Verso una “guerra per procura” in Ucraina?
Soffia un brutto vento sull’Europa, man mano che il muro contro muro Est-Ovest in Ucraina mette radici promettendo una guerra duratura e dagli sviluppi imprevedibili.
A oltre due mesi e mezzo dall’inizio della cosiddetta “operazione speciale” delle forze russe, che Mosca non considera una guerra a sé stante, reputandola evidentemente conseguenza degli spargimenti di sangue in atto in Donbass dal 2014, gli iniziali sospetti, condivisi da molti esperti, sul carattere di “guerra per procura” fra Russia e NATO di cui gli ucraini sono strumento, ovvero carne da cannone, hanno trovato crescenti conferme negli ultimi giorni con l’alternanza fra possibili aperture ucraine a un dialogo con il Cremlino e un’intransigenza ferrea da parte degli Stati Uniti, che, anzi, hanno fatto di tutto finora per presentare lo scontro in termini epocali con richiami fin troppo frequenti alla Seconda Guerra Mondiale e alla lotta fra democrazie e dittature.
Dimenticando però, a beneficio delle semplificazioni giornalistiche, che 80 anni fa la coalizione contro l’Asse germano-italo-giapponese comprendeva anche una dittatura, quella sovietica di Stalin. Ma che la realtà sia molto più complessa delle stucchevoli rappresentazioni di “Bene contro Male”, lo testimoniano anche le numerose sfumature della situazione odierna, dato che lo schieramento ostile alla Russia non abbraccia certo tutte le democrazie del mondo, anzi, la democrazia più popolosa, l’India, non si pone problemi nell’offrire appoggio a Mosca, rifiutando ogni ipotesi di sanzioni, nonostante condivida questo atteggiamento col regime comunista cinese, col quale pure Nuova Delhi ha contenziosi sul confine dell’Himalaya.
Muro contro muro
Eppure l’11 maggio 2022 il presidente ucraino Volodymir Zelensky ha ancora parlato in termini manichei, scrivendo su Telegram: “E’ chiaro a tutto il mondo libero che l’Ucraina è la parte del bene in questa guerra. E la Russia perderà, perché il male perde sempre”. Parole letteralmente improponibili in diplomazia, che sembrano dettate a Kiev dal “padre-padrone” americano che ha tutto l’interesse che la guerra prosegua.
Non è un caso che quella che era sembrata una timida apertura dello stesso Zelensky pochi giorni prima, quando aveva posto come condizione dei negoziati “il ritiro dei russi sulle posizioni tenute il 23 febbraio”, cioè fino al giorno precedente l’inizio dell’invasione, senza nominare esplicitamente la restituzione della Crimea, erano state rimbeccate dal segretario generale della NATO, il norvegese Jens Stoltenberg: “La NATO non accetterà mai che la Crimea rimanga alla Russia”.
Certo Stoltenberg ha precisato che scelte e decisioni spettano agli ucraini e in molti hanno gridato alla strumentalizzazione delle affermazioni del segretario generale della NATO ma il messaggio è risultato forte e chiaro per tutti: Kiev non sembra poter imbastire una propria autonoma linea di condotta negoziale, ormai “ostaggio” dell’Alleanza Atlantica e soprattutto degli USA, ormai chiaramente parte del conflitto.
Del resto il 13 maggio anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha affermato che “non accetteremo alcuna pace imposta all’Ucraina” aggiungendo che la pace sarà impossibile nel caso in cui la Russia annettesse una parte dei territori ucraini.
Sempre l’11 maggio, sono emersi indizi di possibili contatti a livello riservato fra le due parti, per quanto appena abbozzati. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova ha detto che “i contatti sono in corso”, seguita dal portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov, secondo cui “il processo dei negoziati continua senza mediatori in modo piuttosto lento e inefficace”. La diplomazia, è, in sostanza ridotta al lumicino, in questo momento, anche perchè l’Ucraina vuole constatare fino a che punto può tener testa ancora alla Russia grazie al supporto occidentale in armi e anche in informazioni, allo scopo di sedersi al tavolo solo quando avrà acquisito un peso negoziale stremando l’attaccante, perlomeno nelle sue speranze.
Ma poiché anche i russi ragionano in modo speculare, volendo trarre il massimo profitto dalla loro superiorità in termini di massa e di resistenza sul lungo periodo, è intuibile che la carneficina proseguirà finché una delle due parti non potrà più nascondere i propri cedimenti.
In questo braccio di ferro, il 3 maggio il presidente americano Joe Biden ha compiuto una visita alla fabbrica dei missili anticarro Javelin destinati all’Ucraina, lo stabilimento Lockheed-Martin a Troy, in Alabama, lasciando intendere quanto la guerra ucraina sia benefica per l’economia americana, l’occupazione e i profitti del complesso militar-industriale.
E lo stesso giorno la CIA ha praticamente lanciato ai cittadini russi quasi un appello a tradire il proprio paese e a spiare per conto degli americani. Stando al New York Times, la maggiore agenzia americana d’intelligence ha postato su Youtube istruzioni in lingua russa che spiegano come “condividere informazioni” contattando la CIA in forma anonima e senza che i servizi del controspionaggio russo lo vengano a sapere, usando il dark web e connessioni VPN per aggirare la sorveglianza russa su internet.
Ha detto la portavoce della CIA Susan Miller: “Stiamo fornendo istruzioni in lingua russa su come contattare in sicurezza la CIA, tramite il nostro sito sul dark web o una VPN affidabile, a tutti coloro che hanno bisogno di contattarci a causa di questa guerra ingiusta della Russia contro l’Ucraina”.
A parte il discorso sull’istigazione al tradimento del proprio paese, è alto il rischio che la CIA stessa, fabbricandosi un canale a senso unico di informazioni, anche anonime, dalla Russia, venga inondata da informazioni inaffidabili che magari gli stessi servizi segreti russi possono diffondere attraverso finti traditori, il che nella storia dell’intelligence è molto diffuso, si tratta di “intossicare” i servizi d’informazione altrui con falsità, integrali o miste a verità parziali, oppure informazioni volte a, pezzo per pezzo, a portare a smascherare le vere spie.
Fra i tanti avvertimenti russi agli americani, intanto, fra il 4 e il 5 maggio, si sono susseguiti, dapprima sulla tivù russa richiami alla capacità delle forze nucleari di Mosca di spazzar via Berlino, Parigi e Londra nel giro di “200 secondi” con missili balistici, nonché la sommersione della Gran Bretagna con le ondate tsunami cagionabili dal siluro-drone termonucleare da 100 megatoni Status 6 Poseidon.
E poi esercitazioni di lancio simulato di missili balistici Iskander nell’enclave di Kaliningrad, la base russa incuneata fra Polonia e Lituania. L’esercitazione simulava “un contrattacco”, contemplando anche un’ipotesi di attacco straniero alle basi di Kaliningrad di tipo atomico e/o chimico.
In realtà gli Iskander-M di base a Kaliningrad, che pure possono essere dotati di una testata nucleare, hanno un raggio d’azione stimato in 480, forse 500 km, e potrebbero battere basi NATO in Polonia, ma non arrivare al resto d’Europa. A Kaliningrad, per quel che si sa, non sono dispiegati missili a più lunga gittata, sebbene siano di base anche unità della Marina (Flotta del Baltico) e dell’aviazione che possono portare altri ordigni nucleari. Esiste comunque una versione dell’Iskander, Iskander K, dove la K sta per Krylataya, “alata”, che lancia un missile da crociera di derivazione Kalibr, che i russi sostengono con gittata limitata a 480 km, ma potrebbe essere maggiore.
“Affiti & Prestiti”: gli USA sono già in guerra?
Oltre all’opera di consiglieri e contractors americani, britannici e in genere occidentali, in Ucraina, ormai nota da mesi e ben presenti secondo indiscrezioni anche in prima linea (recentemente segnalati soprattutto nel settore di Kharkiv) , un segnale di coinvolgimento sempre maggiore degli Stati Uniti nel conflitto si è avuto il 2 maggio, quando la testata americana “Politico” ha riportato che “nelle file ucraine sta combattendo un gruppo di volontari statunitensi con esperienza militare”, capeggiati da un certo Harrison Jozefowicz, reduce dell’esercito USA ed ex-poliziotto di Chicago.
