma è proprio questa la lezione storica italiana: bastò una minoranza organizzata, addestrata e ideologizzata per destabilizzare un’intera nazione nel vuoto di potere del dopoguerra.
Le armi della discordia: il rischio di un arsenale europeo della criminalità
Se la questione delle milizie riguarda principalmente la stabilità interna dell’Ucraina, il problema del traffico di armi è una minaccia diretta alla sicurezza europea, Italia compresa.
L’Ucraina ha ricevuto oltre 363 miliardi di dollari in aiuti NATO fino a febbraio 2025, una quantità di armamenti senza precedenti nella storia recente. A questo si aggiungono le “armi trofeo” russe catturate sul campo di battaglia e le armi civili distribuite alla popolazione nei primi giorni dell’invasione, stimate tra 1 e 5 milioni di pezzi. A dicembre 2024, solo 2.000 di queste armi risultavano registrate nel nuovo Registro Unificato ucraino.
Fin dal 2022, Europol ha lanciato l’allarme: armi ucraine stavano già raggiungendo la criminalità organizzata europea. Le autorità finlandesi hanno confermato sequestri di armi provenienti dall’Ucraina, e ritrovamenti simili sono stati registrati in Svezia, Danimarca, Paesi Bassi. Nel 2024, media spagnoli hanno riportato che bande nel sud della Spagna avevano acquisito armi moderne presumibilmente contrabbandate dall’Ucraina.
Un rapporto Europol dell’aprile 2025, intitolato “The changing DNA of serious and organised crime”, avverte esplicitamente: “Persistono preoccupazioni sul fatto che l’Ucraina possa diventare una fonte significativa di armi da fuoco e munizioni illecite nel breve-medio termine”. Gli arsenali di armi di livello militare, droni e munizioni lasciati sui campi di battaglia rischiano di essere sfruttati dalla criminalità organizzata quando le ostilità cesseranno.
La Global Initiative Against Transnational Organized Crime ha dedicato una conferenza a Bruxelles nel gennaio 2025 proprio a questo tema, simulando tre scenari (accordo di pace, stallo, vittoria decisiva) e le rispettive implicazioni per il traffico di armi. Le conclusioni sono preoccupanti: in qualsiasi scenario, la smobilitazione rappresenta un momento critico. Soldati che torneranno a economie in difficoltà, spesso in possesso di “armi trofeo” non dichiarate, costituiranno un bacino potenziale per trafficanti e criminalità organizzata.
Per l’Italia, il rischio è duplice. Da un lato, le rotte tradizionali del traffico di armi dai Balcani, già attive dopo le guerre jugoslave degli anni ’90, potrebbero essere rivitalizzate con armamenti di qualità superiore. Dall’altro, esiste la possibilità che ex combattenti con addestramento militare e ideologia estremista offrano i propri “servizi” a organizzazioni criminali europee come gruppi di fuoco mercenari.
Non si tratta di fantascienza: precedenti storici esistono. Dopo il conflitto jugoslavo, armi e veterani alimentarono per anni la criminalità organizzata balcanica e le sue ramificazioni europee. Dopo la caduta della Libia nel 2011, arsenali interi si dispersero nel Sahel e nel Mediterraneo. L’Ucraina rappresenta un conflitto di scala incomparabilmente maggiore, con armamenti infinitamente più sofisticati.
Le autorità ucraine, va detto, hanno fatto del controllo delle armi una priorità politica. A febbraio 2025, il Ministero dell’Interno ha inaugurato un Centro di Coordinamento per il Contrasto al Traffico Illecito di Armi, in collaborazione con Europol e OSCE. Ma la sfida è titanica: controllare milioni di armi in un paese in guerra, con frontiere porose e una corruzione endemica, richiederà anni di sforzi anche dopo la fine delle ostilità.
Per le forze dell’ordine europee, e italiane in particolare, questo significa prepararsi a uno scenario in cui armi da guerra, non pistole o fucili da caccia, ma lanciarazzi, granate, sistemi anticarro, droni armati, potrebbero diventare disponibili sul mercato nero continentale. Un’eventualità che cambierebbe radicalmente gli equilibri tra Stato e criminalità organizzata.
l’Ucraina alla prova della storia
L’Ucraina del dicembre 2025 è un paese stretto tra pressioni convergenti che sembrano restringere progressivamente il suo margine di manovra. La corruzione che Euromaidan avrebbe dovuto estirpare si è dimostrata più resiliente delle istituzioni create per combatterla. Il fronte militare mostra segni di cedimento. L’alleato americano preme per una pace che molti ucraini percepirebbero come una resa. L’Europa offre solidarietà e denaro, ma non ancora le capacità militari per garantire autonomamente la sopravvivenza del paese.
A tutto questo si aggiungono le incognite del dopoguerra: decine di migliaia di combattenti addestrati ed ideologizzati, alcuni dei quali in formazioni con simpatie neonaziste documentate, che dovranno essere reintegrati in una società traumatizzata e impoverita. E milioni di armi che rischiano di alimentare la criminalità organizzata europea per decenni a venire.
Il parallelo storico con l’Italia del primo dopoguerra non è retorica. Gli Arditi che confluirono nello squadrismo fascista erano una minoranza tra i reduci, ma bastarono a destabilizzare una democrazia fragile. L’Ucraina post-conflitto sarà altrettanto fragile, forse di più: dovrà gestire territori devastati, milioni di sfollati, un’economia in macerie e il trauma collettivo di una guerra che ha toccato ogni famiglia.
Eppure, alcuni elementi di forza rimangono. L’opinione pubblica ucraina, pur provata da quasi quattro anni di guerra, mantiene una coesione notevole. Le agenzie anticorruzione, nonostante i tentativi di imbavagliarle, continuano a funzionare, cosa che non si poteva dire dell’Ucraina di Yanukovych. E la cultura politica pluralista che ha prodotto due rivoluzioni in vent’anni rimane viva.
La partita che si gioca in queste settimane a Mosca, Washington, Bruxelles e Kiev determinerà non solo il futuro dell’Ucraina, ma dell’intero ordine di sicurezza europeo. Se Putin otterrà una pace alle sue condizioni, il messaggio sarà chiaro: la forza bruta paga, i confini possono essere ridisegnati con i carri armati, e le garanzie occidentali sono carta straccia. Se l’Europa riuscirà invece ad assumere un ruolo autonomo nella garanzia della sicurezza ucraina, potrebbe nascere qualcosa di nuovo: un pilastro europeo della difesa occidentale che non dipenda interamente dalla volontà di un presidente americano.
Qualunque sia l’esito del conflitto, l’Ucraina del 2025 non è più quella del 1991, quando una nazione votò per l’indipendenza senza forse comprendere appieno cosa significasse difenderla. Tre decenni di storia travagliata hanno forgiato un’identità nazionale che, nel bene e nel male, è oggi più definita di quanto sia mai stata. Il prezzo pagato per questa consapevolezza è stato, e continua ad essere, terribile.
Ma come disse Churchill il 10 novembre 1942, subito dopo la vittoria alleata nella Battaglia di El Alamein in un contesto diverso ma non dissimile:
“Questo non è la fine. Non è nemmeno l’inizio della fine. Ma è, forse, la fine dell’inizio.”
L’articolo Ucraina 2025: anatomia di una crisi e scenari per il futuro del conflitto proviene da Difesa Online.
Dal referendum del 1991 allo scandalo Mindich, passando per Euromaidan: le radici profonde di una guerra che sta ridisegnando l’ordine europeo
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