Sui fronti ucraini si delinea la Fase 2 dell’offensiva russa
A quasi due mesi dall’inizio, lo scorso 24 febbraio 2022, dell’invasione russa dell’Ucraina (a Mosca definita “operazione speciale”) si registra un prolungamento del conflitto sia per l’inattesa capacità ucraina di reagire alle azioni russe, le quali a loro volta sono state piuttosto graduali, sia per il sostegno incessante a Kiev da parte degli alleati occidentali.
Dal 19 aprile si considera iniziata la nuova offensiva russa nel Donbass, corredata dalla puntata da Nord, dal settore Kharkiv-Izjum, che potrebbe portare all’accerchiamento di 90.000 soldati ucraini schierati sul fronte Est, evitando di doverli snidare dai trinceramenti realizzati nei lunghi anni della guerriglia endemica contro le milizie filorusse di Donetsk e Lugansk.
Forte è il timore che anche un’azione del genere possa non essere risolutiva di un conflitto che rischia di devastare totalmente l’Ucraina. Da giorni il presidente ucraino Volodymor Zelensky lancia appelli all’Occidente affinchè gli vengano fornite armi sempre più potenti, col presupposto che “più armi ci mandate, più breve sarà la guerra”.
Il 16 aprile, il suo consigliere Mykhailo Podolyak ha aggiunto: “L’Ucraina chiede armi all’Europa. L’Unione europea fornisce le armi, ma non quelle che abbiamo chiesto. Le armi impiegano troppo tempo ad arrivare. La democrazia non vincerà facendo questo gioco. L’Ucraina ha bisogno di armi. Non tra un mese. Ora”.
Forte è infatti il contrasto tra le forniture militari, finora limitate, da parte dell’UE e quelle ben più generose provenienti da USA e Gran Bretagna, non a caso le due potenze anglosassoni più interessate da un punto di vista geopolitico a compromettere il più possibile i rapporti economici fra la Russia e l’Europa continentale.
E quale occasione migliore di un conflitto come quello ucraino, alle porte dell’Unione Europea e che costringa, di fatto, anche grandi paesi tendenzialmente moderati verso Mosca, come Italia, Germania e Francia, a schierarsi decisamente contro il presidente Vladimir Putin e il suo governo? Anche a costo di farne pagare il prezzo agli alleati, dato che gli Stati Uniti sono i meno toccati, per ora, dalle turbolenze economiche causate dalle sanzioni.
A parole, gli Stati Uniti si dicono anch’essi interessati a far cessare il conflitto “al più presto”, ma il continuo rafforzamento di Kiev avrà sicuramente l’effetto contrario. Tanto che il 15 aprile la CNN ha riportato che il segretario di Stato americano Antony Blinken avrebbe chiaramente detto agli alleati dell’Unione Europea che il conflitto potrebbe durare “tutto l’anno” e che, perlomeno, i combattimenti nell’Est dell’Ucraina potrebbero protrarsi “per quattro o fino anche a sei mesi”.
Non stupiscano quindi le parole pronunciate la mattina del 19 aprile dal ministro della Difesa russo, generale Sergei Shoigu, che presiedendo un’ampia riunione con decine di generali, insieme al capo di Stato Maggiore generale Valery Gerasimov, che sedeva alla sua sinistra: “Gli Stati Uniti e i paesi occidentali stanno facendo di tutto per prolungare il più possibile l’operazione militare speciale. Il crescente volume di armi straniere dimostra chiaramente le loro intenzioni di provocare il regime di Kiev a combattere fino all’ultimo ucraino”.
Il flusso di armi e materiali
Nel corso del vertice in teleconferenza del 19 aprile con i principali alleati europei e anche asiatici, il presidente americano Joe Biden li ha esortati a varare nuove sanzioni antirusse, giocando sempre sull’imperativo morale dell’opposizione al “tiranno del Cremlino”, come l’ha definito il fedele premier britannico Boris Johnson.