Il gruppo di Jozefowicz, come spiega il giornale, si chiama Task Force Yankee e sarebbe composto da “190 combattenti”. L’ex-poliziotto ha dichiarato a Politico che sarebbero “migliaia gli americani, e volontari di altri paesi” che lottano in Ucraina. E ciò parrebbe corroborare quanto fin dallo scorso 27 aprile aveva stabilito una commissione d’inchiesta russa, che stimava il peso straniero nelle file di Kiev in “16 gruppi armati con elementi provenienti da 50 paesi”.
Nuovi segnali, con inquietanti richiami al passato, si sono avuti il 9 maggio. Lo stesso giorno in cui il presidente russo Vladimir Putin, alla tradizionale parata militare sulla Piazza Rossa di Mosca, collegava idealmente l’attuale battaglia per la “denazificazione” (secondo la narrazione russa) di una Ucraina filo-NATO all’eredità degli eroi sovietici della Seconda Guerra Mondiale, dall’altra parte dell’Atlantico anche l’America si richiamava al colossale conflitto che squassava il globo 80 anni fa.
Alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden ha infatti firmato l’Ukraine Democracy Defense Lend-Lease Act of 2022, un decreto apertamente ispirato al Lend-Lease Act, o “Legge Affitti e Prestiti” firmata da Franklin Delano Roosevelt nel 1941, mesi prima dell’ingresso degli USA nel conflitto. Così come lo storico Lend Lease, favorendo la cessione di armamenti ai paesi alleati, fece degli Stati Uniti “l’arsenale delle democrazie”, allo stesso modo la legge attuale intende aumentare e snellire, le procedure per gli aiuti militari all’Ucraina, in primis, e anche ai paesi NATO dell’Est in aperta contrapposizione alla Russia.
In verità ben sappiamo che anche durante il secondo conflitto mondiale la polarizzazione del confronto fra democrazie e dittature era un mito, dato che contro l’Asse, al fianco degli angloamericani, combatteva uno dei più noti esempi di totalitarismo di tutte le epoche, l’Unione Sovietica di Stalin, con tutto il suo corollario di purghe, fucilazioni e schiavitù di massa di milioni di internati.
Dal 1941 al 1945 gli USA fornirono in tal modo armamenti ed equipaggiamenti, per un valore superiore ai 50 miliardi di dollari dell’epoca (equivalenti grossomodo a 690 miliardi di dollari al cambio del 2020) a britannici, sovietici e altri alleati. Per l’esattezza, il contributo maggiore andò ovviamente alla Gran Bretagna, con 31,4 miliardi di dollari, seguita al secondo posto proprio dall’URSS di Stalin, con 11,3 miliardi, dalla Francia Libera di De Gaulle con 3,2 miliardi, dalla Cina di Chiang Kai Shek con 1,6 miliardi e da altri paesi per 2,6 miliardi.
L’odierna legge firmata da Biden esenta l’amministrazione USA da alcuni limiti relativi al prestito o affitto di armamenti che, teoricamente, dovrebbero essere restituiti agli USA alla fine del conflitto. Per esempio elimina un limite di 5 anni previsto per i prestiti di armamenti e consente al Dipartimento del Tesoro di ricevere più pagamenti dai paesi usufruttuari.
La misura dovrebbe accelerare ancor più l’arrivo di armi americane al governo di Kiev, che ha già ricevuto da febbraio 4 miliardi di dollari di sistemi letali da parte dei soli Stati Uniti. Già ora, dall’ordine presidenziale per ogni singolo “pacchetto” di aiuti militari, come l’ultimo da 150 milioni di dollari, alla consegna agli ucraini passano, secondo Washington, in media appena 72 ore.
E’ vero poi che vanno poi aggiunti gli eventuali tempi di addestramento, almeno per i sistemi più complessi, come missili e artiglierie, nonché quelli di trasporto dalla frontiera polacca fino ai fronti di combattimento, il che espone i sistemi d’arma ad attacchi aerei e missilistici russi che li distruggano prima che vengano utilizzati. Ma l’afflusso resta notevole, se si considera che per il solo intervallo dal 3 all’8 maggio sono stati stimati ben 100 voli cargo statunitensi e NATO atterrati nell’aeroporto militare polacco di Rzeszow carichi di armi e munizioni.
Appena dopo la firma della nuova “Affitti e Prestiti”, il 10 maggio il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e il suo collega alla Difesa, Lloyd Austin, hanno scritto una lettera congiunta al Congresso di Washington nella quale chiedono che i parlamentari approvino entro il 19 maggio un nuovo mega-pacchetto da quasi 40 miliardi di dollari in favore dell’Ucraina, che comprende assistenza militare, ma anche economica e umanitaria.
Si tratta della richiesta che Biden aveva inizialmente formulato nei termini di 33 miliardi, poi elevati a 39,8. Hanno scritto: “Abbiamo bisogno del vostro aiuto. La capacità di attingere alle scorte del Dipartimento della Difesa è stato uno strumento fondamentale nei nostri sforzi per sostenere gli ucraini contro l’aggressione russa.
Vi esortiamo ad esaminare rapidamente la richiesta dell’Amministrazione”. Blinken e Austin avevano fretta perchè, degli stanziamenti precedenti, erano rimasti “in cassa”, per così dire, appena 100 milioni, sufficienti a sostenere lo sforzo bellico ucraino solo fino a fine maggio. Il giorno dopo, 11 maggio, già la Camera dei Rappresentanti del Congresso ha approvato, con 368 voti favorevoli e solo 57 contrari, questi ultimi tutti di esponenti repubblicani.
Il supporto dell’intelligence USA a Kiev
Il sostegno materiale è solo un aspetto dell’impegno americano, che copre anche i settori dell’intelligence e pare ormai confermato sia stato essenziale per alcuni notevoli risultati delle forze armate ucraine, come l’affondamento in aprile dell’incrociatore russo Moskva. Ciò che già si sospettava nelle scorse settimane è stato confermato negli ultimi giorni dalla stampa americana.
Il New York Times, per primo, ha scritto il 5 maggio che i dati forniti dall’intelligence americana, specialmente per quanto riguarda l’individuazione dei posti comando mobili, sono stati utilizzati dagli ucraini per uccidere i circa 12 generali russi finora caduti in combattimento. Notizia che, se non ha contribuito a peggiorare il già catastrofico clima Washington-Mosca, è perché il governo russo già ne era ben consapevole.
Peraltro, sul tema dei generali uccisi in prima linea, precisazioni ufficiali sono giunte il 10 maggio dal generale Scott Berrier, della Defense Intelligence Agency, che davanti a una commissione del Senato ha stimato “fra 8 e 10 i generali russi uccisi”, commentando: “Penso che gli ucraini abbiano ragione in termini di grinta e di come affrontano la difesa della loro nazione. Non sono sicuro che i soldati russi dei distretti militari lontani lo capiscano davvero”. Non ha ammesso apertamente un contributo americano alle uccisioni mirate, ma indiscrezioni di funzionari anonimi alla stampa USA hanno rafforzato questa convinzione.
Del resto, il 6 maggio vari media, come Washington Post, New York Times e NBC News hanno rincarato la dose accreditando che informazioni satellitari e di intercettazione elettronica fornite dagli USA siano state il segreto del successo anche nell’indicare agli ucraini l’esatta posizione nel Mar Nero dell’incrociatore Moskva. Una fonte anonima del Washington Post ha affermato che “gli Stati Uniti non erano a conoscenza delle intenzioni degli ucraini di colpire la nave”.
Un modo di lavarsi le mani, che però risulta poco convincente, dato che gli americani ben sapevano che agli ucraini erano disponibili i missili antinave nazionali Neptun capaci di colpire la nave russa.
E’ intuibile che l’origine delle informazioni sia in massima parte legata, oltre ai satelliti, ai droni Global Hawk e agli aerei da ricognizione americani, come i P-8 Poseidon, segnalati in quei giorni sul Mar Nero e spesso decollati anche dalla base americana di Sigonella, in Sicilia. Se fonti della Casa Bianca hanno tacciato i giornali come “irresponsabili”, per aver rivelato scomodi segreti, tuttavia ampiamente intuibili nel mondo degli esperti, il portavoce del Pentagono John Kirby ha fatto mezze ammissioni, con tono distaccato e quasi sornione: “L’Ucraina combina informazioni che forniamo noi e altri con l’intelligence che loro stessi raccolgono e poi prendono le loro decisioni”.
