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IL FRONTE MACEDONE DEL 1° CONFLITTO MONDIALE
Il fronte macedone (o fronte di Salonicco, o fronte meridionale) fu il risultato del tentativo delle potenze dell’Intesa di venire in soccorso della Serbia, nell’autunno del 1915, contro l’attacco combinato di Germania, Austria-Ungheria e Bulgaria. La spedizione arrivò tardi e con forze insufficienti ad evitare la caduta della Serbia e fu complicata dalla crisi politica interna in Grecia (il cosiddetto “scisma nazionale”).
Alla fine si formò un fronte stabile, che andava dalla costa adriatica albanese fino al fiume Strimone, contrapponendo una forza armata multinazionale contro gli imperi centrali. Il fronte macedone rimase abbastanza stabile, nonostante alcune azioni locali, fino alla grande offensiva dell’Intesa nel settembre del 1918, cui seguì la capitolazione della Bulgaria e la liberazione della Serbia. L’impero austro-ungarico aveva attaccato la Serbia nell’agosto del 1914, ma non era riuscita a sconfiggere la resistenza serba. Dopo l’entrata nel conflitto dell’impero ottomano a fianco degli imperi centrali, il fattore decisivo era diventato la posizione della Bulgaria che occupava una posizione strategicamente importante sul fianco serbo e il suo intervento da una delle due parti sarebbe stato decisivo. Ad ogni modo la Bulgaria e la Serbia avevano combattuto due guerre nei precedenti 30 anni, la prima nel 1885 (guerra serbo-bulgara), la seconda nel 1913 (seconda guerra balcanica). Il risultato di quest’ultima aveva rappresentato una forte umiliazione per la Bulgaria e vi era un sentimento d’irredentismo diffuso, essendosi la Serbia appropriata di terre che di diritto sarebbero spettate alla Bulgaria. Mentre gli stati dell’Intesa potevano offrire solo piccole concessioni territoriali dalla Serbia e dall’ancora neutrale Grecia, le promesse degli imperi centrali erano molto più allettanti, dato che offrivano la maggior parte dei territori che la Bulgaria già reclamava. Quando si dimostrò la forza degli imperi centrali a seguito della sconfitta dell’Intesa nella campagna dei Dardanelli e la sconfitta russa nell’offensiva di Gorlice-Tarnów, il re Ferdinando I firmò un trattato con la Germania ed il 21 settembre 1915 la Bulgaria cominciò la mobilitazione bellica.
A settembre del 1916 era arrivato un corpo di spedizione italiano in Macedonia. Nella primavera del 1917, l’Armee d’Orient del generale Sarrail era stata rinforzata al punto di disporre di 22 divisioni: 6 francesi, 6 serbe, 7 inglesi, 1 italiana, 1 greca “di difesa nazionale” e 2 russe. A queste furono poi aggiunte altre 2 divisioni greche. Venne pianificata un’offensiva per la fine di aprile, ma l’attacco iniziale fallì con gravi perdite e l’offensiva venne fermata il 21 maggio. In seguito gli alleati dell’Intesa, con l’intenzione di esercitare una maggiore pressione su Atene, occuparono la Tessaglia, che era stata evacuata dall’esercito reale, e l’istmo di Corinto, tagliando in pratica il paese in due. Con un’ulteriore pressione diplomatica si arrivò all’esilio del re greco il 14 giugno e la riunificazione del paese sotto il controllo del primo ministro Venizelos, aiutato dalle baionette dell’Intesa. Il nuovo governo dichiarò immediatamente guerra agli imperi centrali e cominciò a creare un nuovo esercito. Nonostante questo risultato favorevole, il nuovo primo ministro francese Georges Clemenceau richiamò il generale Sarrail nel novembre per sostituirlo con il più diplomatico generale Adolphe Guillaumat. Sul fronte macedone era stato destinato mio nonno Pasqualino Vernì…
PASQUALINO VERNI’, UN SOLDATO del 271° Btg. Milizia Territoriale (1879 – 1917)
Mio nonno Pasquale aveva un collo taurino, fronte alta e spaziosa, sguardo dolce e mite, occhi grandi e fissi, capelli scuri e corti, baffi folti e arricciati all’insù: è tutto qui il padre di Giovanni. Da modesti proprietari terrieri era nato il 13 febbraio 1879; tutti lo chiamavano, Pasqualino. Avesse avuto uno, dieci o quarant’anni di più l’umana sorte non gliene volle concedere per tutti era, sempre e soltanto, Pasqualino, quasicché il vezzeggiativo col quale lo si nominava gli fosse stato ritagliato addosso dalla natura medesima e a Lui spettasse più che a tenero infante. Il secondo di una grossa covata egli era, non unica né rara nel borgo natìo, di quelle che, da sole, riempivano di chiasso e di allegria, da mane a sera, vicoli e strettoie agglomerati nell’antico rione dello Spirito Santo, sempre timoroso di nuovi affacci, pur se già smanioso di più ampi slarghi per gli andirivieni delle sue giovani api.
Dopo Saverio, il primogenito, (1875), prima di Nicola (“Colett”), il terzogenito, (1881), di Isabella, la quartogenita (1883), di Anna (1885), di Pasqua, la “Ross” (1887) anche lei, come il fratello, portava questo nome tanto caro alla cristianità, prim’ancora di Carmela, di Domenica, di Antonia, l’ultimogenita, supporto, quest’ultima, angelo custode e vestale di casa. Nove in tutto. Nove bocche da sfamare, da crescere, da incamminare nel vasto mondo di fine Ottocento. Molte, si direbbe a prima vista, ma non troppe per la profonda religiosità dei loro pii genitori, consapevoli che tanti figli costituivano pur sempre una benedizione del Cielo. A tutte indistintamente queste creature la mamma, la ferma, la ferrea eppur dolce mamma Maria la benvoluta e ultrastimata “Zia Maria” (z’ maroi’) del lungo parentado voleva un bene dell’anima: immenso, com’era immenso il suo cuore, uguale per tutti. Ma, quello per il suo Pasqualino era diverso: più evidente ed invadente: in una parola, “protettivo”, ma non perché lui portasse il nome del suo avo prediletto o perché mostrasse, più che gli altri fratelli, virtù rare o intelligenza superiore, ma unicamente perché, dentro di sé, nel suo subconscio, lo presentiva bersaglio irato di un maleficio, vittima predestinata di un oscuro disegno, che, sin dal nascere del suo piccolo, la perseguitava come una maledizione, le toglieva la pace, le riempiva l’animo di angosce e di paure, che ella cercava vanamente di allontanare da sé con una più attenta e vigile protezione. Sotto l’ala di siffatta mamma, Pasqualino crebbe sano e forte come un pesce, trascorse un’infanzia serena e tranquilla, forgiò al meglio il suo carattere mite e generoso, sviluppò ancor più il nativo senso del dovere e del sacrificio, imparò con facilità un mestiere qualificato fatto su misura per lui, e, già adolescente, si segnalava tra i più esperti nell’arte del potare.