I leaders di Washington e Londra si sono mostrati ancora una volta i più decisi nel voler consegnare ingenti quantitativi di armamenti agli ucraini, in particolare “artiglieria e munizioni”. E’ noto che già dal 13 aprile Biden ha annunciato un nuovo pacchetto di sistemi d’arma del valore di 800 milioni di dollari che comprende 18 obici da 155 mm, completi di 45.000 proiettili di artiglieria, sistemi radar AN/TPQ-36 e AN/MPQ-64 Sentinel, mine anti-uomo Claymore M18A1. Ma soprattutto mezzi che iniziano a farsi “pesanti”, ovvero 100 veicoli blindati HMWV “Humvee”, 200 cingolati da trasporto truppe M113 e 11 elicotteri Mi-17, oltre a 300 droni “kamikaze” (in altre parole “munizioni circuitanti”) Switchblade, e ulteriori missili Javelin, attrezzature mediche, giubbotti antiproiettile ed elmetti.
Il trasporto di questi nuovi armamenti, che hanno portato a complessivi 3 miliardi di dollari l’impegno economico dell’Amministrazione Biden nell’armare l’Ucraina, è stato molto velocizzato dagli americani, tanto che “un alto funzionario del Pentagono” ha spiegato alla CNN: “Gli Stati Uniti lavorano H24 per inviare armi all’Ucraina con una velocità senza precedenti.
L’intero processo è stato ridotto a 48-72 ore. E’ una procedura che inizia con la lista delle richieste stabilita assieme agli ucraini, prevede una serie di passaggi e autorizzazioni per i quali normalmente ci vogliono mesi, ma ora viene compiuto in 48-72 ore”. La sera del 19, il New York Times ha anticipato che la Casa Bianca si prepara a varare un ulteriore tranche di aiuti militari, del valore ancora di 800 milioni di dollari, alzando la posta.
Tutto ciò impone un grosso sacrificio anche a una grande potenza come gli Stati Uniti. E infatti il Washington Center for Strategic and International Studies, ha già segnalato che gli USA hanno esaurito, dandole agli ucraini, un terzo delle loro scorte di missili anticarro Javelin e un quarto di quelle di antiaerei Stinger, tanto che si pronosticano “da 3 a 5 anni” per ricostituirle.
Così il Pentagono ha mobilitato tutto il complesso militar-industriale della superpotenza, convocando i rappresentanti degli otto maggiori produttori americani di armi, fra cui Boeing, Lockheed Martin e Raytheon. La vice ministra della Difesa Kathleen Hicks, ha in pratica spronato i colossi Usa degli armamenti ad ampliare la capacità produttiva per far fronte alle necessità ucraine ipotizzando ancora vari mesi di guerra e anche un periodo di sicurezza stimato fino a un massimo di 4 anni, anche nel caso che il conflitto si risolvesse quest’anno.
Le aziende dovranno inoltre “elaborare una strategia per rifornire le riserve di quei partner della NATO che hanno ceduto parte dei loro armamenti a Kiev, nonché pensare anche a come rimpinguare i magazzini delle stesse forze armate americane, il tutto tenendo conto “della crisi della catena degli approvvigionamenti e della carenza di forza lavoro”.
Una sfida non facile, ma se gli Stati Uniti intendono raccoglierla è evidentemente perchè considerano come priorità strategica impegnare la Russia sui campi di battaglia ucraini a tempo prolungato.
Peraltro, l’addestramento di militari ucraini all’uso dei nuovi sistemi americani avverrà, come ha detto il portavoce della Difesa statunitense, John Kirby, “fuori dal territorio ucraino, in un paese vicino”, che potrebbe essere probabilmente la Polonia, principale crocevia per l’ingresso degli equipaggiamenti.