E’ chiaro che supportare gli ucraini con immagini visive, da ricognizioni aeree o satellitari, e con tracciamenti Elint e Comint, di emissioni radar, radio, infrarossi o data link russi, a schietti fini di puntamento e distruzione di bersagli, costituisce un ulteriore, e pericoloso, passo verso un ingaggio diretto USA-Russia, poiché significa che gli americani intervengono attivamente, seppure solo negli aspetti informativi e non (o non ancora) in quelli distruttivi, nel processo di almeno alcune azioni belliche ucraine.
Si può quindi dire che gli Stati Uniti siano, di fatto, già in guerra contro la Russia, e questo senza contare la presenza di consiglieri militari? C’è chi lo sostiene, come il generale italiano Mario Mori, già direttore del SISDE dal 2001 al 2006, che il 6 maggio 2022 ha rilasciato all’agenzia ADN Kronos un interessante commento a cui la grande stampa non sembra aver dato lo spazio che meritava.
“Non mi sorprende – spiega Mori – che attraverso informazioni di intelligence si possano colpire personalità di un campo avverso, mi sorprende, nella fattispecie, che l’abbia fatto l’intelligence americana in questo momento, perché teoricamente è un atto di guerra fra due Paesi che in guerra non sono. Se do notizie a un ente, a uno Stato, per colpire mortalmente cittadini di un altro Stato, è un atto di guerra, specialmente se chi le dà è un ente pubblico o comunque fa parte delle istituzioni dello Stato”.
Poichè il portavoce russo Peskov ha fatto capire che l’esercito di Mosca “è ben consapevole del fatto che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la NATO nel loro insieme trasmettono costantemente informazioni operative alle forze armate ucraine”, l’ex-capo dei servizi segreti della Difesa italiana ne ha dedotto: “Almeno parzialmente è un dato di fatto che i russi non sono in grado di neutralizzare questo tipo di aiuto da parte dell’intelligence americana.
Si tratta di un attacco indiretto e come tale è difficile da gestire, perché un conto è sapere in un fronte di guerra chi è il tuo nemico, dove si trova, cosa può fare, un conto è questa attività di intelligence che può essere combattuta solo da una contro-intelligence. Forse in questo momento i russi non sono in grado di contrastare questa attività dell’intelligence statunitense perché impegnati in altri tipi di teatri”.
D’altronde, aggiungiamo noi, ostacolare da parte americana, e in genere occidentale, la raccolta d’informazioni tattiche da rigirare a Kiev, significherebbe per i russi, ad esempio, abbattere droni o aerei della NATO sopra il Mar Nero, attuando un’escalation che Mosca non vuole. Ciò non toglie, comunque, che, dal punto di vista informativo, a parte il discorso della fornitura di armamenti, gli Stati Uniti possano essere considerati già belligeranti, essendo la loro azione una componente fondamentale di numerose azioni letali ucraine.
Sull’aiuto informativo statunitense all’Ucraina è tornato il 12 maggio il Washington Post, che, probabilmente “imboccato” da funzionari del Pentagono ha cercato di correggere il tiro sulla questione, pur citando il commento anonimo di un ufficiale ucraino che non lascia spazio a dubbi: “L’intelligence è molto buona, ci dice dove sono i russi e possiamo colpirli”. Scrive però il giornale: “Gli Stati Uniti non sono in guerra con la Russia e l’assistenza è volta alla difesa dell’Ucraina da un’invasione illegale. Ma, in pratica, gli ufficiali USA hanno limitato controllo su come i loro beneficiari ucraini usano l’equipaggiamento militare e l’intelligence”.
E prosegue: “L’amministrazione ha calibrato la condivisione di informazioni in modo da evitare l’escalation di tensioni fra Washington e Mosca”. Il WP elenca in particolare due linee rosse che, in teoria, i servizi segreti e di ricognizione statunitensi non devono (o non dovrebbero superare): “Primo, gli USA non possono dare informazioni che aiutino a uccidere leader russi come i più alti ufficiali o ministri.
Il capo di Stato Maggiore Valery Gerasimov e il ministro della Difesa Sergei Shoigu, per esempio, ricadono in tale categoria”. Sono esclusi, teoricamente, i generali sul campo, sebbene “un ufficiale della difesa USA” abbia detto che il Pentagono “ha scelto di non aiutare a uccidere generali di ogni tipo”. La seconda linea rossa è il divieto di dare informazioni che consentano agli ucraini di sferrare “attacchi oltre i loro confini, in territorio russo”.
Svezia e Finlandia nella NATO
Da Mosca, poche ore dopo, il portavoce Peskov ha riconosciuto che “come noi anche gli Stati Uniti stanno cercando di evitare uno scontro diretto fra la Russia e la NATO”. Ma altre voci discordi invitano l’Occidente a riflettere se il gioco valga la candela. Sempre il 12 maggio, il vice presidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev, già in passato premier e presidente della Federazione in alternanza a Vladimir Putin, ha detto chiaro e tondo: “Riempire l’Ucraina di armi dei Paesi Nato, addestrare le sue truppe all’uso di equipaggiamenti occidentali, schierare mercenari e tenere esercitazioni ai confini aumenta la probabilità di un conflitto aperto e diretto tra Russia e Nato.
Un simile conflitto ha sempre il rischio di trasformarsi in una guerra nucleare totale. Sarebbe uno scenario disastroso per tutti”. Inoltre, la prospettiva che la Finlandia, seguita a ruota dalla Svezia, possa entrare nell’Alleanza Atlantica spalanca ulteriori spazi di tensione, minando una lunga tradizione di neutralità scandinava, con l’eccezione della Norvegia, in cui Helsinki e Stoccolma facevano da cuscinetto col fianco settentrionale della NATO.
Il patto di assistenza militare che il premier britannico Boris Johnson, volenterosa avanguardia dell’alleato americano, ha firmato con Finlandia e Svezia nel suo recentissimo viaggio nei due paesi fra 10 e 11 maggio, prevede l’invio di contingenti militari della Gran Bretagna a sostegno dei due paesi se attaccati dalla Russia. E sembra proprio una sorta di “pezza” che dovrebbe coprire le spalle a svedesi e finnici nei prossimi mesi, in attesa della loro adesione formale alla NATO, che pare ormai decisa anche se sarà necessaria l’approvazione all’unanimità di tutti gli stati membri e la Turchia ha già espresso la sua contrarietà.
Così, già il 12 maggio, il presidente e la premier finlandesi, Sauli Niinistö e Sanna Marin hanno dichiarato che “la Finlandia deve presentare domanda di adesione alla NATO senza indugio”, sostenuti anche dai dati demoscopici divulgati dal ministro degli Esteri finlandese, Pekka Haavisto, che in un’audizione alla Commissione Esteri del Parlamento europeo ha sostenuto che “negli ultimi mesi, il sostegno pubblico all’adesione alla Nato è cresciuto fino al 70% di oggi”.
La decisione di Helsinki ha suscitato il plauso soprattutto dei membri Est dell’alleanza, i più antirussi, come Polonia, Estonia e Romania, inoltre il segretario della NATO Stoltenberg ha subito promesso: “Se la Finlandia chiederà di aderire alla NATO, sarà accolta calorosamente e il processo sarà fluido e rapido”. Dalla vicina Svezia, la ministra degli Esteri Ann Linde fa sapere che “dobbiamo tener conto delle valutazioni della Finlandia, la Svezia deciderà se aderire alla NATO dopo la presentazione del rapporto delle consultazioni sulla politica di sicurezza”.
Aprire per la Russia un potenziale fronte di tensione lungo oltre 1.300 chilometri, tanto si estende il confine finnico, non sembra però il modo migliore per disinnescare una crisi che sta pericolosamente lievitando, inoltre l’improvviso mutamento geopolitico che mette in soffitta in poco tempo oltre 70 anni di neutralità di un paese a poca distanza da San Pietroburgo richiede al presidente russo Vladimir Putin e alla sua dirigenza una dose di sangue freddo che non lo faccia agire d’impulso.