Dimenticò, però, l’incauto, di pensare anche a dirozzare la mente, ad imparare, come si dice, a leggere e scrivere e di questa sua noncuranza molto si dorrà, per vero, un giorno non lontano. Vero è che la colpa di ciò non era, e non poteva essere, soltanto sua. Era, infatti, anche dei genitori, i quali mancarono il dovere di mandare a scuola tutti i loro figli, ritenendolo forse un lusso da non poter soddisfare. Come lo era anche dello stato, il nascente stato unitario italiano, il quale, per combattere la piaga dell’analfabetismo, (particolarmente diffusa nel Mezzogiorno, dove il 70% della popolazione era analfabeta ossia non sapeva né leggere né scrivere), si limitò ad emanare una legge la cosiddetta legge Coppino del 1877, dal nome del ministro che la proponeva con cui si istituiva sì la Scuola Elementare obbligatoria, ma non la si rendeva, come la si sarebbe dovuta, gratuita. Il che nocque non poco all’efficacia stessa del provvedimento preso e, nel tempo, evidenziò la necessità di adeguati miglioramenti. Non di meno quello dell’istruzione non era, e non fu, l’unico e solo problema che afflisse e turbò i sonni di Pasqualino e soci. Ve ne erano altri, non meno gravi e urgenti: quello del lavoro, p.e.; quello dell’occupazione o dell’economia o dei trasporti o delle comunicazioni, per dirne qualcuno. Nessun ministero se ne occupò mai con l’impegno dovuto e perciò restarono a lungo abbandonati ed irrisolti, al punto che il Mezzogiorno era l’immagine stessa dell’arretratezza, dello sfacelo e della miseria e, conseguentemente, del disarmonico sviluppo economico e sociale del Paese. Responsabile primo del degrado e del malessere di cui soffrivano le genti del Sud era l’agricoltura col suo “latifondo”, che lasciava nelle mani di pochi irresponsabili il 70% della terra, la quale, anziché essere lavorata, “era lasciata in gran parte incolta, preda dei rovi e delle erbacce in genere, dominio degli animali da pascolo e regno dei passatempi dei nobili proprietari o era tenuta a “masseria di campagna”, con utili e vantaggi esigui o del tutto inesistenti. Il rimanente 30% lo possedevano, in frazioni minime, centinaia, e forse migliaia, di piccoli proprietari terrieri, i quali non solo non ne traevano alcun sostanziale beneficio, non solo non vedevano mutarsi quella minima ricchezza in altra ricchezza, ma non riuscivano mai neppure a cavare quella gran “sete di terra”, che da sempre li tormentava. Non solo. Ma l’incaglio causava, senza volerlo incomodi e disturbi talmente gravi, che condannarono i braccianti agricoli a lunghi periodi di disoccupazione o di sottoccupazione, a paghe striminzite e saltuarie, a fame e miseria senza fine, che intristivano o imbarbarivano chi ne veniva colpito, spingendolo spesso anche a “delinquere” o ad emigrare. E questo fenomeno non risparmiò neppure Pasqualino. Filava e pungeva la “montagna” o tramontana di casa nostra sulla sera del paese, nel cuore dell’inverno. Tutti erano tappati in casa, anche i più giovani. Saverio, Pasqualino e Coletto, anche loro, se ne stavano al caldo, addosso l’uno a l’altro, stretti nell’ampio “fuoco” (o caminetto) di Tata Giovanni (Tata Giuenn), al primo piano della loro abitazione. Di fronte a loro ardeva e bruciava un grosso ceppo di mandorlo appena scalzato. Rannicchiata in un angolo, stanca, il capo stretto nelle mani, piegata in avanti, mamma Maria. Tra un sobbalzo e l’altro, ella allungava le mani alla fiamma, le scaldava, le sfregava con forza, tendendo l’orecchio ai discorsi sussurrati dei tre figli. Parlavano di tutto: di lavoro che non c’era; di “giornate” che nessuno più trovava; di paghe striminzite e scarse; di proprietari svogliati; di terreni incolti da lunga pezza; di fame e di miseria sempre più crescenti; di famiglie che non sapevano come tirare avanti; e, quel che è peggio, non trovavano più “credito”; di debiti sopra debiti, contratti per pagare il viaggio o, più spesso i viaggi a due o più persone della stessa famiglia; di amici, compagni, coetanei che da tempo non si vedevano più in giro, spariti, scomparsi dalla mattina alla sera, partiti così dicevano tutti , di nascosto, alla chetichella, “di contrabbando”, clandestini per… e qui essi, nel raccontare tutto questo, abbassavano ancor più la voce sino a rendere incomprensibili i suoni e le sillabe …l’America… quella specie di Fata Morgana che tutti incantava ed attirava ; …di Ciccillo, Saverio, Vito Sante, Rocco Martino, da mesi scomparsi, introvabili, dei quali non si avevano più notizie, sino al giorno prima, ma che già avevano trovato un lavoro e dai quali già si ricevevano le prime rimesse…; di …e giù altre notizie, all’infinito. Voci, queste,? Solo voci? chiacchiere da bar, da oziosi, da sfaccendati? Balle o verità assolute? dette, così, a mezza bocca, in un orecchio, in questo o quel crocchio? Mah!
Mamma Maria ascoltava, ascoltava, in silenzio. Poi, come per dir la sua, “Pasqualino, fece, alzando un po’ la voce, forse per scuotersi dal dormiveglia o forse per darsi coraggio, nel momento in cui questo le mancava. Ho un’idea: se è vero quello che si dice, perché non provi anche tu? lo fanno tutti ormai questo benedetto viaggio in America; perché non lo fai anche tu? Tentare non nuoce, si dice”. “E poi, aggiunse, il viaggio, sappilo bene, non lo faresti da solo: insieme con te ci sarebbero almeno altre tre persone: la Madonna del Carmine, io e Coletto, tuo fratello. Saverio, no. Saverio deve stare qui per dare una mano a tuo padre”. Altro non disse e riprese a sonnecchiare.
Fuori, intanto, si faceva sempre più buio e la “Montagna”, sibilando, seguitava a pungere e a filare.
Il tempo di approntare un bagaglio purchessia e di prendere gli ultimi accordi, poi il “traìno” di famiglia, il carro agricolo tuttofare di tata Giovanni prese a bordo uomini e cose e all’alba, per tempo, come sempre, era già alla stazione ferroviaria, dove scaricò due giovani sui vent’anni, due valigette di cartone, un diluvio di lacrime e …tante speranze.
Scene da primo Novecento, si dirà, ma anche scene da ultimo Novecento: la Storia dell’Umanità dolente è sempre la stessa, non cambia mai.
Un lungo viaggio su un treno fumoso e nero portò i nostri due emigranti in quel di Napoli, al porto di Mergellina. Qui li accolse una vecchia carretta di mare, che salpò furtiva sull’imbrunire di un giorno piovoso e triste, mentre nelle vie e sulle scene dei teatri partenopei risuonavano patetiche e struggenti le note di una bellissima, celebre canzone.
Trenta, quaranta giorni di viaggio, lungo, interminabile, disumano, inenarrabile, più da bestie che da uomini ci si scandalizza tanto oggi dei viaggi degli albanesi o dei curdi o dei marocchini, ma non si prova alcuno sdegno al ricordo dei vergognosi trattamenti riservati a questi nostri infelici “cercatori di lavoro” poi, finalmente lo sbarco, l’odissea, il calvario in terra straniera, a migliaia e migliaia di chilometri di lontananza.
Nel “bailamme” di New York, approdano quasi tutti qui i nostri connazionali, tra gente d’ogni lingua e colore e religione, dentro veri e propri formicai umani, dentro “street, ave” e sterminate campagne dell’immensa America.
Ecco, sono piovuti qui, proprio qui, i due rampolli di mamma Maria, Pasqualino e Coletto! Sono venuti qui, in cerca di lavoro, e di fortuna, e di futuro. Li troveranno? Chissà!
Nel crogiolo d’America si saggiò l’oro, tutto l’oro dell’Italia povera.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, sempre sudando e lavorando sodo, da mane a sera, sempre centellinando e risparmiando, con esasperazione eccessiva, con il senso pieno del sacrificio, che solo la gente di casa nostra conosce e sa imporsi, con la voluttà del risparmio, che solo quando è costante e sostanziosa dà, come diede, frutti sapidi e copiosi.
Costavano (oh se costavano!) quei frutti, ma riempivano di orgoglio. Lo sapeva anche Pasqualino, che diceva: “Se tu spezzassi, se tu riuscissi a spezzare un “cent”, sicuramente ne vedresti uscire… sangue: il sangue del nostro lavoro”. E non esagerava.
Quando, un giorno, il peso della stanchezza si fece sentire, allora anche la solitudine cominciò a rendersi insopportabile, la nostalgia a farsi struggente, ardente la brama del ritorno, acuto il desiderio dei tramonti e delle stelle lasciati laggiù, al paese, in Puglia, carezzevole il sogno di metter su famiglia, di ampliare l’azienda avìta, (avuta cioè in eredità dagli avi) con nuovi appezzamenti, dove che fosse, al Macchione, al Capitolo, a Diasparre, a Parco Casa o La Cattiva, non importa se da spietrare, da sgramignare, da rifare di sana pianta. Divenne allora necessario, per tutti ormai, il ritorno in famiglia. Anche se per poco. E tornarono, anche loro, ai patrii Lari, i forti Pasqualino e Coletto con tanti progetti e tante speranze da realizzare.
VENNE LA GUERRA, LA GRANDE GUERRA
Si innamorò e sposò Luicia Guglielmi.
Poi, venne la guerra, la “Grande Guerra”! Subito arrivò la cartolina precetto, la chiamata alle armi o il richiamo. Prima dei ventenni, poi dei trentenni e oltre. Infine dei diciottenni (classe ’99, classe di ferro). E fu il turno anche di mio nonno Pasqualino, che veleggiava tranquillo verso la piena maturità. Richiamato, lui non ne fece un dramma, non oppose ostacoli e furbizie.