La Gran Bretagna, dal canto suo, dopo aver annunciato nei giorni scorsi l’invio di non precisati “missili antinave”, invierà in Ucraina cingolati lanciamissili Stormer, in grado di lanciare missili antiaerei Starstreak (nella foto sopra), che possono abbattere velivoli in un raggio di 7 chilometri e fino a una quota di 5,000 metri. La fornitura è stata preannunciata dal giornale The Sun, che ha citato come fonte il ministero della Difesa britannico. I primi Stormer dovrebbero arrivare in Ucraina a giorni trasportati con velivoli C-17, i quali presumibilmente dovrebbero atterrare in Polonia, o comunque in un paese limitrofo per non invadere lo spazio aereo ucraino col rischio di essere abbattuti dall’aviazione russa.
Quanto alla Germania, è probabile che nel corso del vertice del 19 con Biden, abbia subito rimproveri per la freddezza che era calata nei giorni scorsi fra Berlino e Kiev. Il 13 aprile, infatti, Zelensky aveva rifiutato al collega tedesco Frank-Walter Steinmeier, che da ex-ministro degli Esteri della cancelliera Angela Merkel era stato “colpevole” di aver intrecciato rapporti economici sempre più stretti fra Germania e Russia, il permesso di recarsi a Kiev. Zelensky non aveva chiuso le porte in faccia al cancelliere Olaf Scholz solo perchè “può prendere decisioni pratiche sull’invio di armi”.
Ma Scholz aveva reagito di stizza: “Ciò è irritante”. Il 20 aprile il vicecapo di Stato maggiore della Difesa tedesco, il generale di corpo d’armata Markus Laubenthal, ha respinto la fornitura di armi pesanti da parte della Germania evidenziando che tali armamenti sono necessari a “far funzionare” le Forze armate tedesche. In particolare, i mezzi da combattimento per fanteria Marder, chiesti da Kiev, servono per “vari adempimenti”, anche in sede Nato.
Non era il primo caso di spaccatura fra il presidente ucraino e alcuni governi occidentali, come la Francia. Nella lontana America, al presidente Joe Biden non era costato nulla parlare di “genocidio degli ucraini”. Se Kiev plaudiva all’appiglio morale per farsi mandare armi su armi, il presidente francese Emmanuel Macron si era invece dissociato da Biden: “Non sono sicuro che l’escalation delle parole serva a ricostruire la pace”.
La prudenza di Macron era stata attaccata dagli ucraini, il cui portavoce Oleg Nikolenko ha parlato di “delusione per la riluttanza del presidente francese a riconoscere il genocidio”. Così, il governo ucraino è riuscito a litigare con due capisaldi dell’Unione Europea, Francia e Germania, le quali sanno che i loro interessi geopolitici non collimano al 100% con quelli americani.
Ciò nonostante, Scholz si è fatto convincere a mobilitare risorse tedesche da spendere in armi, proprie e, in teoria, per l’Ucraina. Si tratta di 2 miliardi di euro in spese militari, dei quali, secondo il settimanale “Der Spiegel”, circa 400 milioni andranno allo Strumento europeo per la pace (EPF), con cui l’UE acquista armi da inviare all’Ucraina.
Altri fondi andranno alle Forze armate tedesche (Bundeswehr), nonchè alle forniture di armi dirette ancora all’Ucraina. Kiev dovrebbe dunque totalizzare nei prossimi mesi almeno 1 miliardo di euro in armi dalla Germania.
Inoltre, il portavoce del Pentagono John Kirby ha detto la sera del 19 aprile che “l’Ucraina ha ricevuto aerei da caccia e pezzi di ricambio da alcuni paesi, ma non dagli Stati Uniti”.
Non ha fornito altri dettagli, ma è probabile che, almeno in parte, si tratti di Mig-29 che aveva messo a disposizione la Polonia, proponendo di inviarli alla base americana di Ramstein, in Germania, da cui poi gli americani si sarebbero occupati del trasporto in Ucraina.
Oggi però il comando dell’Aeronautica Ucraina ha reso noto con un comunicato sul canale Telegram che le Forze armate ucraine non hanno ricevuto nuovi aerei da combattimento dagli alleati ma soltanto pezzi di ricambio e componenti per la riparazione dei propri velivoli.
