Reportage da Varsavia: “Contrastare le dittature – la PUTINIZZAZIONE della regione e la sua minaccia a sicurezza e democrazia”
Dopo il primo approfondimento dedicato al tema delle guerre dei dittatori contro le popolazioni civili, abbiamo seguito ieri un secondo evento collaterale della conferenza dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) a Varsavia. L’incontro, intitolato “Countering Dictatorships: The Putinization of the Region and Its Threat to Security and Democracy”, è stato organizzato dall’associazione For Equal Rights e moderato dall’attivista Khanum Gevorgyan.
Sin dall’introduzione, Gevorgyan ha spiegato come il dibattito intendesse analizzare il fenomeno della cosiddetta “putinizzazione”, ovvero l’adozione da parte di regimi autoritari di pratiche comuni di repressione interna, guerra esterna e manipolazione informativa per consolidare il potere. L’attenzione si è concentrata sulle esperienze di tre Paesi simbolo di questo modello: Russia, Bielorussia e Azerbaigian.
Il primo intervento è stato affidato all’attivista per i diritti umani Ilya Yashin, da anni figura di rilievo dell’opposizione russa oggi in esilio. Yashin ha ripercorso il quarto di secolo trascorso contro il regime di Vladimir Putin, ricordando come il Cremlino abbia progressivamente eliminato ogni voce critica, fino agli omicidi di Boris Nemtsov e alla persecuzione di Alexei Navalny.

Ha sottolineato che la guerra in Ucraina non può essere letta come un semplice conflitto bilaterale: è parte di una lotta globale fra due sistemi opposti, da un lato le dittature e i populismi repressivi, dall’altro la democrazia, i diritti umani e la libertà.
Secondo Yashin, l’Europa fatica ancora a comprendere che l’esercito ucraino non combatte soltanto per Kiev, ma per l’intero continente. Ha denunciato la nascita di una “coalizione dei dittatori”, con la Russia sostenuta da Iran, Corea del Nord e, in forme meno visibili ma rilevanti, dalla Cina. Per Yashin è fondamentale che l’Occidente riconosca l’Ucraina come parte integrante della propria difesa collettiva.
A seguire è intervenuto Alexander Shlyk, attivista bielorusso ed esperto di processi elettorali. Con tono critico ha ricordato che, prima ancora di Putin, Aleksandr Lukashenko aveva già creato un sistema autoritario basato su manipolazione del voto e repressione civile: “non è la Bielorussia a essere stata putinizzata, è Putin a essersi lukashenkizzato!”.

Shlyk ha descritto la lunga evoluzione delle frodi elettorali, dal riempimento delle urne alle più sofisticate interferenze digitali, e la progressiva restrizione della società civile attraverso norme sui “foreign agents”. Ha evidenziato come le dittature cooperino nella guerra ibrida contro l’Europa democratica, utilizzando strumenti diversi: dalla propaganda sui social alle crisi migratorie orchestrate ai confini dell’Unione europea.
Pur riconoscendo il peso della Russia sul destino di tutta la regione, ha insistito sulla responsabilità autonoma di ogni dittatore: Lukashenko non può essere visto come un semplice burattino del Cremlino. Ha poi sottolineato l’importanza di sostenere la democrazia in Paesi vicini come Armenia e Georgia, perché il successo economico e democratico di questi Stati potrebbe diventare un modello alternativo capace di incrinare i regimi autoritari limitrofi.
Il terzo intervento è stato quello dell’attivista armena Gayane Abrahamyan, presidente di For Equal Rights, che ha descritto in modo dettagliato come il presidente azero Ilham Aliyev stia replicando i metodi di Putin. Ha parlato della lunga campagna di disinformazione russa contro la società armena e del ruolo delle guerre nel Nagorno-Karabakh come strumento per rafforzare regimi autoritari.

Abrahamyan ha spiegato come Aliyev, dopo avere rivendicato la “riunificazione” del Nagorno-Karabakh, abbia costruito una nuova ideologia espansionista denominata “Azerbaigian Occidentale”, che di fatto rivendica larga parte del territorio sovrano armeno, riproducendo la logica del “mondo russo” putiniano.
Ha denunciato la narrativa della “denazificazione” utilizzata per delegittimare la resistenza armena e le proposte di controllo degli armamenti avanzate da Erevan puntualmente respinte da Baku. Ha inoltre collegato le guerre del 2020 e del 2023 contro l’Artsakh ai piani di Mosca per prepararsi all’invasione dell’Ucraina, ottenendo corridoi commerciali ed energetici verso la Turchia e l’Azerbaigian in cambio della neutralizzazione della causa armena.
Quando si è aperta la fase delle domande dal pubblico, alcuni interventi hanno toccato temi delicati: un partecipante bielorusso ha chiesto quale sia il “punto debole” del regime di Aliyev; altri hanno sollevato questioni sul diritto al ritorno dei profughi e sul legame tra liberazione di prigionieri politici e allentamento delle sanzioni.
Abbiamo chiesto se i cittadini di Russia e Bielorussia siano consapevoli che l’apparente “amicizia” di partner come la Corea del Nord si inserisce in realtà nella crescente dipendenza di Mosca dal regime cinese, trasformando la Russia in una sorta di nuova “Bielorussia” per Pechino.
Shlyk ha risposto che nella regione è noto come ogni Paese abbia rapporti specifici con la Cina, ma ha messo in guardia contro l’errore di trattare Russia, Bielorussia e altri Stati come un unico blocco.
Yashin ha aggiunto che la società russa non percepisce pienamente la trappola cinese. Mentre Putin afferma di difendere la sovranità nazionale, in realtà sta trasformando la Russia in un semplice “serbatoio di gas” per la Cina, compromettendone l’indipendenza economica, politica e militare.
L’incontro si è chiuso con l’invito dei relatori a non sottovalutare la capacità delle dittature di imparare e sostenersi reciprocamente, ma anche con la speranza che la democrazia possa diffondersi a sua volta attraverso l’esempio e la resilienza dei popoli vicini.
Immagini: Difesa Online
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