Soldato fedele e disciplinato, reindossò con orgoglio il glorioso grigioverde, ritrovò l’ardore dei giovani anni e, in silenzio, disciplinatamente, raggiunse il reparto cui l’avevano destinato, il 271° Btg Milizia Territoriale, dislocato sul fronte Macedone, tra l’Albania e la Grecia. E lì restò due lunghi anni, senza mai chiedere o mendicare licenze e permessi, pago di sentirsi unito alla famiglia messa su da poco dalle lettere o cartoline che il comandante del suo reparto molto volentieri vergava per lui analfabeta. Col tempo il tarlo della nostalgia cominciò a roderlo, il desiderio degli affetti perduti a tormentarlo. Scalpitò, presentò le sue ragioni, venne accontentato con una lunga licenza premio. A casa trascorse giorni indimenticabili che lo rinfrancarono e lo resero sommamente felice, anche perché così sentiva appagato quel suo, più volte rimarcato negli scritti, desiderio di guardare in faccia e di stringere a sé il suo rampollo, il suo “Giuannìnn” (mio padre), come lui lo chiamava, calcando la voce sull’ultima “i”. Consumata la licenza, lo aspettava il rientro in sede e a quello si preparò con animo sereno, per nulla intimidito dalle notizie che circolavano e dalle insidie nascoste nel braccio di mare tra l’Italia, l’Albania e la Grecia. I rischi e i pericoli ch’egli realmente correva non sfuggivano, però, a chi gli voleva più bene, la moglie, la quale, ancor prima che il consorte si rimettesse in viaggio, nulla tralasciò perché il marito si convincesse ad escogitare, sull’esempio altrui, il mezzo idoneo a farsi dichiarare inabile al servizio militare. Invano. “No, fu la sua risposta, devo tornare al reparto”! E tornò.
IL RITORNO AL FRONTE
Il giorno stabilito, infatti, riabbracciata la moglie, stretto forte forte a sé il figlioletto, data un’ultima fuggevole occhiata al suo piccolo mondo, fermo e deciso come sempre, si rimise in treno e in poche ore fu a Taranto. Era qui la nave che doveva traghettarlo in Grecia, e di qui, in Macedonia. Bella, nuova, sicura. Fatta per infondere coraggio, al solo vederla.
“Restai con lui circa due ore, raccontò tra le lacrime il cognato Vito (Minz’ mon’c), marito di Domenica, allora sottufficiale in servizio presso l’ufficio imbarchi e sbarchi della Stazione marittima della Città dei Due Mari quando fu l’ora della partenza della nave, lo accompagnai fino alla scaletta. Al momento di lasciarci, lui mi si fece più vicino e, stringendomi forte a sé, “Vito, mi disse con voce velata di sconforto e di tristezza, mi vorrei sbagliare, ma ho tanta paura ed un brutto presentimento”.
Furono le ultime sue parole. Il preannuncio di una tragedia imminente! Era l’alba del 6 ottobre. Era scritto.
IL SOMMERGIBILE TEDESCO UB-48, CLASSE UB-III
- Nome: UB-48
- Ordinato: il 20 maggio 1916
- Costruttore: Blohm & Voss, Amburgo
- Costo: 3,276,000 Papiermark tedesco
- Numero di costruzione: 293
- Varo: 6 gennaio 1917
- Completamento: 11 giugno 1917
- Fu affondato a Pola il 28 ottobre 1918 in seguito alla resa dell’Austria-Ungheria.
- Dislocamento: 508 tonnellate in superficie, 641 tonnellate in immersione;
- Lunghezza: 55.30 m;
- Larghezza: 5,80 m;
- Scafo immerso: 3,68 m.
- Propulsione: 2 × alberi di trasmissione – Motore diesel a due cilindri a 2 tempi MAN 2x, 1.085 bhp (809 kW) – 2 × Motori elettrici Siemens-Schuckert, 780 shp (580 kW);
- Velocità:13,6 nodi in emersione, 8 nodi in immersione;
- Autonomia: 10.400 mi a 6 nodi in emersione
- Immersione di 55 nmi a 4 nodi;
- Profondità di prova: 50 m;
- Complemento: 3 ufficiali, 31 uomini;
- Armamento: Tubi lanciasiluri 5 × 50 cm (19,7 pollici) (4 a prua, 1 a poppa) per un totale di 10 siluri; Cannone di coperta 1 × 88 mm;
- In servizio presso la II Flotiglia di Pola dal 2 settembre 1917 al 28 ottobre 1918;
- Comandante: Oblt.z.S. Wolfgang Steinbauer;
- Operazioni: In 9 pattugliamenti furono affondate 36 navi mercantili per 110.095 tsl e 8 navi mercantili danneggiate per 25.113 tsl; 1 nave da guerra danneggiata per 18.400 tonnellate.
Il sommergibile UB-48 della 1^ Guerra Mondiale apparteneva alla classe UB III della marina imperiale tedesca “Kaiserliche Marine”.
Fu commissionato alla Marina Imperiale tedesca l’11 giugno 1917 come SM UB-48. Fu quindi assegnato alla base navale di Pola e in seguito alla II Flottiglia di U-boat del Mediterraneo con sede a Cattaro. Il sommergibile UB-48 è stato uno dei più famosi U-boats in attività nel Mediterraneo. Al battello fu assegnato il numero U-79 dalla Marina Austro-Ungarica. Fu affondato a Pola dopo la resa dell’Austria-Ungheria il 28 ottobre 1918. Era un sottomarino di tipo tedesco UB III e fu ordinato data 20 maggio 1916 e costruito dai cantieri Blohm & Voss di Amburgo. Dopo meno di un anno di costruzione, fu varato ad Amburgo il 6 gennaio 1917. Ai comandi dell’UB-48 fu assegnato il Comandante Wolfgang Steinbauer. Come tutti i sottomarini Tipo UB III, l’UB-48 trasportava 10 siluri ed era armato con un cannone da 88 mm. L’UB-48 aveva un equipaggio di 3 ufficiali e 31 uomini e aveva un’autonomia di 9.090 miglia nautiche; aveva un dislocamento di 516 t in superficie e 651 tonnellate in immersione. I suoi motori gli permettevano di navigare in superficie a 13,6 nodi e ad 8 nodi in immersione. Il sottomarino condusse nove pattugliamenti e affondò 32 navi durante la guerra per una perdita totale di 104.488 tonnellate di stazza lorda (GRT) e un cacciatorpediniere. In data 4 ottobre 1917, il sommergibile comandato dal Oblt.z.S. Wolfgang Steinbauer, affondò il piroscafo “Città di Bari”, a bordo del quale trovò un tragico destino mio nonno paterno Pasqualino Vernì, soldato del “271° Battaglione della Milizia Territoriale”, dislocato sul fronte Macedone, al quale faceva ritorno dalla licenza durante la 1^ Guerra Mondiale.
PORTO DI TARANTO – MAR PICCOLO
Giovedì 4 ottobre 1917: Aria serena, giornata mite e piena di sole, che fa ben sperare; una bella giornata ottobrina. Il solito movimento del tempo di guerra, piuttosto ordinato e circospetto; il solito andirivieni tra le banchine del gran porto tarantino. Navi alla fonda, navi che vanno, navi che vengono; mercantili o da guerra. Ultimi controlli per i passeggeri pronti all’imbarco.
Attorno ad una, in particolare, ferve sin dal mattino un’insolita attività: si stanno mettendo a punto le ultime cose: fra le quali il funzionamento di un cannoncino da 76 m/m, di cui essa è stata dotata da poco; si stanno caricando le poche mercanzie, imbarcando, alla spicciolata, senza fretta alcuna, i pochi passeggeri, tutti militari, per la vicina Macedonia, via Grecia. E’ il piroscafo “Città di Bari”.
IL PIROSCAFO “CITTA’ DI BARI”
Lo comandava un giovane ma esperto lupo di mare, un barese doc, credo, probabilmente parente stretto del defunto Pantaleo Castellano, un coraggioso di poche parole, concreto, essenziale, il capitano L. Castellano, coadiuvato da un eccellente equipaggio, composto, in gran parte, di pugliesi, se non di baresi – i Violante, p.e., i De Santis, i De Tullio, i Cassano, gli Introna, i Bottalico, i Bellomo, per dirne qualcuno. Chi ne volesse conoscere tutti i nomi, uno per uno, può scorrerne gli elenchi che noi alleghiamo in questo volume, sez. Documenti. Prima dello scoppio della “Grande Guerra” il “Città di Bari” aveva solcato con dignità e onore l’Adriatico e lo Jonio, soprattutto, attivamente partecipando ai traffici commerciali che si svolgevano nei due mari e tenendo ben collegate tra di loro le sponde che ne erano bagnate. Con l’entrata in guerra del nostro Paese, era stato requisito e, armato di cannone, dopo aver partecipato alle operazioni di salvataggio, da parte della Regia marina, dell’esercito Serbo-Montenegrino e di trasporto, da S.Giovanni di Medua a Brindisi, dei membri del governo slavo e del tesoro statale (come provano e documentano fonti italiane e britanniche pubblicate dalla Rivista Marittima del gennaio 2003, che qui di seguito vi mostriamo), veniva adibito ad “ausiliario” della Regia Marina Militare, nel servizio-postale e passeggeri, con partenza da Taranto, al giovedì, sulla linea Taranto – Gallipoli – Corfù – Patrasso.