Ma Kirby è stato volutamente enigmatico. Dal Canada, il premier Justin Trudeau ha promesso “agli ucraini che combattono per i nostri valori democratici”, artiglieria pesante, nel quadro di aiuti militari canadesi per un valore di 400 milioni di dollari.
La Norvegia ha donato agli ucraini 100 missili antiaerei Mistral impiegato su cacciamone e pattugliatori della Marina Norvegese la cui sostituzione è già stata pianificata, come ha affermato il ministro della Difesa Bjorn Arild Gram. Il governo di Oslo ha precedentemente deciso di donare un totale di 4 mila missili anticarro e diversi tipi di dispositivi di protezione e altri equipaggiamenti militari.
Verso una guerra prolungata
Ora, è chiaro che tutti questi investimenti in armi per l’Ucraina saranno sensati solo se è fattibile la prospettiva di una vittoria di Kiev nel conflitto, il che pare improbabile sul lungo periodo per la mole enormemente superiore della Russia. Se le armi occidentali servono solo a imbaldanzire l’Ucraina perchè prolunghi una resistenza che, nelle intenzioni di Washington dovrà essere la più dannosa e sanguinosa possibile per i russi, senza riguardo per i danni ulteriori che si aggiungeranno al paese e alla sua popolazione, si potrà ben dire che l’Ucraina sia in sostanza “usata” dalla NATO e soprattutto dagli Stati Uniti in funzione antirussa.
Oltretutto, se le prospettive di una vittoria ucraina non sono rosee, in caso di lotta prolungata, si accentua quella sensazione di sperpero di ingenti somme di denaro in un Occidente (Italia compresa) in grave crisi economica e che solo ora tentava di riprendersi dalla crisi dovuta alla pandemia Covid.
In effetti il Fondo Monetario Internazionale ha calcolato che “la guerra rallenterà in maniera notevole la ripresa, frenando la crescita e portando a un ulteriore aumento dell’inflazione”, tanto che “gli effetti economici del conflitto si stanno diffondendo in ogni direzione, come le onde sismiche che partono dall’epicentro di un terremoto”.
L’FMI stima poi una catastrofe per la Russia e l’Ucraina, la prima condizionata dalle spese militari e dalle sanzioni, la seconda dalle distruzioni sul territorio, vedranno il loro PIL crollare nel 2022 dell’8,5% per Mosca e addirittura del 35% per Kiev.
I russi stessi, non stanno certo ad aspettare che le armi occidentali vengano utilizzate in prima linea, ma spesso le distruggono prima, bombardando i centri logistici.
Peraltro, il 13 aprile il viceministro degli esteri russo, Sergei Ryabkov, ha ammonito che “la Russia considererà veicoli statunitensi e NATO che trasportano armi in territorio ucraino come bersagli militari legittimi”.
Per ora viene colpita solo la logistica ucraina. Il 16 aprile il portavoce del Ministero della Difesa russo, il loquace generale Igor Konashenkov, ha comunicato la distruzione di un aereo da trasporto ucraino che portava a destinazione un carico di armi occidentali: “I sistemi di difesa aerea russi nella regione di Odessa hanno abbattuto un aereo da trasporto militare ucraino in volo, che trasportava un grande lotto di armi fornite all’Ucraina dai Paesi occidentali”.
Poi, il 18 aprile, ancora Konashenkov annunciava che “missili aerotrasportati ad alta precisione delle forze aerospaziali russe hanno attaccato il 124° Centro Logistico Congiunto delle forze ucraine vicino a Leopoli”.
Secondo Mosca: “Il centro logistico e le grandi spedizioni di armi straniere che sono state consegnate all’Ucraina dagli Stati Uniti e dai paesi europei negli ultimi sei giorni sono stati distrutti”.