Per ora, il ministero degli Esteri di Mosca ha diffuso una nota già fin troppo eloquente: “L’adesione della Finlandia alla Nato rappresenta un cambiamento radicale nella politica estera del Paese. La Russia sarà costretta ad adottare misure di ritorsione, sia di tipo tecnico-militare sia di altra natura, al fine di fermare l’insorgere di minacce alla sua sicurezza nazionale”. La nota russa specifica che “molto dipenderà anche dalla presenza di strutture NATO, oppure no, in Finlandia”, lasciando intendere che, forse, una mera adesione politica, ma senza presenza di basi o forze alleate stanziali potrebbe essere meglio sopportata dai russi.
Una guerra lunga
Gli Stati Uniti, dalla loro “cabina di regia”, sanno ciò che si può preparare, e sicuramente sanno più di quanto lasciano trapelare. Ma già è preoccupante ciò che emerge dalle fonti aperte, figuriamoci quali considerazioni possono circolare negli ambienti riservati. Il 10 maggio una previsione molto pessimistica è stata esternata nientemeno che dalla direttrice nazionale dell’intelligence USA, Avril Haines, alla Commissione del Senato delle forze armate.
Secondo le valutazioni congiunte dei principali servizi d’informazione americani, coordinati dalla Haines, fra cui, solo per ricordare i principali, la CIA, l’NSA e la DIA, la Russia “si prepara a un conflitto prolungato che può diventare più imprevedibile per la mancata corrispondenza tra le ambizioni di Vladimir Putin e le capacità militari”. E ha proseguito: “Sia la Russia che l’Ucraina credono di poter progredire militarmente, trasformando il conflitto in una guerra di logoramento senza prospettive per negoziati di pace a breve termine”.
Per la Haines: “Riteniamo che Putin si stia preparando per un conflitto prolungato in Ucraina, durante il quale intende ancora raggiungere obiettivi oltre il Donbass. Vuole controllare le riserve idriche della Crimea, occupare la regione di Kherson e catturare Odessa”.
La direttrice dell’intelligence americana non sbaglia quando osserva che: “Putin ritiene che la Russia abbia una maggiore capacità e volontà di sopportare le sfide rispetto ai suoi avversari e probabilmente conta sul fatto che la determinazione di Stati Uniti e UE si indebolirà man mano che la carenza di cibo, l’inflazione e i prezzi dell’energia peggioreranno”. E’ infatti tipico nella storia strategica dei russi tirare la cinghia per molto tempo se devono affrontare un avversario pericoloso e i danni economici da sanzioni, tendenzialmente dovrebbero spaventare meno loro che gli occidentali.
Intanto, però, se il 12 maggio il flusso di gas verso l’Europa occidentale attraverso il gasdotto che passa dal territorio ucraino è diminuito di un terzo, lo è stato per decisione di Kiev, che ha fatto passare dalla stazione di rilevamento di Soudja solo 50,6 milioni di metri cubi di gas contro i consueti 72 milioni. Ciò perchè l’Ucraina afferma che il transito del gas dalla regione di Lugansk “non è possibile a causa della presenza delle forze armate russe”.
Ma finchè sul campo i combattimenti si limitano all’Ucraina, è proprio giocando sul tempo che la Russia può far valere il divario in uomini e risorse, dato che, per gli ucraini, il semplice arrivo di nuove armi da Occidente, di per sé, in un paese esausto e devastato, non basta, dato che occorre anche la prosecuzione della volontà di combattere. Naturalmente, anche se la direttrice degli 007 statunitensi non lo dice, il puntare sul confronto di lungo periodo per sfiancare l’avversario vale anche in senso opposto per gli occidentali, che proprio sul doppio logoramento della lotta in territorio ucraino e delle sanzioni contano per piegare Mosca.
La Haines ha concluso con stime sulla tensione nucleare, che non dovrebbe spingersi realisticamente oltre certi limiti: “La Russia continuerà a usare la retorica nucleare per dissuadere l’Occidente dal fornire ulteriore assistenza militare all’Ucraina. Ma Putin probabilmente autorizzerebbe l’uso di armi nucleari solo se percepisse una minaccia esistenziale per lo stato o il regime russo.
Stiamo sostenendo l’Ucraina, ma non vogliamo nemmeno finire nella terza guerra mondiale e non vogliamo avere una situazione in cui gli attori utilizzino armi nucleari”. Lo stesso giorno, anche il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian ha affermato di temere “una guerra lunga e difficile” in Ucraina, ritenendo che Putin abbia commesso “alcuni errori strategici”, come “pensare che l’Ucraina sarebbe caduta subito”, nonché “considerare l’Unione Europea fragile”.
Il 13 maggio il colloquio telefonico tra il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu e il capo del Pentagono Lloyd Austin è durato circa un’ora e ha costituito, pur se con toni freddi, la ripresa delle comunicazioni a livello politico-militare tra le due potenze.
Austin ha chiesto con fermezza “un cessate il fuoco immediato”, ha spiegato il portavoce del Dipartimento alla Difesa John Kirby precisando che la telefonata al momento non ha risolto “nessuno dei gravi problemi”.
Del resto in una telefonata nello stesso giorno con il cancelliere tedesco Olaf Scholz (che ha chiesto una tregua il più velocemente possibile), Putin ha precisato che “le discussioni tra Russia e Ucraina sono state bloccate da Kiev”. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov non ha nascosto invece l’irritazione per la prospettiva di un ingresso di Kiev nella Ue che “si è trasformata da una piattaforma economica costruttiva in un attore aggressivo e militante che ha dichiarato le proprie ambizioni ben oltre il continente europeo”.
Per tutta risposta l’Alto Rappresentante per la politica estera della Ue, Josep Borrell, che ha appena annunciato altri 500 milioni di euro aiuti militari a Kiev, ha detto che “è Putin non vuole fermare la guerra, perché ha obiettivi militari e finché non li raggiungerà continuerà a combattere”.
Il dibattito in Italia
Il premier italiano Mario Draghi è stato ricevuto l’11 maggio dal presidente statunitense Joe Biden a Washington, venendo poi premiato con l’Atlantic Council Distinguished Leadership Award 2022. Pur ribadendo al presidente americano che “l’Italia e l’Europa vogliono la pace”, Draghi nei fatti non si è discostato molto dalla linea USA, probabilmente contribuendo ad accreditare le indiscrezioni che da settimane vogliono l’attuale premier italiano tra i favoriti alla successione nel 2023 di Stoltenberg come nuovo segretario generale della NATO.
D’altronde, a differenza della Turchia, che effettivamente si è spesa per una reale mediazione e oggi si oppone all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, Draghi ha ribadito che l’Italia vuole “aiutare ad arrivare alla pace, ma partendo dall’accoglimento delle richieste di Kiev” e che “spetterà agli ucraini decidere i termini di questa pace e a nessun altro”.
E’ ovvio però che, tenuto conto che l’Ucraina farà dipendere la sua disponibilità ai negoziati dal peso conseguito sul campo di battaglia, altrettanto farà la Russia portando all’estenuante prolungamento della lotta. Il vertice Draghi-Biden ha contribuito a rilanciare nel nostro paese il dibattito sulle forniture di armi italiane all’Ucraina, sempre oggetto di indiscrezioni e mai di una precisa lista ufficiale.
Oltre all’invio di 600(800 militari italiani di rinforzo alle guarnigioni NATO in Romania e Bulgaria, è sul piatto l’ampliamento del sostegno militare italiano a Kiev, che oltre a missili antiaerei Stinger e anticarro Milan, potrebbe comprendere anche blindo ruotati Lince. In fatto di artiglieria semovente, si discuterebbe se i circa 200 vecchi cingolati M109 immagazzinati dall’Esercito Italiano, con obice da 155 mm e gittata di 18 km, siano in condizioni di essere portati in Ucraina e utilizzati.
In alternativa potrebbero essere inviare alcuni esemplari del semovente PZH-2000, che nel nostro esercito è in servizio in soli 70 esemplari e perciò prezioso, oppure obici trainati FH-70 da 155 mm di cui alcune decine di esemplari risultano in surplus rispetto alle esigenze dell’Esercito Italiano.
Sul PZH-2000 si stanno muovendo con sicurezza Germania e Olanda, che vogliono inviare un totale di 12 esemplari, di cui 7 tedeschi e 5 olandesi. Allo scopo è già iniziato, dall’11 maggio, l’addestramento di 18 equipaggi ucraini alla scuola d’artiglieria tedesca di Idar-Oberstein. Sempre dalla Germania, il gruppo Rheinmetall ha reso noto il 10 maggio, per bocca del suo amministratore delegato Armin Papperger, intervistato dal quotidiano “Sueddeutsche Zeitung”, che potrà fornire all’Ucraina i primi veicoli corazzati da fanteria Marder “entro tre settimane”.