Il “Città di Bari” era una gran bella nave della Marina Mercantile Italiana, nota al vasto pubblico per i grandi servigi resi al Paese nell’ambito del trasporto marittimo; non di grosso tonnellaggio, ma solido, capace, affidabile; un gioiello di tecnica e di modernità; il fiore all’occhiello della Società di Navigazione cui apparteneva. Varata nel 1913, poco prima dello scoppio della Grande Guerra, aveva solcato con onore e dignità l’Adriatico e lo Jonio, attivamente partecipando ai traffici commerciali che si svolgevano nei due mari e tenendo ben collegate tra loro le sponde che ne erano bagnate. Con l’entrata in guerra del nostro Paese, era stato requisito ed armato e, all’epoca dei fatti, veniva adibito a nave ausiliaria della Marina Militare nel servizio infrasettimanale sulla linea Taranto-Gallipoli-Corfù-Patrasso.
LA PARTENZA DA TARANTO
Lasciata Taranto nel pomeriggio di giovedì 4 ottobre, il “Città di Bari” giunse a Gallipoli (l’antica Καλήπολις, o “Città Bella”, fiorente centro commerciale affacciato sullo Jonio, a 38,5 Km. da Lecce), nelle prime ore della sera dello stesso giorno. Era solo, senza scorta, avendo a bordo, oltre all’equipaggio civile composto di 40 persone e all’equipaggio militare di 11, soltanto 37 (o 35?) passeggeri militari del Regio Esercito (c’era tra questi il padre di chi scrive, Pasquale, soldato del “271° Btg. Milizia Territoriale”, dislocato sul fronte Macedone, al quale faceva ritorno dalla licenza) e della Regia Marina ed un carico di 130 tonn. di viveri e materiali vari. “Quando il “Città di Bari” giunse a Gallipoli – narra nel suo interrogatorio l’Ufficiale di Porto – mi recai a bordo della nave, e il Capitano di questa, Luigi Castellano, mi chiese se il Piroscafo “Imera”, silurato due giorni prima, avesse avuto la scorta. Alla mia risposta negativa disse: “Chissà se per noi vi sarà la scorta”. Risposi che non sapevo, ma che però non lo credevo e, quindi, lo informai che i passeggeri da imbarcare superavano le cento unità. Al mattino seguente informai il Comandante di Spiaggia delle parole scambiate col Capitano a riguardo della scorta. Il Comandante Stranges mi rispose di non avere facoltà di dare la scorta, ma che, se il Capitano l’avesse ufficialmente richiesta, avrebbe telegrafato a Taranto per l’autorizzazione. Mi recai nuovamente a bordo e riferii quanto sopra al Capitano, ma questi mi rispose che non voleva chiedere scorta per non far credere di avere paura. Se queste non furono le sue precise parole, certo il senso ne era equivalente.
Rimasi a bordo del Piroscafo tutto il pomeriggio e verificai se tutti avessero il salvagente e se lance e zattere fossero a posto, libere da impedimenti ed in numero sufficiente, del che ebbi anche assicurazione dal Capitano. Non mi occupai, perché non di mia competenza, del ritiro delle armi dei passeggeri; per quanto mi consta, ciò non fu fatto né dell’Autorità di Pubblica Sicurezza, né da quella di bordo, né dagli Agenti della Regia Dogana.
Ritornai a terra mezz’ora prima della partenza e riferii al Comandante di Spiaggia che il Capitano non aveva creduto di chiedere la scorta.
Il “Città di Bari” partì regolarmente alle 18h,30m. A tenore delle norme vigenti, non feci alcun telegramma di partenza, però, in vista del rilevante numero di passeggeri, telegrafai subito ai Servizi Logistici che il Piroscafo era partito con 400 passeggeri”.
“Imbarcati, dunque, 405 passeggeri e come merci del vino e dei tessuti di cotone – scrive il Contrammiraglio Paladini – il Piroscafo lasciava, alle ore 18.30 del 5 ottobre, il porto di Gallipoli…
…La partenza del Piroscafo fu telegrafata al Ministero, al Dipartimento di Taranto ed l Comando in Capo dell’Armata di Taranto, con queste parole: “Piroscafo Città di Bari mare” – Nessun telegramma fu fatto invece ai Comandi Navali di Brindisi, Valona e Corfù”, perché, – si giustifica lo Stranges nel suo interrogatorio – nessun ordine di tale specie avevo per quanto riguarda la partenza per Corfù”. E nessuna scorta fu data al Piroscafo, perché, – sempre a dire dello Stranges – non avevo alcuna istruzione di fornire scorta per interi viaggi, perché il Città di Bari è partito dopo il tramonto, ma, soprattutto, perché il Capitano del Piroscafo si diceva riluttante a dar mostra di temere il pericolo”.
Trascorsero tranquille – scrive sempre il Paladini – le prime ore della notte”: notte di luna – ricordano i superstiti -; aria fosca; forte vento di E-NE che rendeva il mare agitato; visibilità scarsa.
Ma, attorno alla mezzanotte, tra le 23h,45m e le 24h, il marinaio Albano – che era di guardia al cannone, e qualche altro, videro passare di poppa la scia di un siluro. Avvisato, il Capitano della nave, si portò immediatamente sul posto, ma, non trovando conferma del lancio prospettatogli e non scorgendo alcun segno della presenza del sommergibile siluratore – (probabilmente perché questo si é affrettato a far perdere traccia di sé) – credette ad un abbaglio e tutto finì lì.
Invece abbaglio non era e l’Albano e gli altri avevano visto giusto.
E la conferma ce la dà il sopravvissuto – italiano o straniero? membro dell’equipaggio del Città di Bari o anonimo passeggero? – fatto prigioniero e condotto poi a Pola, del quale, però, la fonte austriaca non rivela il nome per ragioni di riservatezza.
Alle Autorità di marina che lo interrogavano, il sopravvissuto anonimo raccontò che quel primo lancio il sommergibile siluratore lo effettuò esattamente alle 2h,30m del mattino del 6 ottobre. (“Am 6 Oktober um 2 Uhr 30′ a.m.”, è scritto nel documento precitato) e che il “Città di Bari” rispose all’attacco sparando alcuni colpi di cannone – (“Antwortete mit seinen Kanonen”).
Veri o falsi, in tutto o in parte, questi particolari, sta di fatto che un primo siluro fu effettivamente lanciato contro il piroscafo italiano e che, probabilmente, l’U boot tedesco, andato a vuoto quel suo primo tentativo di siluramento, temendo la reazione del “Città di Bari”, sospese momentaneamente l’attacco per riprenderlo più tardi.
L’allarme, perciò, rientrò; la calma ritornò a bordo e tutti tirarono un sospiro di sollievo.
“L’aria era fosca ed un forte vento di E, NE rendeva il mare agitato. Le 4 erano passate da circa un quarto d’ora – racconta il 2° Ufficiale del Piroscafo 94 – e mi trovavo in sala nautica allorché udii lo scoppio…
“Il tempo era quasi nuvoloso, tirava un vento moderato da scirocco ed il mare era mosso. Si diceva anche che era possibile qualche sorpresa all’alba. Alle 4h,10m circa, udimmo una forte esplosione”…- ricorda il 1° Ufficiale.
“Mi trovavo sul primo cassero, – narra a sua volta il direttore di macchina – passeggiavo tra l’osterigio di macchina e la sala nautica; erano passate da poco le 4h,00m allorché udii un colpo metallico fortissimo e vidi sollevarsi dall’osterigio di macchina un’alta colonna di acqua e vapore. Il siluro aveva colpito il bastimento proprio fra la caldaia e le macchine, che si fermarono immediatamente, insieme naturalmente alle due dinamo. Il bastimento rimase all’oscuro”.
“Svegliato dall’esplosione, – racconta, tra l’altro, Luigi Aleotti per prima cosa corsi abbasso nella stazione R.T. che si trovava proprio nel corridoio che univa la prima con la seconda classe: vidi tutti gli strumenti per terra e capii che la stazione non poteva più funzionare. In coperta la gente si agglomerava intorno alle sei imbarcazioni. Vi erano anche molte zattere, circa 16 in legno e sei od otto in ferro.
Il Comandante era sulla dritta e il capo timoniere sulla sinistra; ambedue cercavano di ottenere un po’ di calma, per effettuare ordinatamente il salvataggio, ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei Greci: gettavano gli zatteroni a mare senza ritenuta, facevano capovolgere le lance, venivano alle mani…”
“Intanto il bastimento si sbandò un poco a dritta, molto a sinistra, e quindi si immerse per circa due metri, rimanendo orizzontale. Una ventina di minuti dopo il siluramento – ricorda ancora il 2° Ufficiale 98 -, arrivò la prima granata che cadde una ventina di metri a sinistra del bastimento. La seconda, credo colpisse il cannone di poppa. Seguirono altri colpi. Appena cominciato il fuoco, non fu possibile impedire alla gente di gettarsi a mare raggiungendo le zattere che, filate e senza ritenute, s’allontanavano dal bordo.”
“Svegliato dall’esplosione, – riferisce a sua volta il sottocapo cannoniere 99 – corsi subito vicino al pezzo, ma non vidi nulla. Dopo un po’ scesi dalla tuga per cercare il capo timoniere ed il Comandante. Trovato il capo timoniere, andai con lui ad aiutare a mettere le zattere in mare.