E’ stato distrutto anche un grande deposito di munizioni vicino al villaggio di Vasylkiv, nella regione di Kiev. Nella sola notte fra 18 e 19 aprile, inoltre, l’aviazione russa ha annunciato di aver colpito “60 strutture militari dell’Ucraina” fra cui “due depositi di stoccaggio per testate di missili tattici Tochka-U nelle aree di Chervonaya Polyana e Balakleya”, oltre a “tre posti di comando delle truppe ucraine e 53 aree di concentrazione di equipaggiamenti e personale militare”.
Come si vede, quindi, la partita fra il ritmo di arrivo delle armi straniere e il ritmo di distruzione delle stesse con incursioni strategiche è ancora aperta. Del resto, nella nottata fra il 19 e il 20 aprile, il vice rappresentante permanente russo alle Nazioni Unite, Dmitry Polyansky, durante una sessione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha fatto notare con sarcasmo che “i membri della NATO dell’Europa centrale sembrano soddisfatti. Non devono più pensare a come sbarazzarsi delle armi dell’era sovietica. Sebbene promettano di consegnare all’Ucraina armi nuove di zecca spediscono attrezzature che non sparano o non si muovono, sapendo che le forze russe le triteranno e così si tolgono il problema dello smaltimento”.
L’affondamento dell’incrociatore Moskva
L’attesa offensiva russa nel Donbass, che sembra aver preso il via belle ultime ore, si manifesta poco dopo lo smacco subito dai russi, il 14 aprile, con l’affondamento dell’incrociatore lanciamissili Moskva, che secondo gli ucraini è stato colpito da missili antinave Neptune di fabbricazione ucraina. I russi sostengono tuttora che “la causa è stata un incendio a bordo nel deposito munizioni”.
Per gli ucraini, invece, i missili Neptune avrebbero superato le difese antimissile dello scafo, 6 torrette di cannoni a tiro ultrarapido AK-630 da 30 mm, con cadenza di 5.000 colpi al minuto asserviti al radar, secondo la metodologia CIWS (Close-In-Weapon-System) per l’ingaggio ravvicinato di bersagli veloci. La nave è colata a picco mentre, ormai sbandata, veniva rimorchiata verso Sebastopoli.
Che l’attacco ucraino sia tutto farina del sacco di Kiev o sia stato favorito da assistenza di navi e droni NATO, o da eventuale sabotaggio a bordo, non si può appurare. Teoricamente appare inspiegabile che missili Neptune (nell’immagine sotto), che sono subsonici, dunque non particolarmente veloci, abbiano superato lo sbarramento dei sistemi CIWS.
Secondo l’esperto Chris Owen, gli ucraini avrebbero usato un drone Bayraktar TB-2 per “distrarre” i radar della nave, in modo da poter colpire al fianco l’incrociatore. Pare però una ricostruzione dubbia, poiché la nave disponeva di più radar, ognuno dei quali poteva presumibilmente seguire più di un bersaglio per volta. Forse, più che semplicemente “distrarre i radar” con la mera presenza, droni di altro tipo, ucraini o eventualmente anglo-americani, avrebbero potuto più probabilmente attuare contromisure elettroniche per confondere i sistemi antiaerei.
Da Mosca, l’ex-consigliere politico di Putin, Sergei Markov, ha azzardato, intervistato dalla BBC, che l’incrociatore Moskva sia stato colpito da missili della NATO, “trasferiti in Ucraina da gennaio”, senza specificare alcun dettaglio ulteriore.
Il 16 aprile il comandante della Marina Russa, ammiraglio Nikolay Evmenov (nella foto a lato), ha incontrato nel porto di Sebastopoli l’equipaggio del Moskva, secondo quanto riferito dall’agenzia Interfax. Non è chiaro quanti membri dei 510 che componevano l’equipaggio siamo rimasti uccisi o feriti.