Il totale di Marder potrebbe arrivare a 100 esemplari, ma l’industria tedesca sta aspettando ancora l’autorizzazione da parte del governo di Berlino. Rheinmetall si è portata avanti per risparmiare tempo e già da un mese sta ammodernando i Marder. Anche, perchè, ha aggiunto Papperger: “Attualmente, vi sono abbastanza Paesi che vogliono questi mezzi, non soltanto l’Ucraina”. Ha inoltre ricordato che l’azienda dispone anche di carri da battaglia Leopard 1 radiati dalla Bundeswehr e che pure, se il governo del cancelliere Olaf Scholz lo consentirà, potranno essere forniti all’Ucraina.
Ma il tempo stringe e, dato che addestrare carristi ucraini ai Leopard con sufficienti garanzie di successo in combattimento non può essere fatto in poche settimane, si tendono sempre a privilegiare mezzi di origine ex-sovietica che gli uomini di Zelensky conoscono già come le loro tasche. E’ il caso dei carri T-72 che la Repubblica Ceca ha assicurato a Kiev, ma per sostituirli nel proprio esercito, Praga sta trattando con la Germania come abbiano raccontato su Analisi Difesa.
La battaglia dell’isola dei Serpenti
Nelle prime settimane di maggio ha ripreso importanza il teatro sudoccidentale, soprattutto attorno alla piccola ma strategica, Isola dei Serpenti, poco più di uno scoglio, largo 600 metri, che si estende nel Mar Nero a 35 chilometri dalla costa, vicinissima alla Romania, e dunque ai confini della NATO.
L’isola è importante come punto di appoggio per possibili iniziative verso Odessa o in appoggio alla Transnistria filorussa, che seppure non abbia sbocco al mare e comunque vicina in linea d’aria. Si ricorderà che l’isola era stata occupata dai russi fin dall’inizio del conflitto, ma nella prima metà di maggio gli ucraini hanno aumentato la loro attività aerea di attacco all’isola e alle unità navali russe nella zona in preparazione di un tentativo di sbarco per riconquistarla. Sbarco che però è fallito.
Già il 2 maggio droni ucraini Bayraktar TB-2 di fornitura turca hanno affondato due motovedette russe classe Raptor (nella foto sotto) presso l’Isola dei Serpenti. Kiev ha diffuso immagini delle due piccole unità, lunghe 16 metri e dislocanti solo 23 tonnellate, colpite dai missili lanciati dai droni, mentre portavano soldati e rifornimenti sull’isola. A Odessa, lo stesso giorno secondo fonti ucraine “sono stati catturati 12 sabotatori russi che preparavano attacchi in città e nella perquisizione sono stati trovati armi ed esplosivi”.
Pare che i “sabotatori”, non si sa se agenti infiltrati o cittadini filorussi, intendessero “provocare una rivolta della popolazione contro il governo di Kiev”. In effetti Odessa ha ancor oggi quasi il 30% di popolazione russa e un tentativo di conquistarla potrebbe appoggiarsi a simpatizzanti locali di Mosca. Sulla stessa città la contraerea ha abbattuto un drone russo Orlan, mentre un missile russo ha colpito, per la terza volta in pochi giorni, uno strategico ponte sulla foce del Dnestr, al confine con la Transnistria.
E’ in questo contesto che è maturato il tentativo ucraino di attaccare e prendere l’isola, combinando azioni aeree, anche con caccia pilotati e sbarchi da elicotteri e dal mare. Le prime fasi dell’azione, fra 7 e 8 maggio, sono state accompagnate dalla diffusione di filmati notturni da parte ucraina che mostravano il bombardamento effettuato da almeno due caccia, non si riesce a distinguere se Sukhoi Su-25 o Su-27, al presidio russo sull’isola.
L’8 maggio da parte russa è arrivato un primo resoconto impreciso della seguente battaglia, secondo cui, stando all’agenzia TASS e al ministero della Difesa di Mosca: “L’aviazione russa ha distrutto la notte scorsa una corvetta ucraina classe Project 1241 (ce ne siamo occupati anche in questo articolo) vicino a Odessa e ha eliminato 420 combattenti nazionalisti ucraini. La difesa aerea russa ha abbattuto due caccia Su-24 e un elicottero Mi-24 ucraini vicino all’Isola dei Serpenti”.
Frattanto gli ucraini diffondevano un video curioso, sempre in notturna, in cui si vedeva un elicottero Mil Mi-8 stazionare in hovering sopra l’isola per farne discendere, calate con una fune, quelle che sembravano truppe speciali. Il filmato poi mostrava che l’elicottero veniva colpito e distrutto con un’esplosione che illuminava la notte. Ebbene, gli ucraini e molta stampa occidentale hanno parlato della distruzione di un “elicottero russo che sbarcava truppe sull’isola”, ma non sembra remota la possibilità che sia il contrario e che le immagini si riferiscano alla batosta subita dagli ucraini.
Più dettagli sono emersi fra 8 e 9 maggio, quando il generale Konashenkov ha spiegato: “Fin dal 7 maggio, su diretto ordine di Zelensky, lo Stato Maggiore ucraino, con la diretta partecipazione di consiglieri militari americani e britannici, ha progettato una maggiore provocazione volta a prendere l’Isola dei Serpenti.
Ma grazie alla professionalità delle forze armate russe, il tentativo è stato sventato e il nemico ha avuto pesanti perdite”. Presumibilmente nella notte fra 7 e 8 maggio, dunque forze speciali ucraine, appoggiate dall’aviazione avrebbero approcciato l’isoletta, per essere però annientate dall’intervento dell’aviazione di Mosca.
Caccia russi avrebbero “distrutto in aria” tre Su-24 ucraini e un Su-27, che facevano parte della forza d’appoggio aereo, nonché 4 elicotteri che portavano truppe per l’aviosbarco, nella fattispecie tre Mil Mi-8 e un Mil Mi-24. Poichè parte della forza ucraina doveva prender terra anche dal mare, partecipavano anche tre unità navali Project 58181 classe Centauro, ciascuna in grado di portare fino a 28 militari, pure distrutte.
“Più di 50 sabotatori ucraini – ha detto ancora il portavoce militare russo – sono stati annientati e sulle spiagge dell’isola ci sono ancora i corpi di 24 di essi”. L’indomani i russi rettificavano a 27 il numero dei corpi dei nemici, aggiungendo che “tre cadaveri sono stati recuperati in acqua”. Gli ucraini, inizialmente, hanno taciuto, nemmeno una smentita.
Poi, il 9 maggio Kiev ha implicitamente ammesso la sconfitta ricordando la figura di un alto ufficiale morto nell’azione. Si trattava del colonnello Ihor Bedzai, vice comandante del corpo aereo della Marina ucraina, capo della 10a Brigata Sakska dell’aviazione navale, che quella notte era in volo su uno degli elicotteri impegnati nell’aviosbarco. “E’ stato ucciso da un missile sparato da un caccia russo”, ha scritto la stampa di Kiev.
Originario di Mikolayv, era considerato uno dei migliori piloti delle forze armate ucraine. «È morto nei cieli che amava e difendeva», ha detto l’esperto militare Taras Chmut, direttore della Fondazione Come Back Alive: “Nel 2014 il colonnello Bezdai è stato uno, se non l’unico membro dell’intero comando della flotta che ha dimostrato leadership e determinazione Mentre tutti aspettavano i mitici ‘ordini da Kiev’, lui ha organizzato il personale e preparato le attrezzature”.
Se davvero il raid sull’Isola dei Serpenti fosse stato organizzato con l’aiuto di consiglieri militari anglo-americani, la sconfitta dev’essere ancor più bruciante per Washington e Londra, e senza spingersi a ipotizzare che addirittura qualche consigliere possa aver partecipato alla fallita azione, trovandovi la morte.
Ancora il 9 maggio obiettivi militari a Odessa sono stati bersagliata da missili russi, mentre era visitata dal presidente del Consiglio dell’Unione Europea, Charles Michel. Come quando era stata bombardata Kiev mentre vi si trovava il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Michel s’è focalizzato sul blocco navale della flotta russa che impedisce l’esportazione del grano ucraino, che sta marcendo nei silos. Poi, il rappresentante UE è sceso in un rifugio antiaereo per l’arrivo di missili lanciati dalla Marina Russa.