Mentre facevo questa operazione, ho udito il primo colpo di cannone e visto il sommergibile al traverso a sinistra. Corsi subito a poppa, ma fui fermato dai Greci che non volevano si sparasse, temendo che il sommergibile, per rappresaglia, sparasse sulla gente a mare…
…Prima di buttarmi a mare – a bordo eravamo rimasti solo io e il sottocapo francese AUGER Renè – vidi i Greci che facevano segno al sottomarino con una camicia, affinché non sparasse più. Mi precipitai addosso e strappai loro la camicia…
All’ultimo momento i Greci ammainarono pure la bandiera italiana”.
“Restai a bordo fin quasi all’ultimo – ricorda VALENZO Pietro. Vidi all’inizio del bombardamento che dei Greci facevano segnale al sommergibile gridando: “Costantino”.
“Dopo una mezz’ora – racconta il marinaio cannoniere FAVAZZA Salvatore – il sommergibile emerse a circa 200 metri dalla poppa e cominciò a bombardare. Due colpi raggiunsero il fumaiolo ed uno colpì in prossimità della stiva prodiera. Durante il bombardamento (a base di granate incendiarie) solo io rimasi in prossimità del cannone. Poco dopo, però, me ne andai per mettermi al riparo. Il sottomarino, allora, si affiancò a dieci o quindici metri di distanza e mi si domandò in buon italiano dov’era il Comandante. Gli risposi che non c’era…”
“Nel frattempo il sommergibile si era avvicinato al Piroscafo e aveva sbarcato il radiotelegrafista dell’IMERA su una zattera – riferisce il 2° Ufficiale -.
Tirò una cannonata sulla prua del Piroscafo al galleggiamento determinando l’affondamento”.
Colpito a morte, senza preavviso, da quindici granate incendiarie, l’ultima delle quali al bagnasciuga, tutte sparate tranne l’ultima, mentre la gente era ancora a bordo e cercava in tutti i modi e con tutti i mezzi di convincere gli artiglieri di bordo a non sparare contro il sommergibile e, alzando bandiera bianca e ammainando la bandiera italiana, quelli del sommergibile a non sparare sui passeggeri ancora presenti sulla nave, il “Città di Bari”, lentamente affondò in fiamme – “…endlich sank das schiff in flammen”. Trascinando con sé, in fondo al mare, a 39° 20′ Lat.N., 19° 23′ Long.E. – rotta 107° magnetico da un punto 15 miglia a sud di S.Maria di Leuca – al largo dell’isoletta di Paxòs o Paxì, a sud di Corfù, nel mentre in cielo e sul mare già albeggiava e si scatenava un furioso temporale che durò tutta la notte. Sfasciate le imbarcazioni per l’imperizia dei Greci che se n’erano impadroniti e che pagarono con la vita l’atto precipitoso, le zattere di bordo raccolsero i rimanenti passeggeri e affrontarono il viaggio della salvezza, che per i più non giunse mai. Ma, quasi a rendere più intricata e drammatica la fase finale di questa angosciosa vicenda, ecco, fosco ed oscuro, il dramma personale del coraggioso sfortunato Capitano: non é presente fisicamente, come noi ci aspetteremmo, alla morte della sua nave. Eppure, subito dopo l’esplosione del secondo siluro, molti lo hanno visto, lo hanno notato, mentre…
…si precipitava fuori (della cabina di comando) gridando: “Salvagenti a posto”! – deposizione del secondo ufficiale -;
…cercava di organizzare il salvataggio e infondere un po’ di calma” – (direttore di macchina) – ;
…sulla dritta cercava di ottenere un po’ di calma per effettuare ordinatamente il salvataggio…, ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei greci – …diceva all’artigliere: “Sono Capitano e la mia nave è stata già silurata. Non faccia fuoco, altrimenti sparano contro le zattere!” – (primo timoniere) -;… …vedendo la nave sbandare a dritta in modo che giudicò pericoloso, ordinava: “Gente in riga e zattere e lance a mare!” – (primo ufficiale) -;…
Dopo tutto questo, il Capitano non si vede più, esce di scena, scomparendo proprio mentre ci si aspettava di vederlo, nel solco della tradizione marinara, fermo al suo posto di comando, andare coraggiosamente a fondo e morire insieme con la sua nave.
Secondo un testimone oculare, egli si gettò a mare. Infatti, il primo cameriere testimoniò: “Mi gettai a mare dopo il Comandante dal boccaporto n.2”.
Allora, gettatosi a mare, è per caso affogato? o, piuttosto, è sembrato gettarsi a mare, mentre, invece, vi cadeva accidentalmente probabilmente ferito a morte da…”quel colpo di rivoltella sparatogli contro dal basso da uno sconosciuto?”, come racconta nella sua deposizione il 2° Capo timoniere?.
Non lo sapeva chi gli stava dattorno, non lo sappiamo nemmeno noi.
Se, però, dobbiamo dar credito alla fonte austriaca, il capitano Castellano sarebbe morto di morte violenta, ucciso, con altri, durante la sommossa scoppiata a bordo del piroscafo in seguito alle prime cannonate sparate dal sommergibile.
Vera o falsa, questa versione, verosimili o inventati questi particolari, il mistero resta e ci è difficile svelarlo.
Quando, verso le ore 5.30 del mattino, la luce del giorno scese a illuminare questa parte del Mar Jonio, sulla scena del disastro non c’era più nulla ormai: non la snella mole della bella nave barese, sprofondata con tutto il suo carico negli abissi; non la sagoma scura del sommergibile tedesco, apparentemente assente, ma, di fatto, aggirantesi ancora minaccioso in quei paraggi; non le scialuppe di salvataggio, che, pur stracariche di naufraghi, vagavano sempre più lontane, alla deriva, facile preda delle onde, delle correnti e della forza dei venti.
“Nelle zattere si trovarono mescolati italiani e greci, che, numerosi, usarono soprusi e violenze, pestando coi piedi e ferendo di coltello e rasoio i nostri connazionali ed altri che si affollavano intorno alle già gremite imbarcazioni.”
Dura, lunga e faticosa fu la lotta dei naufraghi in una situazione oltremodo loro avversa, folle e vana la speranza di veder arrivare da un momento all’altro il soccorso liberatore: Corfù non sapeva; Taranto nemmeno. Finché, poi, qualcuno non darà l’allarme.
Nella notte, ad appena poche ore dall’affondamento, qualcuna delle zattere giunse anche a vedere in lontananza la terra della salvezza, …”ma il forte mare ci impedì assolutamente di avvicinarci a Fano, racconta un sopravvissuto.
Nessun mezzo di soccorso videro i naufraghi durante tutto il giorno 6.
“Verso il mezzogiorno del 7 – appena due ore prima che fossero scoperti e tratti in salvo – calmatosi ormai il mare, abbiamo visto una leggera imbarcazione, una specie di caicco, contenente un greco. Un greco che era con noi allora abbandonò la nostra zattera e andò a parlare con quello. Ritornò poco dopo dicendo che quella imbarcazione non poteva salvarci ”.
“ Verso le prime ore del pomeriggio (del 7) apparve l’ESPERO ”.
“ Potevano essere le 2.00 del pomeriggio, allorché avvistammo un caccia ed un rimorchiatore”…credo che la nostra zattera sia stata l’ultima ad essere recuperata dall’ESPERO ”.
“ Alle 01.30 del giorno 7 – racconta il Comandante della Settima Squadriglia – ricevetti a Taranto un fonogramma che mi ordinava di accendere i fuochi per eseguire una missione.
Ricevetti solo verso le 3.00 le istruzioni scritte che dicevano:
di percorrere la rotta del Città di Bari che non era ancora giunto a Corfù. Dovevo continuare le ricerche fino al tramonto e passare la notte a Gallipoli.
Partii alle 3.30 da Taranto con una velocità di 20 miglia e seguii la rotta ordinatami… Avvistai la prima zattera verso le 2.05 / 2.10 del pomeriggio.
Questa conteneva tre o quattro uomini tra cui il 2° Ufficiale… Siccome sapevo che pure alla ricerca dei naufraghi si trovavano i C.T. “Pilo” e “Bronzetti”, feci loro un radiotelegramma, comunicandogli le coordinate geografiche del luogo ove mi trovavo. Infatti, dopo appena un quarto d’ora, essi arrivarono. Vennero altri due idrovolanti francesi che indicavano la posizione delle zattere. Continuai il salvataggio sino alle 16.45, raccogliendo ben 98 persone. Tra i salvati ve n’erano 97 della Città di Bari e uno R.T. dell’ “IMERA”. Avendo visto che vi erano dei feriti da coltello, ordinai il disarmo generale. Un greco, DEMETRE PRIFTIS, consegnò un rasoio insanguinato. A Gallipoli tutti i naufraghi ebbero assistenza.” A loro volta, il “Pilo” e il “Bronzetti”, ne recuperarono altri 58 che provvidero a trasportare all’ospedale di Corfù. “Di 493 persone che erano a bordo al momento della partenza da Gallipoli, – conclude malinconicamente nella sua relazione il Comandante della Divisione Base di Taranto – solo 156 si erano salvate e pure é certo che lo scoppio non può aver ucciso che, al massimo, una diecina di persone e che qualche altro può aver trovato la morte per aver battuto qualche forte colpo nel gettarsi in mare, forse tra questi ultimi il Capitano del piroscafo, del quale non si riuscì ad avere alcuna notizia dopo l’affondamento.”
