Mi chiamo Nico Vernì, sono originario di Sannicandro di Bari, ed all’epoca avevo vent’anni!
Ho fatto parte con orgoglio dal 12 luglio – 12 agosto 1977 del 14° Battaglione Bersaglieri “Sernaglia” in quel di Albenga, ove allora aveva sede un Centro Addestramento Reclute. Subito dopo il C.A.R. e fino al 4 luglio 1978 fui assegnato al 26° Battaglione Bersaglieri “Castelfidardo” dell’8^ Brigata meccanizzata “Garbaldi” di stanza presso la Caserma “Martelli” di Pordenone.
Ho festeggiato da tempo i quarant’anni del mio congedo dal servizio militare di leva, ossia la Naja, così si usava chiamare questo obbligo di circa un anno a cui erano chiamati tutti i cittadini italiani maschi a partire dai 19 anni di età, obbligo abolito nel 2004.
All’epoca ero un ventenne, da poco diplomato e non ancora patentato: ogni tanto mi esercitavo alla guida di una campagnola Fiat AR 59 tra un cambio di guardia ed un altro, presso la polveriera ubicata tra Goito e Marengo – Mantova.
Trovavo doloroso separarmi dalla mia affiatata comitiva di ragazzi e ragazze e rinunciare a un anno di spensierata convivialità. Avrei potuto rinviare per motivi di studio la mia partenza per il servizio di leva obbligatoria, ma preferii subito affrontare una nuova esperienza di vita; se posso esser sincero, essendo appassionato di tutto ciò che attiene la sfera della difesa, ero impaziente e curioso.
Così, una mattina dell’estate del 1977, salii su un treno dalla stazione ferroviaria di Bari Centrale, con destinazione finale Albenga, in provincia di Savona. Di certo non è il luogo più vicino alla mia Sannicandro o alla mia amata riviera del sud barese.
A quei tempi non c’era il Frecciarossa e occorrevano oltre 12 ore di viaggio per giungere a destinazione, su vagoni affollati di gente sudata, spesso in piedi nei corridoi; a volta, per l’affollamento inverosimile, anche i bagni erano aperti e occupati da famigliole intere.
La mattina del 12 luglio 1977, all’arrivo ad Albenga eravamo in tanti e avremmo voluto farci un giro in città: non avevamo fatto i conti con le pattuglie militari che ci prelevarono immediatamente e ci caricarono di peso o quasi sulle campagnole accompagnandoci subito presso la caserma “Piave” di Albenga. Una volta entrato, mi trovai in una situazione emotivamente molto difficile. Passammo ore e ore fermi, immobili, costretti a urlare presentandoci in una certa maniera per poter andare in bagno. Se sbagliavi restavi lì e ci riprovavi a oltranza, fintanto che non avevano pietà della tua vescica.
Dopo tre giorni ci convocarono in un’aula ove un sergente ed un caporale maggiore, chiamandoci in ordine alfabetico, dopo aver chiesto il titolo di studio e lo sport eventualmente praticato, ci comunicarono una sigla composta da una serie di numeri ed una lettera: era l’incarico che ci era stato affidato; il mio era il “230A”. Usciti dall’aula ci informammo dai militari più anziani in servizio allo spaccio: il mio corrispondeva a quello di “capo squadra assaltatori”, un incarico durissimo che teneva conto dei miei trascorsi di calciatore che aveva militato in squadre di 1^ e 2^ categoria.
Prima di me furono chiamati due ragazzi di Napoli e Salerno, entrambi laureati in Giurisprudenza: dopo aver constatato i loro titoli di studio, comunicarono loro l’incarico con un sorrisetto nascosto a malapena sotto i baffi: “30C”, ovvero “mitragliere assaltatore”: era l’incarico più gravoso perché la famosa mitragliatrice “MG” e le relative munizioni pesavano oltre il triplo di un F.A.L.; inoltre, quei due ragazzi laureati avevano già 26 anni! Un altro ragazzo, munito di 5^ elementare, lo inserirono in fureria con mansioni d’ufficio!!!