Per l’agenzia ADN Kronos, l’ammiraglio italiano Giuseppe De Giorgi (capo di stato maggiore della Marina dal 2013 al 2016), ha commentato: “La Russia rinforzerà la flotta del Mar Nero. Ciò sarebbe possibile nonostante la Turchia abbia bloccato il transito dei Dardanelli alle navi militari dei Paesi in guerra, in ottemperanza al trattato di Montreux, tramite una clausola che consente alle navi militari di uno stato che si affaccia sul Mar Nero di raggiungere la propria base”. L’aviazione russa ha comunque già reagito bombardando il 15 aprile la fabbrica di missili Vizar, che sforna i Neptune, situata a Vyshneve, un sobborgo di Kiev.
Il 19 aprile il Comando operativo sud delle Forze armate ucraine sulla propria pagina Facebook ha reso noto che il gruppo navale russo si è allontanato dalle coste di fronte a Odessa a quasi 200 chilometri di distanza.
La “Fase 2” dell’offensiva russa
Intervistato il 19 aprile da India Today, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha confermato che in quel giorno è ufficialmente iniziata la “Fase 2 dell’operazione militare speciale”, che mira “alla completa liberazione delle repubbliche di Donetsk e Luhansk”.
Lavrov, che non a caso ha parlato di fronte a uno dei maggiori mass media indiani, sia per ribadire che l’India, la democrazia più popolosa del mondo, è al fianco della Russia non meno che la Cina e un’altra metà, grossomodo, dei paesi del pianeta, ha inoltre assicurato che “la Russia non userà armi nucleari, ma solo convenzionali”.
E così in quelle ore l’esercito russo ha iniziato ad attaccare, con oltre 100.000 soldati lungo un fronte di 480 chilometri. Nel Sudovest, sul fronte da Kherson a Mykolaiv, la pressione russa si era intensificata già il 17 aprile con consistenti bombardamenti, probabilmente allo scopo di premere verso Odessa per distrarre notevoli forze ucraine a sua difesa.
Due giorni dopo i russi annunciavano di aver distrutto a Mykolaiv un’officina di manutenzione di veicoli militari mentre il ritiro delle navi russe nel Mar Nero a 200 chilometri dalla costa, se confermato, sembrerebbe allontanare il pericolo per Odessa, sebbene essa resti sempre nel raggio d’azione dei missili da crociera più prestanti, come il Kalibr.
La vera partita è però più a Est dove il 18 aprile i russi hanno preso Kremnina, circa 30 chilometri a nordest di Kramatorsk, come confermato anche dal governatore ucraino della regione di Luhansk, Sergei Haidai anche se per il capo dell’amministrazione militare locale, Oleksandr Dunets, “i combattimenti continuano in periferia”. Ora la prossima puntata russa sarà su Kramatorsk, già pesantemente bombardata con missili, per tentare di sfondare le linee.
I russi sarebbero però ancora esposti più a Sud, dalla persistenza di un movimento partigiano nel retroterra di Melitopol e dalla possibilità che unità ucraine tentino di puntare su Berdyansk, riguadagnando, anche solo simbolicamente, un punto della costa del Mar d’Azov e vanificando gli immensi sforzi per spezzare le ultime resistenze a Mariupol.
Come vedremo, Mariupol è ancora importante perchè distrae circa 10.000 soldati russi e filorussi i quali, finchè impegnati contro le ultime sacche di resistenza, non possono convergere a Nord per gettarsi nella mischia della grande battaglia per il Donbass, dove le milizie filorusse delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk vengono equipaggiate con mezzi e armi di preda bellica, cioè catturati alle truppe di Kiev e, quando necessario, rimessi in sesto da officine mobili dell’Esercito Russo (nella foto sotto).
Fra 18 e 19 aprile l’esercito russo ha bombardato anche il distretto di Kryvyi Rih nella regione di Dnipropetrovsk, secondo il capo dell’amministrazione militare Oleksandr Vilkul: “Hanno sparato con lanciagranate e razzi d’artiglieria contro gli insediamenti di Zelenodolsk, Maryanske, Velyka Kostromka, vicino al confine amministrativo tra le regioni di Dnipropetrovsk e Zaporizhia”.