L’EPILOGO E L’IMMANE TRAGEDIA
Dunque, terminate le operazioni di ricerca e fatta la conta dei superstiti, all’appello risposero soltanto 156 persone – (160, secondo la fonte austriaca). E le altre 337 o 368 o 560, o forse più? (se dobbiamo credere alla predetta fonte straniera). Disperse. Morte. Tutte morte. Tutte finite in fondo al mare.
Precipitatevi non dalla nave che le trasportava, ma dalle scialuppe di salvataggio, in cui erano riuscite, bene o male, a trovar posto, prima che il “Città di Bari” affondasse. Precipitatevi da sole. Lasciatevisi andare così, con semplicità, quasi con un dolce senso di abbandono e di rassegnazione nel proprio destino. Uccise dagli stenti, dal maltempo, dalla violenza di prepotenti compagni di viaggio, dagli scoraggiamenti, dalla lunga attesa e permanenza in mare – durata, è incredibile, un giorno e mezzo! – Ce ne parlano diffusamente, nelle loro deposizioni, i pochi fortunati superstiti. Basti leggere, come ha fatto l’orfano che scrive, – “un groppo alla gola, l’occhio inumidito dal pianto, il cuore in subbuglio” – gli scioccanti racconti che i dichiaranti fanno alle autorità giudiziarie.
Vi trovi tutto: la fatalità, la casualità, la logica della guerra, l’imprevedibilità e l’inevitabilità degli eventi; l’impotenza dell’uomo nella lotta contro le forze della natura; l’insano egoismo che sempre alberga nell’animo umano, nella buona come nella cattiva sorte: l’assenza, o la mancanza di spirito di solidarietà; ma anche, e soprattutto: l’incomprensione ed il malinteso; la leggerezza; l’indifferenza; l’apatia; la negligenza “nell’adempimento dei doveri del proprio ufficio”; l’inettitudine di alcuni comandanti. Doveri, che, se fossero stati compiutamente ed opportunamente osservati e responsabilmente adempiuti, avrebbero potuto almeno contenere, voglio dire, limitare, se non proprio ridurre al minimo, le proporzioni di una “catastrofe annunciata” sin dalla partenza della nave da Gallipoli, e che, invece, omessi e inosservati, furono la causa scatenante della morte di un si alto numero di persone.
Oltre 400 certamente. Forse 500. Forse anche di più. Un vero disastro.
Non delle stesse proporzioni di quello lamentato nell’affondamento del “TITANIC” (1912), – ricordate? – ma pur sempre grande, enorme, terrificante, impressionante, raccapricciante, certamente di origine colposa. E di scalpore e di impressione ne fece tanta il malaugurato evento che ne rimasero giustamente preoccupati politici e militari, considerato anche e soprattutto, il grave momento in cui esso avveniva – si era, infatti, in un mese “ caldissimo ” della guerra in atto: nel fatale ottobre ‘17 -. E, per far piena luce e chiarezza sulla triste vicenda e tacitare le coscienze turbate, usando prudenza, cautela e circospezione, il Ministero della Marina, aprì in tutta fretta un’ampia inchiesta: furono sentiti, in primo luogo i sopravvissuti (italiani e stranieri): i membri dell’equipaggio, gli artiglieri, i radiotelegrafisti, i passeggeri imbarcati, tutti i veri protagonisti insomma della vicenda. Furono ascoltati inoltre, come parte in causa, indiziati di reato, il Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Taranto, il Comandante in Capo dell’Armata R.N. “Trinacria”, il Comandante della Divisione Base di Taranto, il Comandante della Divisione Navale dello Jonio R.N. “Città di Catania”, il Comandante di Spiaggia di Gallipoli, il Commissario militare del piroscafo “Città di Bari”, dei quali taccio – per carità di Patria – nomi e cognomi.
E, dopo due mesi circa di minuziose indagini, acclarata ogni cosa e individuati i veri responsabili del disastro, il Tribunale Militare emanò la sua sentenza: inflisse le pene che ciascuno si meritava, ma con mitezza, senza infierire contro nessuno. Le sanzioni e i provvedimenti presi restarono però nel chiuso degli uffici, ammantati di riservatezza, mai svelati. Solo pochi conobbero le conclusioni della Giustizia. Esse non furono mai rese pubbliche “per l’impressione” si disse.
Come non venne mai reso pubblico il numero preciso delle persone scomparse, tutte insieme, in uno stretto braccio di mare:
morte,
a due passi dalla salvezza, pensate!
Sotto i nostri stessi occhi.
Con la nostra stessa complicità.
Come non pensare che essi, i morti, tutti quei morti, pesino, ancora oggi, sulla comune coscienza?
Le colpe, le responsabilità, stavano là e parlavano da sole e chiedevano giustizia, non vendetta, ma neppure dimenticanza.
Giunse sì la giustizia, e anche presto; arrivarono le conclusioni del Tribunale, puntuali, rapide, immediate, ma non proprio riparatrici, accompagnate, vorremmo dire, da giusto rigore morale e giuridico. Sapevano troppo di affrettato, di condizionato, da interesse superiore, di ovattato, forse di vergognoso, da nascondere, da rinchiudere, da confinare al più presto, a doppia mandata, in fondo ai ferrei cassetti degli archivi di Stato, insieme con la verità. E le lacrime non furono mai asciugate! Sicché, una tragedia sì grande e sì grave, lentamente, fatalmente, scivolò nel dimenticatoio. Quell’«orfano», intanto, pianse la figura del padre per circa 98 anni!
Che tristezza!
IL PICCOLO GIOVANNINO VERNI’ (1916-2014): AVEVA SOLO 20 MESI!
Riavvolgiamo velocemente la pellicola di un vecchio film “super8” e vedremo tanti piccoli lampi di luce, qualche imperfezione nelle immagini sbiadite; noteremo, però, una lagrima fuggevole sui volti degli spettatori… Tante volte avrei voluto chiedere a mio padre di scrivere l’ennesimo, ultimo “Medaglione” dei sui libri: non ho mai trovato il coraggio di chiedergli quello che era ormai uno sforzo troppo grande: quello di scrivere di suo pugno il “medaglione” della sua lunghissima, bellissima e travagliatissima vita… Avevo il timore e la certezza di rovinare la sua giornata fatta di quotidianità, di studio, di lettura e di qualche preghiera. Oramai l’età era andata avanti inesorabilmente e spesso leggevo un velo di tristezza sul suo volto corrugato da oltre trent’anni d’insegnamento scolastico, dal sole e dalla fatica campestre. Lui non amava la morte, la detestava, non voleva parlarne mai; amava la vita, curava sempre la sua salute e la sua inesauribile Fede nell’Altissimo immergendosi spesso nella preghiera.
Questo ricordo, è frutto di una ricerca storica da leggere e da meditare, un lavoro di approfondimento culturale ed etico-sociale sulla vita e sulle opere di alcune figure nate e cresciute con noi ed in mezzo a noi a cavallo di due secoli, passati da tempo a miglior vita, in quel di Sannicandro, loro patria nativa, ove vivevano, circondati dall’affetto dei propri cari.
Giovanni Vernì, mio padre, era una figura complessa di padre e di insegnante, ancor tutta da conoscere e da scoprire negli aspetti più noti e meno noti del suo carattere e nei tratti più significativi del suo animo, nelle sue virtù nascoste, nelle sue doti umane, nella sua ricca spiritualità, nella sua precisa identità.
Un insegnante di scuola media, uno storico e scrittore, un vero Agricoltore con la “A” maiuscola, che si è fatto tutto da solo, con fermezza e risolutezza. Un “umile, onesto” servitore dello Stato, come hanno detto e riconosciuto pubblicamente varie autorità, nel triste giorno del suo solenne funerale nella Chiesa “Matrice” di Sannicandro di Bari. Un mite di cuore. Un giusto. Un uomo schivo e riservato, restío ad apparire e a mettersi in mostra. Un simbolo vivente di persona innamorata della famiglia, della moglie, dei figli e dei nipoti ed anche dei pro-nipoti, della sua piccola cittadina d’origine e della sua storia, della scuola da lui fondata e della sua seconda attività campagnola. Un generoso. Un altruista per natura, sempre pronto e disponibile con tutti, conoscenti e non. Un uomo, un uomo qualunque che amava profondamente Dio, la Famiglia, la Patria, il lavoro, la campagna amica, le sue origini, il mare, il calcio giocato (il Bari ed il Milan) e lo sport in genere, le materie letterarie, la natura.