Alcuni giorni dopo andammo “volontariamente” dal barbiere che chiamavamo tutti affettuosamente “Cocis”, un noto tagliatore di scalpi della tribù degli Apache, che mi tagliò i capelli cortissimi facendomi una “zazzera” ed una “spazzola perfetta”, da manuale. Allo scopo di salvare il salvabile fummo quai tutti indotti a pagare 1000 £ire all’incapace barbiere della caserma che rovinò comunque il nostro “scalpo”: era un modo per rendere la nostra vita difficile, così come le continue ispezioni notturne alle camerate.
Forse non sono grandi cose, ma eravamo poco più che ragazzini e quasi tutti non avevano mai lasciato la famiglia e gli affetti del paesino d’origine. Per circa 30 giorni rimasi lì, nel terribile caldo del C.A.R. di Albenga, in provincia di Savona; l’unica cosa dolce era il clima dolce e propizio della costiera ligure: quando possibile, ogni tanto raggiungevamo la bellissima Alassio.
Il servizio militare in quel mese a cavallo di luglio e agosto consistette in pratiche fisicamente impegnative. Lunghi e serrati turni di guardia, servizi di cucina passati a lavare di migliaia di piatti ed enormi pentole unte nelle quali dovevamo entrare fisicamente con gli scarponcini per poterle “pulire”.
E ancora, le corse sotto il sole a picco muniti di anfibi di cuoio durissimo che costrinse il 99% di noi a “marcare visita” per le enormi piaghe e le vesciche ai talloni delle caviglie.
Poi le esercitazioni di tiro, in una collina-sassaia incandescente raggiunta dopo alcune ore di camion, indossando la mimetica con le maniche lunghe e tutti i bottoni chiusi e, infine, le interminabili ore di lezione sulle mine anti uomo e anti carro, sulla maschera antigas, sul Garand, sul FAL BM 59 e sulla M.G. 42/59 calibro 7,62 NATO, allora in dotazione all’ESERCITO ITALIANO.
E non parliamo poi della “ambitissima” pulizia cessi, e del servizio di “piantone” alle camerate, cosa che succedeva assai spesso.
Terminato il C.A.R. ci trasferirono con una tradotta militare in un viaggio interminabile diretti a Pordenone, presso la caserma “Martelli”, allora sede del 26° Battaglione Bersaglieri del “Grande Ottavo”. Ogni giorno ci esercitavamo in “Comina”: assalti simulati a piedi e sugli M113, assalti notturni a fuoco, lanci di razzi illuminanti, esercitazioni a fuoco, lanci di missili controcarro “TOW”… Ogni pomeriggio ci si esercitava in saggi ginnici, salti nei cerchi di fuoco e non, salti nei teloni, partite di pallavolo e di calcio: una volta riscaldati a dovere, era d’obbligo la famosa “corsa di battaglione o reggimentale” e quindi la doccia!
Non me ne sono persa neanche una, fino all’ultimo giorno, e ne sono fiero!!!
Nella caserma “Martelli”, come in tutte le altre caserme d’Italia, regnava incontrastato il “nonnismo” – a volte esasperato, a volte no. Un bullismo, si direbbe oggi, che in certi casi arrivava anche ad essere violento, non solo a parole.
Noi del “Settimo Secondo 1977”, quando arrivammo ad avere l’anzianità necessaria, decidemmo di abolire quella pratica e lo facemmo con un gesto molto simbolico: “fare la branda” a quelli più giovani di servizio, per rendere loro più sopportabile il rientro dal permesso o dalla licenza.
Non abolimmo però gli scherzi, spesso pesanti che riuscivano in parte ad alleviare la noia invernale e le serate in cui eravamo “puniti” e non potevamo uscire in libera uscita. Lo scherzo preferito era il cosiddetto “juke box” che consisteva nel chiudere il malcapitato il un armadietto metallico munito di feritoie, si inseriva una moneta da 50 £ire e dopo aver ascoltato la canzone richiesta poteva uscire!
I più anziani spesso si riunivano in una corsa fra i letti delle camerate cantando e urlando “nonniiiii, nonniiii, nonniiiii”!!! …e tutte le reclute seguivano e si univano al corteo.