Su Odessa e paraggi sono piovuti nuovi missili da crociera Kalibr, lanciati da unità navali, nonché missili Bastion, da batterie costiere in Crimea. Il Comando Operativo meridionale delle forze ucraine ha segnalato che “i russi hanno schierato nel Mar Nero, pronte al fuoco, 6 navi e 2 sottomarini con missili da crociera”. La flotta russa resta incudine di un martello che può abbattersi su Odessa dall’entroterra, se i russi avanzeranno da Kherson. Il 12 maggio il portavoce del ministero della Difesa ucraino Oleksandr Motuzyanyk, ha confermato “un trasferimento d’artiglieria russa nel Nord della Crimea per battaglie nella regione di Kherson”.
L’11 maggio un rapporto dell’intelligence britannica sosteneva che proseguono i combattimenti all’Isola dei Serpenti, con la Russia che tenta di rafforzare la sua guarnigione presente li, esposta al nemico. Le forze di Kiev, sottolineano gli 007 di Londra, hanno colpito con i droni Bayraktar TB2 (nella foto sotto) la contraerea russa e le navi di rifornimento russe: “Se la Russia consolidasse la sua posizione sull’Isola dei Serpenti con una contraerea strategica e missili da crociera, potrebbe dominare la parte nord-occidentale del Mar Nero”.
Ancora il 12 maggio un drone ucraino Bayraktar-TB2 è stato abbattuto dai russi vicino all’isola, ma poche ore dopo, la notte fra 12 e 13 maggio, Kiev ha rivendicato l’attacco e il danneggiamento, con incendio a bordo, di un’altra unità navale russa. Si tratta della nave ausiliaria Vsevolod Bobrov, che era in rotta verso l’Isola dei Serpenti, probabilmente per trasportarvi equipaggiamenti o rifornimenti, quando, colpita dal missile lanciato da drone ha preso fuoco, invertendo poi la rotta per rientrare alla base di Sebastopoli dove pare la attendano lunghi giorni di riparazioni. C’è quindi da prevedere che anche nei prossimi giorni ci saranno altre schermaglie nei cieli e nelle acque limitrofe a quell’isoletta tanto contesa.
Alta pressione
Il rapporto divulgato il 12 maggio dal Ministero della Difesa russo sull’andamento complessivo del conflitto indica una combattività che, in sostanza, si può dire immutata da giorni. I missili ad alta precisione, vale a dire missili da crociera, quando non ipersonici, delle forze aerospaziali russe hanno solo in quelle 24 ore almeno 4 posti di comando, 34 aree di concentrazione di personale ed equipaggiamento militare, 2 depositi di munizioni vicino a Novhorod-Siverskyi, nella regione di Chernigov.
Gli attacchi russi hanno ucciso 320 militari ucraini e 72 veicoli, fra corazzati e non. L’aviazione ha colpito 120 aree di concentrazione di personale ed equipaggiamento militare, talvolta utilizzando anche bombardieri pesanti come i Tupolev Tu-22M (nella foto sotto).
E’ stata distrutta una stazione radar asservita a una batteria di missili antiaerei autocarrati ucraini S-300 situata presso Odessa, per giunta viene dato per devastato un “deposito di armi missilistiche e di artiglieria” vicino a Krasnopavlovka, nella regione di Kharkiv. Sarebbero state colpite anche “405 aree di concentrazione di personale ed equipaggiamento militare, 12 posti di comando e 26 unità di artiglieria in postazioni di tiro”. Un sistema missilistico S-300 è stato annientato a Koroych, nella regione di Kharkiv, mentre 3 lanciarazzi multipli Smerch e 2 depositi di munizioni ucraini sono stati centrati a Razdolie, sempre presso Kharkiv, e a Slavyansk nella regione di Donetsk.
Ben 13 droni ucraini abbattuti vicino a Velikie Prokhody, Velikaya Kamyshevakha nella regione di Kharkov, Panteleimonovka, Avdeevka e Dolya nella regione di Donetsk, Oknino e Fabrichnoe nella regione di Lugansk, Glubokoe nella regione di Chernigov, Barvinok e Vladimirovka nella regione di Dnepropetrovsk. Inoltre 14 razzi ucraini Smerch sarebbero stato intercettati e abbattuti su varie altre località, fra cui Izjum e Donetsk.
Dice il portavoce russo, generale Igor Konashenkov: “Dall’inizio dell’operazione militare speciale sono stati finora distrutti 164 aerei ucraini e 125 elicotteri, 821 droni, 303 sistemi missilistici antiaerei, 3013 fra carri armati e altri veicoli corazzati, 364 sistemi di lancio multiplo di razzi, 1471 artiglierie da campo e mortai, 2824 veicoli militari speciali”.
Numeri che lasciano il tempo che trovano, esattamente come quelli degli ucraini, che lo stesso giorno conteggiavano l’uccisione di 26.650 soldati russi a partire dall’inizio della guerra, 1195 carri armati distrutti e 398 droni abbattuti in 78 giorni di battaglia, oltre a 199 caccia, e 161 elicotteri, 534 pezzi di artiglieria, 2873 veicoli blindati per il trasporto delle truppe, 94 missili da crociera, 191 lanciamissili, 13 navi (fra cui però sono comprese unità di piccolissimo dislocamento), 2019 tra veicoli e autocisterne per il trasporto del carburante, 87 unità di difesa antiaerea e 41 unità di equipaggiamenti speciali.
Le cifre appaiono esagerate in entrambi i campi, anche perché, come è spesso accaduto nelle guerre del passato, viene indicato come “distrutto” un mezzo o un veicolo che in realtà è stato solo probabilmente colpito o solo danneggiato. Per quanto riguarda le perdite umane fra i civili, se gli ucraini ritengono che possano essere superiori alle 20.000 persone, le stime dell’ONU sono più caute.
Per l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, le vittime civili confermate, nel periodo dal 24 febbraio al 10 maggio, sarebbero 3.496 morti e 3.760 feriti. L’ONU avverte che si tratta di un conteggio comunque per difetto e che i numeri reali sono maggiori: “Le informazioni provenienti da alcuni luoghi dove si stanno svolgendo intense ostilità sono ritardate e molte notizie su vittime civili devono ancora essere confermate. Ciò vale, ad esempio, per gli insediamenti di Mariupol (Oblast’ di Donetsk), Izyum (Oblast’ di Kharkiv) e Popasna (Oblast’ di Luhansk), dove ci sarebbero stati numerosi morti e feriti tra i civili, soggetti ad ulteriore verifica e non inclusi nelle statistiche”.
Il martellamento missilistico resta il principale mezzo strategico con cui i russi battono la maggior parte del territorio cercando soprattutto di creare problemi logistici alle truppe ucraine in prima linea, alle quali può ritardare o impedire l’arrivo di armi e munizioni.
Solo nella prima metà del mese di maggio, secondo fonti ucraine, la Russia avrebbe impiegato 74 missili balistici e da crociera, mentre dall’inizio della guerra sarebbero stati 788. Così ha relazionati il vice direttore dello Stato maggiore per le operazioni principali, generale Oleksii Hromov: “In maggio ci sono stati 49 attacchi missilistici dal territorio della Russia. Sono stati lanciati 74 missili, fra cui quattro missili Iskander, otto Tochka-U e due missili da crociera, mentre le incursioni aeree sono state 459”.
I principali obiettivi dei russi, ha precisato, sono state le infrastrutture dei trasporti nel sud e l’est dell’Ucraina. Fra i tipi di missili più impiegato, Hromov ritiene siano stati lanciati 213 Iskander, 61 Tochka-U e 235 “missili da crociera” lanciati dall’aria (Kh-55 Kh-32 ma a quanto sembra anche i vecchi KH-22 immagazzinati in riserva da dieci anni e imbarcati sui bombardieri Tupolev Tu-22M) e dal mare, probabilmente in massima parte Kalibr, mentre il numero di missioni dell’aviazione russa è quantificato in 4.917 dall’inizio delle operazioni. Il 12 maggio, peraltro, 4 missili russi hanno colpito la raffineria di Kremenchug, nella regione nord orientale di Poltava, il che avrà riflessi sui rifornimenti di carburante.