Un galantuomo dal tratto umano di rara sensibilità d’animo, sicuramente degno di occupare almeno un posto piccolo piccolo nella nostra memoria storica, di avere un adeguato “medaglione” nella particolare galleria di ritratti o “imagines” di inobliabili volti del passato di nostra gente, che si sono segnalate e messe in luce tra i tanti e che sono meritevoli di essere eternate nel ricordo, imitate e possibilmente emulate dalle future generazioni della nostra gente.
Di origini “CONTADINE-PICCOLO-BORGHESI”, venne al mondo il 16 gennaio 1916, in una famiglia di “agricoltori”, abitanti in una casa singola, su due piani, sulla sinistra della via per Cassano, proprio al centro del paese. Un nucleo famigliare, il suo, piccolo, piccolo, di poche persone, ben costumate, modeste, rispettose e religiose quanto basta, tutte di onorati sentimenti, che non fecero mancare nulla, proprio nulla a mio padre, il piccolo Giovannino: non l’affetto, non l’educazione religiosa e neppure l’istruzione nella scuola elementare della nostra città.
Nonna Lucia, la mia nonna paterna, una donna dal carattere autoritario, dal suo canto, si coccolò a lungo il suo cucciolo, ma senza mai eccedere in malvezzi e smancerie diseducative.
Nonno “Pasqualino”, a sua volta, un dinamico, fattivo e volitivo agricoltore e coltivatore diretto sannicandrese, voleva un bene dell’anima al suo primogenito. La Guerra, la 1^ Guerra Mondiale, ed il dovere patrio lo separarono dalla giovane consorte e dal piccolo “Giuannin”.
Circondato da una montagna di affetto, il nostro futuro professore, crebbe sano e forte come un pesce, senza tanti grilli per la testa, buono, umile, modesto, timoroso del Signore. “Orfano” sin dalla prima infanzia del padre, andato disperso nello Jonio in seguito al siluramento del piroscafo “Città di Bari”, compì gli studi ginnasiali e liceali presso la Scuola privata di don Ciccio Saliani (a Sannicandro), il “Cirillo” e il “Flacco” a Bari e il “Rinascimento” ad Asti. Si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università Statale “Federico II” di Napoli, e si laureò in Lettere il 9 giugno del 1941, discutendo con l’esimio prof. Giuseppe Toffanin la seguente tesi: “La Letteratura Italiana a Napoli nel decennio 18201830 attraverso il Giornale delle Due Sicilie”.
Chiamato alle armi, quale “volontario universitario” prestò servizio militare militando, dopo la frequenza del corso allievi ufficiali per la nomina a sergente, dal luglio 1941 al gennaio 1944, data del suo collocamento in congedo per particolari ragioni di famiglia, nella 3a Compagnia telegrafisti in approntamento per il fronte russo al seguito della Divisione Alpina “JULIA”, nel Comando della IIa Armata – Intendenza – P.M. 10 (Fiume Croazia), nella 91a Compagnia Telegrafisti da inviare al Fronte di Cassino al seguito della V Armata americana.
Per la sua partecipazione alla Guerra ’40’45 fu insignito di “doppia croce al Merito di Guerra”.
Sposato dal 1947 con Rachele Stangarone, con lei ha vissuto per 67 lunghissimi anni di matrimonio che gli hanno dato quattro figli: Lucianna, Pasquale, Nico e Angela; e sette nipoti: Rachele, Giovanni e Matteo (di Pasquale), Giovanni e Francesco (di Nico), e Giovanni e Federica Carmen (di Angela). Un matrimonio di una durata inaudita per i nostri tempi, un matrimonio nato tra diverse avversità di natura familiare e non.
Era da poco terminata la 2^ Guerra Mondiale e Giovanni era solo agli inizi della sua bella carriera di insegnante “precario”. Pochi sanno che in quei tempi difficili gli insegnanti ricevevano la nomina annuale e percepivano lo stipendio per il solo periodo d’insegnamento: al termine dell’anno scolastico Giovanni era solito dar fondo ai risparmi accumulati nel periodo lavorativo. Le avversità famigliari consigliarono ai due giovani innamorati di dar corso a quella che si suol chiamare “la fuitina”, o “fuga d’amore”, per porre di fronte al fatto compiuto le famiglie. Così fu. Con pochi indumenti, qualche paio di mutande e calze per sopravvivere, Giovanni e Rachele “scapparono” a casa della zia paterna di Giovanni, zia Paolina Guglielmi. Una zia carissima, zia Paolina, una donna forte, una donna d’altri tempi, che li accolse senza remore, li rifocillò senza problemi per diversi giorni….
Mio padre Giovanni amava tantissimo la sua “creatura”: la Scuola!… e, di conseguenza, amava tutti i suoi alunni. Con i professori Squicciarini e Losurdo (Jun.) partecipò alla istituzione in Sannicandro di Bari di una Sezione staccata di Scuola Media Statale, divenendone, al momento della sua trasformazione in Scuola Autonoma, primo preside effettivo (a.s. 1953 – 1954), titolare di lettere del corso A, per tutta la durata del servizio prestatovi, ininterrottamente dal 1944 al 1976, anno del suo volontario collocamento in pensione. Per quasi tutto il mese di ottobre del ’46, inoltre, il prof. Giovanni Vernì fu incaricato provveditoriale dell’insegnamento di materie letterarie nella 4a ginnasiale di un istituendo “Ginnasio sannicandrese” quale sezione staccata del barese “Q. O. Flacco”.
Entrò nel mondo della Scuola e dell’insegnamento, sicuramente perché ne avvertiva l’attrazione e la vocazione. Traendone, però, un gran profitto che gli valse non poco e lo aiutò enormemente per affinare la sua indole alquanto impulsiva per natura, per addolcire e stemperare le asprezze del suo temperamento, apparentemente ruvido e aspro, di fatto, però, mite, generoso e benevolo: pronto e disponibile sempre a fare del bene, a compiere quei miracoli che solo lui era capace di compiere per chi era effettivamente bisognoso di comprensione. Pienamente cosciente e consapevole che, nella vita, vale molto di più la mitezza o dolcezza dei modi che la “durezza di cuore”. Nulla tralasciò e molto si adoperò perché la sua opera ed il servizio riuscissero proficui e meritevoli di gratitudine da parte dei suoi concittadini. Al termine della sua lunga carriera, come vedremo in seguito, Giovanni intese approfondire sempre più tutti i suoi studi scolastici e lo scibile linguistico mettendo in cantiere e sfornando senza sosta, uno dopo l’altro, i suoi bellissimi approfondimenti storico-linguistici. Sulla nascita della allora embrionale scuola sannicandrese, Giovanni ci ha raccontato una storia sconosciuta ai più…
Giovanni ripeteva spesso e non nascondeva mai allo scrivente l’amore smisurato che lo univa indissolubilmente alla lingua italiana ed a quelle che considerava le sue radici: il greco antico e la lingua latina. E’ ormai diffuso il linguaggio anglofono e Giovanni non amava tutto questo. In certi particolari settori poteva anche capirlo, vista per esempio l’evoluzione tecnologica. Ne comprendeva molto meno l’uso in ambienti politici e/o professionali, soprattutto se si parlava di discipline umanistiche. Giovanni si chiedeva spesso: “è moda o inganno?”. Egli era molto sensibile al tema e lo riteneva degno della massima attenzione, perché lo riteneva anche questo un nostro “guaio”. Da un suo punto di vista, il guaio dei guai, la rovina delle rovine, e spiegava anche il perché. A suo dire, c’è un uso dei termini inglesi nella lingua italiana che è sicuramente moda; c’è anche un’anglofonia tecnica dovuta allo strapotere anglosassone in certi settori. E questo, lo riteneva inevitabile: se la finanza vive e lavora a Londra o a New York, parlerà inglese e non certo spagnolo o italiano. E fin qui, di nuovo, passi pure: se a dettare legge sono loro, noi non possiamo che subire. C’è un’anglofonia salottiera che serve anche per coprire qualche buco o qualche voragine culturale, così come una volta c’era una francofonia analoga che mascherava incapacità varie. E qui le cose cominciano un po’ a complicarsi, sconfinano nel campo del vorrei ma non so e non posso, complessi, senso di inferiorità, tentativo di rivalsa, inadeguatezza e via discorrendo. A parere di Giovanni, non era proprio una bella cosa, ed era proprio chiaramente inganno e truffa.
Appena possibile, nel periodo lavorativo e non, Giovanni, di buon ora, verso le 05,30, metteva in moto il suo bel “VW Maggiolino” rosso porpora, targato BA204836, e correva a tutta birra per i suoi piccoli poderi campestri: le “Macine”, la “Cattiva”, il “Lago Nuovo”, sulla Via di “Adelfia”. Per tanti anni ha chiesto qualche volta il nostro piccolo aiuto: quello di mia madre e quello di tutti noi; in particolare chiedeva il nostro apporto e supporto durante il periodo della raccolta delle olive, delle mandorle e dell’Uva “Regina”…. Bei tempi!!! Quando – oramai – l’età si è fatta incipiente e gli acciacchi sempre più pressanti, borbottando e imprecando sottovoce, alla tenera età di 90 anni ha accettato di appendere in bacheca le chiavi della sua ultima autovettura: una Renault “Clio” bianca.