Ricordo con simpatia una sera del mese di novembre 1977 a Pordenone: un ragazzo era solito mettersi a letto alle 19,00 e, come per incanto, iniziava immediatamente a “russare a tutto spiano”!!! Dormiva sul letto superiore di una branda a castello in ferro. Avvolgemmo lui ed il suo letto nella carta igienica, posizionammo sotto i piedi del letto 4 saponette militari e, dopo aver bagnato i pavimenti, lo portammo nei “cessi”; lì si svegliò con il suono della tromba!!! Il nostro comandante di compagnia era il capitano Strizzolo, una persona squisita munito di baffi alla Vittorio Emanuele!
Ancora oggi rivedo ogni tanto alcuni miei “fratelli di naja” e, ogni volta, ci rendiamo conto che il tempo non è riuscito a cancellare l’amicizia e la solidarietà che si crearono fra noi in quei mesi. Quel 4 luglio di quarant’anni fa ritirammo il nostro congedo e ci salutammo, piangendo nell’abbracciarci. Ci commuovemmo noi e si commossero soprattutto coloro che dovevano ancora scontare i giorni di punizione (C.P.S. e C.P.R.); ed anche i camerati più “spine” di noi che dovevano restare “dentro” per assolvere gli obblighi con la Patria.
Per affrontare la Naja fui costretto a uscire dalla mia zona di comodo. Mi staccai dalle mie certezze di post-adolescente degli anni settanta per vivere in un sistema di vita totalizzante, il più delle volte assurdo, in cui dovevi imparare ad arrangiarti, ad andare d’accordo con tutti, a dormire con tutti, a lavorare con tutti, indipendentemente dalla loro istruzione e dalla loro provenienza geografica.
Non avevamo a disposizione computer, telefonini o smartphone e, per comunicare con casa, si usavano i telefoni pubblici a gettone, le cartoline o le lettere di carta con il francobollo da leccare. Da casa, però, non potevano fare nulla per aiutarti, se non incoraggiarti o inviarti ogni tanto del denaro tramite “vaglia postale”, e così dovevi imparare gestirti da solo i problemi e i magoni. Quelle poche volte che arrivava il vaglia, si correva in pizzeria o in trattoria per non perdere il “sapore” di qualcosa di commestibile….
In sostanza imparavi a prenderti le tue responsabilità e imparavi a lavorare in team. A me capitò anche la fortuna di essere promosso fino al grado di caporale, quindi feci una prima esperienza nella gestione dei sottoposti e dei loro programmi di lavoro.
Durate il servizio militare imparavi il rispetto per gli spazi altrui e per l’anzianità, imparavi a ricevere dei “No” grandi come un carro armato e te ne facevi subito una ragione. Credo che l’abolizione della naja sia stato un grosso errore: sono certo che una formula rinnovata della leva obbligatoria sarebbe uno stimolo per le nuove generazioni e una buona cosa dal punto di vista educativo. Inoltre, lo Stato può tenere sotto controllo lo stato di salute delle nuove generazioni e può, se del caso, assumere i provvedimenti necessari. Anche soli 6 mesi si potrebbero dedicare a mansioni armate o di protezione civile e ambientale, oltre che alla formazione per la gestione di situazioni di panico o di attacchi terroristici.
Sono orgoglioso di aver dedicato la mia giovinezza alla naja e di esser partito quella mattina d’estate dalla stazione di Bari Centrale.
Ricordo l’abbraccio forte di mio padre Giovanni ed il suo vivo incoraggiamento: “Nico, NON MOLLARE MAI, nemmeno per un attimo”.
Quella partenza resterà per sempre fra i ricordi più belli della mia vita.
Nico Vernì, responsabile del blog
La caserma “MARTELLI” di Pordenone
Il nostro posto letto!
3 luglio 1977, Stazione di bari Centrale: LA MIA PARTENZA PER ALBENGA (SV)
Una visita un M-60 sul Cellina Meduna
Con il amico bersagliere Aldo Moscariello
…prima di entrare in mensa….
IL NOSTRO FUCILE, IL FAL BERETTA BM-59
…IL VECCHIO GARAND
Il mio comandante di plotone, l’allora tenente DANILO ERRICO, futuro CSM dell’E.I.
L’M-113 VTT
L’ABBIAMO FATTO PER LA NOSTRA BANDIERA, PER L’AMATA PATRIA!