Sul terreno, fra 8 e 9 maggio in Donbass, i russi sono avanzati per cercare di tagliare fuori il saliente Lishank-Severodonetsk. Sono così riusciti a conquistare la città di Popasna, a 45 km a Sud di Lishank, da cui gli ucraini si sono ritirati su posizioni fortificate in direzione di Bakhmut.
A Popasna hanno combattuto soprattutto i contractors della compagnia Wagner e le milizie cecene filorusse che si starebbero dimostrando molto agguerrite. Popasna rappresenta una posizione rialzata molto importante a pochi chilometri da Vrubivka e Bilohorivka, dove non è chiara la situazione sul fiume Severski Donets che i russi hanno tentato di attraversare con ponti di barche distrutti dall’artiglieria di Kiev (nelle foto sopra e sotto) che ha annunciato di aver eliminato nella battaglia un battaglione meccanizzato russo.
Il 12 maggio lo Stato maggiore della Difesa ucraino ha affermato che le forze russe hanno attraversato il fiume Siverskiy Donets in direzione di Lyman, città a nord-est di Sloviansk, uno degli obiettivi strategici dei russi.
Ma il giorno successivo il capo dell’amministrazione militare regionale di Donetsk, Pavlo Kyrylenko, citato dall’agenzia di stampa Ukrinform, ha detto che “la situazione nella regione è difficile, ma controllata, l’offensiva del nemico prosegue in direzione Lyman, ma tutti i suoi tentativi di superare il fiume e avanzare sono attualmente infruttuosi, e il nemico subisce perdite devastanti”.
Informazioni come sempre impossibili da verificare come quelle fornite dalle fonti citate dal britannico Times che riferisce di mille militari uccisi e 70 mezzi corazzati russi distrutti nel tentativo di attraversare il fiume Siverskyi Donets con ponti di barche.
Un funzionario anonimo del Pentagono ha detto invece alla CNN che l’artiglieria ucraina (che in questi giorni ha cominciato a impiegare gli obici M777 donati da USA, Australia e Canada e i semoventi DANA giunti dalla Repubblica Ceca), sta “frustrando” gli sforzi da parte russa per avanzare nel Donbass.
Gli ucraini sarebbero in difficoltà a Rubizhne, città dove difendono ormai solo i quartieri sudorientali, anche perché i russi incalzano anche dalla vicina Voevodovka con l’obiettivo di circondare almeno un paio di brigate ucraine.
La presa di Popasna era stata annunciata già l’8 maggio dal capo delle milizie cecene filorusse, Ramzan Kadyrov, che aveva scritto su Telegram: “I combattenti delle forze speciali cecene hanno preso il controllo della maggior parte di Popasna. Le strade principali e i quartieri centrali del paese sono stati completamente sgomberati”.
Solo il giorno dopo, 9 maggio, il capo dell’amministrazione regionale militare di Lugansk, Serhiy Haidai, ha ammesso che Popasna era persa e che “i nostri difensori stanno mantenendo le loro nuove posizioni fortificate, non ci sono sfondamenti e spero che la situazione cambi presto a nostro favore.
I russi hanno però l’esigenza operativa di concentrare nuove forze per riprendere l’offensiva nel settore di Kharlkiv, dove la ritirata verso est sotto l’incalzare della controffensiva ucraina ha portato e forze di Mosca a quasi 50 chilometri dalla città e in alcune aree ad appena 10 chilometri dal confine con la Federazione Russa esponendo così la regione di Belgorod al fuoco dell’artiglieria nemica.
Intanto a Mariupol, gli ultimi combattenti ucraini asserragliati nell’acciaieria Azovstal hanno dato sempre più segni di insofferenza e polemica proprio verso il governo ucraino, accusato di averli abbandonati, utilizzandoli, sì, come simbolo propagandistico, ma di fatto senza far nulla per trarli d’impaccio.
L’8 maggio, il comandante della 36a Brigata Marines della fanteria di marina ucraina, stanziata nella Azovstal insieme ai neonazisti del reggimento Azov, Serhy Volyna, ha scritto su Telegram: “Il tempo sta per scadere. Solo i miei pensieri: cosa provo?
Sembra come se mi fossi ritrovato in un reality show infernale, dove noi siamo i militari, combattiamo per le nostre vite, tentiamo ogni possibilità per salvarci, e il mondo intero sta solo a guardare una storia interessante. Queste sceneggiature sono utilizzate in film e serie tv. L’unica differenza è che questo non è un film e non siamo personaggi di fantasia. Questa è la vita reale. Dolore, sofferenza, fame, tormento, lacrime, paura, morte – tutto reale!”.
Ora che tutti i civili sono stati evacuati, la guarnigione nei bunker, che rifiuta di arrendersi, teme il colpo di maglio russo. E Vlyna pare appellarsi, con “poteri superiori”, sia a Kiev, sia a USA e NATO: “Poteri superiori, stiamo aspettando il risultato delle vostre azioni… il tempo stringe e il tempo è la nostra vita! Cosa mi sorprende? Il cinismo!!! Il cinismo umano non ha limiti!!! Ci sono regole generalmente accettate, sono le stesse per tutti, certificate da un mucchio di leggi, firme e sigilli, ma non funzionano! Allora a che servono?”.
Il 10 maggio la vice premier Ucraina Iryna Vereshchuk stimava in “un migliaio” di soldati ucraini, tra cui “centinaia di feriti”, la residua entità del presidio. Nella zona di Zaporizhia, l’amministrazione regionale ucraina ha lanciato il 9 maggio l’allarme perché “occupanti russi potrebbero travestirsi con uniformi ucraine e compiere provocazioni per accusare le forze armate di Kiev. I russi attaccheranno colonne pacifiche di persone, con cecchini che apriranno il fuoco sulla folla”.
Nelle ultime ore i russi hanno confermato che non vi saranno accordi p0er evacuare i militari ucraini che potranno arrendersi e vedere così assistiti i loro feriti oppure continuare a combattere. Dopo i bombardamenti notturni sull’Azovstal la fanteria russa avrebbe iniziato l’assalto allo stabilimento secondo quanto dichiarato dal vice comandante del reggimento Azov, Svyatoslav Palamar.
A corollario dei combattimenti, attorno all’11 maggio, il radunarsi presso il confine ucraino di truppe bielorusse, ufficialmente per esercitazioni, ha ridato fiato alle voci di un possibile intervento dell’esercito del presidente Aleksandr Lukashenko in aiuto all’alleato Putin, magari anche solo per attirare forze ucraine sulle frontiere settentrionali distogliendole da altri settori. Per l’esperto militare ucraino Oleh Zhdanov “è alta la probabilità di un attacco da parte della Bielorussia, che attualmente sta posizionando forze speciali al confine con l’Ucraina, a Volyn e nella regione di Leopoli”.
Ha spiegato: “Le truppe stanno ancora avanzando verso il nostro confine, in particolare le forze operative speciali e occupano aree operative. Non dovremmo ignorare questo fattore, assieme alle dichiarazioni di Lukashenko, ed essere pronti per lo scontro con l’esercito bielorusso, il cui attacco potrebbe avvenire nelle prossime settimane o addirittura tra una settimana”.
Di parere contrario si è detto invece Vadim Denisenko, consigliere del Ministero dell’Interno ucraino. “È improbabile che in un prossimo futuro Lukashenko dia l’ordine al suo esercito di lanciare un’operazione terrestre contro l’Ucraina”. Ritiene che i bielorussi stiano solo facendo esercitazioni, ma si rammarica: “Sfortunatamente, a causa di ciò l’Ucraina deve concentrare e lasciare sufficienti truppe alla frontiera con la Bielorussia”. Inoltre, Alexei Arestovich, uno dei consiglieri di Zelensky non vedeva “alcun segnale di preparativi di un’offensiva bielorussa contro il territorio ucraino”. Questo, beninteso, a scanso di possibili colpi di scena.
Pagine oscure
Da più parti si rafforza la convinzione che i russi abbiano sottovalutato la resistenza ucraina soprattutto per errori nella raccolta delle informazioni d’intelligence nei mesi precedenti all’invasione. Da ciò sarebbe derivata una sfiducia crescente di Putin nei confronti dell’FSB, il servizio segreto “civile” distino dal GRU, che è invece il servizio segreto militare.