Il suo secondo amore – dopo la Famiglia e dopo i suoi quattro figli e sette nipoti – era la sua “campagna”. Tutta l’agricoltura in senso lato: l’ulivo ed i suoi frutti, che amava descrivere nei suoi libri come frutto “divino”, frutto “benedetto dal Signore”; la vite e la bellissima uva; il mandorlo ed i suoi frutti; gli aranci, i mandarini, le nespole, i peschi ed i suoi saporitissimi frutti… Tutti questi alberi da frutto il prof. Vernì li coltivava, li amava, li potava di persona, li concimava e li curava per lo stretto indispensabile: egli non amava i prodotti chimici e soprattutto i velenosi diserbanti. Egli era convinto – a ragione – che fossero la fonte prima della tanto temuta malattia del secolo: il “cancro”! Alla “tenera” età di novant’anni, Giovanni ritenne opportuno non abbandonare al proprio destino i suoi campi; ha continuato a seguirli spesso di persona, facendosi accompagnare in campagna per lo stretto indispensabile e nel giusto periodo, per la raccolta dei suoi amatissimi e succulenti “fichi regina”. Il suo albero da frutto prediletto era certamente l’ulivo, a cui dedicò un bellissimo libro…
Stenterete a crederci, da vero agricoltore qual era Giovanni, amava profondamente il mare ed anche i suoi frutti. Appena possibile, quando il lavoro scolastico glielo permetteva, raggiungeva il mare in quel di Fesca, a Bari. Amava nuotare, senza eccedere con l’allontanarsi dalla terra ferma: nuotava benissimo in acque dove poteva appiedare, rilassato quanto basta, perché diffidava sempre delle insidie del mare. Mi raccontava, tempo fa, che negli anni ’30, ’40, ’50 tutta la sua famiglia, i conoscenti, gli amici e non, si riunivano in carovane di traini agricoli trainati da muli, muniti di tutto l’occorrente e partivano da Sannicandro per Bari: località preferite “San Francesco”, “San Girolamo” e “Fesca”.
Gli ultimi vent’anni della sua bellissima e lunghissima esistenza terrena, Giovanni li ha dedicati alla sua sezione dei “Combattenti e Reduci”, alla famiglia e al suo “hobby” preferito: la ricerca storica e linguistica. Egli amava in particolare: la lingua italiana; la lingua latina; il greco antico; la Storia con la “S” maiuscola; la geografia; Sannicandro! Mio padre Giovanni si è sempre interrogato sui tanti temi della sua lunga esistenza: DIO, l’Aldilà, la vita, la sofferenza, la felicità, la malattia, il dolore, la morte, il passato, i trapassati, il futuro, il Destino. E’ giusto, è naturale che lo abbia fatto, guai se non lo avesse fatto! Avrebbe fatto la figura di chi vive di presunzione, di chi presume di sapere tutto e invece non sa nulla. Specie quando l’interrogativo che gli si poneva rifletteva e riguardava la verità sulla esistenza in vita dei suoi stessi predecessori, così lontana, nebulosa, tutta avvolta in una fitta coltre di dubbi e d’incertezze, fonte e causa prima di tanti mali. Giovanni ha svolto con passione – per un lungo periodo del suo tempo libero l’analisi e l’interpretazione “etimo-lessico-logica-lessico-grafica” delle voci e delle forme dialettali più significative ancor oggi presenti e ricorrenti sulla bocca della gente comune. Voci e forme viste alla luce dell’influenza esercitata su di loro dalle preponderanti tradizioni culturali greca e latina; il suo pensiero era che esse non possono non testimoniare l’origine nobile e non plebea del nostro lessico utilizzato correntemente. L’idea di portare a termine questo studio approfondito è andata gradatamente maturando, avendola vagheggiata e accarezzata a lungo, ed ha dato grande importanza ed enorme valore sociale e culturale al suo studio. Dietro tutto ciò si nasconde: l’amore per la sua terra, il rispetto per i suoi progenitori più lontani, la grande passione per gli studi filologici, sapientemente inculcatagli da valenti maestri dell’Ateneo Partenopeo…; l’inderogabile necessità di realizzare senza indugio un ambìto progetto, che aveva molto a cuore, che si trascinava dietro da una vita; l’innato istintivo bisogno di sapere e di far sapere, di conoscere e di far conoscere, di capire e di aiutare a capire, quanto più possibile, il “PASSATO” di nostra gente e ancor misteriosa Mezardo; il vivo desiderio di dare compimento al suo “vecchio appassionato discorso” sulla nobiltà d’origine della nostra parlata popolare. Uno studio approfondito sul “PASSATO” interessante e intrigante è “come un ideale viaggio a ritroso nel tempo”, “un ritorno sui nostri passi”, “una sorta di pellegrinaggio ai santuari della nostra Vetustà”, ai segni e alle testimonianze della nostra Storia millenaria, alle innumerevoli “vestigia” della nostra gente. Giovanni lo sentiva, peraltro, come “un dovere morale”, “un atto dovuto”, volontario e consapevole, da compiere.
Giovanni è stato testimone della Fede, la Fede con la “F” maiuscola! La Fede degli avi! Dei nostri avi! Così umile e così semplice! Così profonda e così sentita! Così salda e così incrollabile! Ed anche così antica e così testimoniata! Una Fede documentata da riferimenti certi, inconfutabili, storicamente provati, ma pur sempre databile attraverso l’attenta analisi di elementi forniti dalla tradizione popolare e dalla particolare situazione archeologica del nostro territorio.
Da Pasquale (Pasqualino), agricoltore, e da Lucia GUGLIELMI, casalinga, Giovanni Vernì nacque a Sannicandro di Bari il 16 gennaio 1916 ed è tornato alla casa del Padre il 6 gennaio 2014.
Come già detto, partecipò alla istituzione in Sannicandro di Bari di una Sezione staccata di Scuola Media Statale, divenendone al momento della sua erezione in Scuola Autonoma suo primo preside effettivo (a.s. 1953 – 1954), titolare di lettere del corso A, per tutta la durata del servizio prestatovi, ininterrottamente dal 1944 al 1976, anno del suo volontario collocamento in pensione.
Per quasi tutto il mese di ottobre del ’46 mio padre fu incaricato provveditoriale dell’insegnamento di materie letterarie nella 4a ginnasiale di un istituendo “Ginnasio sannicandrese” quale sezione staccata del barese “Q. O. Flacco”. Di idee politiche moderate, ma non di appartenenze partitiche, ha preso una sol volta parte alle competizioni elettorali nelle Amministrative del 1956 con la lista de “IL CASTELLO”, uscendone eletto consigliere di minoranza.
Sposato dal 1947 con Rachele Stangarone, ha avuto quattro figli: Lucianna, Pasquale, Nico e Angela; nonno di sette nipoti: Rachele, Giovanni e Matteo (di Pasquale), Giovanni e Francesco (di Nico), e Giovanni e Federica Carmen (di Angela) e due pronipoti: Giorgio ed Alessandro.
Nell’esilio dorato di Sannicandro di Bari, circondato dall’affetto della cara consorte Rachelina, della figliola Lucianna e di tutta la famiglia, sognava sempre……: la carezza della mamma defunta, la “gioia” del suo papà Pasqualino che non aveva potuto conoscere, gli amici del cuore, i dolci conversari presso la casa paterna in Via Cassano, la “parca” cena con la famiglia, il pane casereccio e la focaccia di Altamura che lui apprezzava oltre ogni esaltazione, la cucina sobria della nostra terra, “i col–rizz” saporiti…., la pasta con le cime di rapa, la cicoria di campagna condita con il purè di fave ed il suo olio extravergine d’oliva, il calore e l’affetto silenzioso dell’immensa schiera di ex alunni (alcuni oramai ultra-settantenni) e dei concittadini tutti….
Per quanto possa inciampare, un insegnante è votato a sperare sempre che con lo studio si possa modificare il carattere di un ragazzo e, di conseguenza, il destino di un uomo. Giovanni non ha eventi da consegnare alla storia: una vita dedicata allo studio, alla campagna, alla famiglia, al Signore. La sua vita confluisce in altre vite. Uomini così sono la linfa che alimenta il tessuto intimo delle nostre scuole, sono i più alti sacerdoti custodi di un templio. Uomini così continueranno ad essere una fiamma che arde e darà significato alle nostre vite.
Giovanni, “ERA MIO PADRE….”.
(Fonti delle notizie: Web, Google, Prof. Giovanni Vernì, Ambasciata austriaca, Ufficio storico della M.M., Wikipedia, You Tube)