Fin da metà aprile si era diffusa la voce che Putin avesse attuato una sorta di “purga” nelle file dell’FSB e in particolare nel cosiddetto Quinto Servizio, la divisione speciale, costituita nel 1998 dallo stesso Putin quando era capo dell’FSB, dedicata a operazioni nei paesi dell’ex-Unione Sovietica per tenerli legati alla sfera d’influenza di Mosca.
Fonti britanniche, nonché il giornalista Andrei Soldatov, sostenevano allora che fossero stati “licenziati 150 ufficiali dell’FSB, alcuni dei quali anche arrestati”, e che, in particolare, l’ex capo del Quinto Servizio, Sergei Beseda, sarebbe stato imprigionato nel carcere di Lefortovo, a Mosca, famigerato fin dai tempi di Stalin. Dopo alcune settimane di silenzio sugli assetti spionistici interni alla Russia, il 12 maggio il CEPA, Center for European Policy Analysis, ha pubblicato un rapporto a firma di Andrei Soldatov e Irina Borogan, che indica come Putin abbia deciso di affidare al GRU la raccolta e l’analisi d’informazioni dallo scacchiere di guerra, proprio perchè deluso dalle cantonate prese dall’FSB.
L’indizio più importante sarebbe la notizia data dalla tivù Tsargrad, vicina al Cremlino, che ha definito “massimo responsabile” dell’intelligence nel conflitto ucraino il primo vice direttore del GRU, generale Vladimir Alekseyev, che proviene dalle forze speciali Spetsnaz e che è già accusato in Occidente di aver interferito con le elezioni presidenziali americane del 2016 e aver attuato il controverso avvelenamento dell’ex-agente russo Sergej Skripal a Salisbury nel 2018.
Certo, il GRU, l’unico servizio segreto russo che non ha mai cambiato nome dai tempi di Lenin e Stalin, appare più indicato in operazioni di guerra convenzionale, tantopiù che l’FSB sarebbe specializzato più che altro alla sicurezza interna della Federazione Russa, mentre l’antico ramo estero del KGB è incarnato dall’SVR. Quanto a Beseda, non si sa se è stato rimesso in libertà, oppure, se addirittura non è mai andato in galera. Infatti un paio di settimane fa è stato visto in pubblico, come niente fosse, al funerale di un ex-generale del KGB, Nikolai Leonov, dove ha tenuto un discorso, presentato con la sua consueta carica di capo del Quinto Servizio, poi è stato visto nel suo ufficio nel palazzo della Lubjanka, riabilitato.
Non sono certo queste le sole trame che si dipanano in questi giorni attorno al conflitto russo-ucraino. Mentre si discute sempre sulla veridicità, o meno, delle stragi compiute dai militari di Mosca nel paese invaso, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che stabilisce un’inchiesta indipendente ONU sui presunti crimini di guerra russi.
La votazione si è tenuta il 12 maggio su richiesta dell’Ucraina e non vi ha partecipato la Russia. E’ passata col voto favorevole di 33 nazioni, 12 astensioni e i “no” solo di Cina ed Eritrea. L’ONU, tuttavia, cercando di essere imparziale, dà credito anche a denunce di crimini di guerra ucraini, il che non deve stupire dato che in tutte le guerre, rabbia e atrocità, non sono mai esclusiva solo di una parte. Il 10 maggio, infatti, la responsabile della Missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni Unite in Ucraina, Matilda Bogner ha parlato di “informazioni credibili” di torture su soldati russi da parte degli ucraini
“Abbiamo ricevuto informazioni credibili su torture, maltrattamenti e detenzione da parte delle forze armate ucraine di prigionieri di guerra appartenenti alle forze armate russe e ai gruppi armati affiliati. Un trattamento disumano si sta verificando tra i militari catturati di ambo le parti che sono costretti a rilasciare dichiarazioni, scuse e confessioni e subire altre forme di umiliazione”. Ciò potrebbe spiegare i casi di “interrogatori” o “confessioni” di prigionieri russi mostrati dalle telecamere ucraine, forse costretti con le minacce a diffondere false notizie o falso dissenso che screditino l’esercito russo.
Mosca, intanto, prosegue sulla “pista” dei presunti laboratori biologici installati in Ucraina dagli americani per esperimenti di guerra batteriologica lontano dal territorio statunitense, tanto da chiedere per il 13 maggio una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sull’argomento.
Fra le novità portate dai russi sulla spinosa questione, che non possiamo bollare a priori come vera o falsa, prima di un’indagine indipendente, l’11 maggio il ministero della Difesa di Mosca ha sostenuto “di avere le prove” che il Pentagono avrebbe partecipato ad “esperimenti biologici su pazienti di ospedali psichiatrici vicino a Kharkiv”.
Negli esperimenti, sarebbero coinvolte anche Germania e Polonia, nonché, le compagnie Pfizer, Moderna e Merck, nomi che al grande pubblico richiamano senz’altro la rapidissima messa a punto di vaccini per cercare di arginare l’emergenza Covid che tartassa il mondo da ormai due anni abbondanti. A denunciare tutto ciò è, nello specifico, il generale Igor Kirillov, che comanda le forze di Difesa Chimica, Biologica e Radioattiva dell’esercito russo.
Secondo lui: “Le società farmaceutiche Pfizer, Moderna, Merck e Gilead, che collabora con l’esercito americano, sono coinvolte in questo schema. Gli ideologi dell’attività biologico-militare sul territorio ucraino sono gli esponenti del partito democratico USA”.
Per Kirillov “le agenzie governative ucraine nasconderebbero studi sul campo e prove cliniche fornendo i biomateriali necessari”. Definisce l’Ucraina “banco di prova per i paesi occidentali nel creare i componenti delle armi biologiche e testare i nuovi modelli dei prodotti farmaceutici”.
Il governo russo ha istituito un comitato investigativo che, fra le prime conclusioni, ritiene che “per nascondere la propria identità, i ricercatori statunitensi sarebbero arrivati in Ucraina attraverso Paesi terzi”. E’ ovvio che affermazioni del genere sono troppo sorprendenti per non dare adito a sospetti di montature propagandistiche, ma solo il tempo e inchieste internazionali potranno stabilire davvero il confine fra il vero e il falso.
Nel frattempo non si può che constatare come, al netto dell’autoritarismo della Russia di Putin, nemmeno l’Ucraina di Zelensky sia propriamente un campione di democrazia occidentale, se è vero che il 12 maggio è stato soppresso un partito politico perché “filorusso” che aveva un certo seguito popolare. E’ il movimento denominato Piattaforma di Opposizione per la Vita, guidato dal Viktor Medvedchuk, deputato già arrestato lo scorso 12 aprile dal servizio segreto ucraino SBU per tradimento. Il partito alle elezioni del 2019 aveva raccolto il 13,05% dei consensi, pari a 43 seggi nella Verkhovna Rada, il parlamento di Kiev, ma la sua attività politica, di fatto era stata bloccata già dal 20 marzo, come per una decina di altri partiti.
Frattanto, dietro le quinte, trema perfino il premier britannico Boris Johnson e tutti i suoi imbarazzati compagni del partito conservatore, poiché fanno capolino presunti finanziamenti russi alla suddetta formazione politica.
Il New York Times ha parlato di un documento bancario secondo cui Ehud Sheleg, miliardario israelo-britannico, mercante d’arte ed ex tesoriere del Partito Conservatore, avrebbe versato al partito 450.000 sterline poco prima delle elezioni del 2019. I soldi sarebbero arrivati da un conto in una banca di Londra, intestato a Sheleg presso la Barclay e che riceveva denaro a lui trasferiti da suo suocero Serghei Kopytov, padre della seconda moglie di Sheleg, sposata nel 2014. Questo Kopytov è descritto come “ex politico filo-russo d’origine ucraina titolare di proprietà e alberghi in territorio russo e in Crimea”.
Se ci sia una rete occulta che collega Johnson al Cremlino per vie finanziarie è certamente tutto da dimostrare, ma non ci sarebbe da stupirsi troppo, pensando che, per tragica ironia, nel 2011 il presidente francese Nicolas Sarkozy mosse guerra al colonnello libico Muhammar Gheddafi che tempo prima gli aveva in parte finanziato la campagna elettorale.
Foto: Ministero della Difesa Ucraino, Ministero della Difesa Russo e Twitter