Valutazioni non disinteressate
Il Washington Post citando fonti del Pentagono e l’analista Mick Ryan, generale australiano a riposo, scriveva il 19 aprile: “Le prossime 48 ore ci aiuteranno a capire: se le forze di Mosca otterranno una significativa svolta sarà un segnale di maggiore competenza. Se non sarà così vorrà dire che i russi non hanno imparato dagli errori e gli ucraini sono bravi come pensiamo che siano”.
I russi “stanno dispiegando artiglieria pesante, comandanti e controllori, l’aviazione, in particolare il sostegno con gli elicotteri… sembra che stiano imparando la lezione” della fallita offensiva verso Kiev, quando non avevano capacità di rifornimento, nota un alto funzionario del Pentagono.
Tuttavia, grazie alle sanzioni, i russi hanno ancora problemi per la riparazione e la sostituzione dei mezzi, specie per i pezzi di ricambio, nota il funzionario. Gli analisti militari sottolineano anche come l’esercito russo abbia un problema “culturale” con un comando super centralizzato che non permette alle truppe sul terreno di prendere decisioni importanti. “Possono aver più artiglieria e una migliore logistica” ma servirà più tempo per aggiustare la cultura di comando”, nota Ryan.
Il Pentagono stima che la Russia abbia inviato al fronte 11 nuovi battaglioni, arrivando a un totale di 76, concentrati a Est e a Sud: “Se la Russia riuscirà a prendere Mariupol, ciò permetterà di utilizzare su altri fronti una dozzina di battaglioni tattici. Per ora feroci combattimenti sono in corso a Popasna, una città sotto controllo ucraino prima dell’invasione, situata fra le autoproclamate repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk. I soldati russi intendono muovere dalla città di Izyum, con l’obiettivo di cacciare i soldati ucraini dai centri abitati di Popasna e Slovyansk, circa 200 km a nord di Mariupol”.
In tutto questo, pochi giorni fa si è segnalata una sorta di “purga” nell’intelligence russa, almeno stando a quanto scrive il Times britannico. Pare che Putin, arrabbiato per gli sbagli nel fornire informazioni sulla reale forza dell’Ucraina, abbia licenziato circa 150 agenti dell’FSB, il servizio di sicurezza erede del KGB.
Gli agenti erano membri di una speciale divisione, il cosiddetto Quinto Servizio, che era stato costituito nel 1998 dall’allora giovane Putin quando era direttore dell’FSB, allo scopo di operare nei paesi dell’ex-Unione Sovietica per mantenervi intatta l’influenza della Russia.
Inoltre, l’ex-capo del Quinto Servizio, Sergei Beseda, sarebbe stato imprigionato nel carcere di Lefortovo. La fonte primaria da cui ha attinto il Times è Christo Grozev, direttore del sito investigativo Bellingcat, il quale a sua volta non ha rivelato la sua fonte.
Quanto a intelligence è curioso ricordare come il servizio informazioni del ministero della Difesa ucraino abbia ripetuto un allarme già lanciato nei primi giorni della guerra, sostenendo di nuovo che si sarebbe fermata la produzione di carri armati nella maggiore fabbrica di corazzati della Russia, la celebre Uralvagonzavod di Nizhni Tagil, presso gli Urali.
Secondo gli ucraini, la produzione dei carri da battaglia russi si sarebbe arrestata per la carenza di fondi e di pezzi di ricambio dovuta alle sanzioni e inoltre: “La Russia in realtà è incapace di produrre armi innovative senza la componentistica straniera. Si tratta per lo più dei carri T-72, ma anche di quelli moderni come T-90 e T-14”. Sembrano però, al momento, voci prive di fondamento dati i grandi sforzi compiuti negli ultimi anni dall’industria militare russa, in genere, per rendersi autarchica rispetto all’estero.
Battaglia finale a Mariupol
Negli ultimi giorni la residua resistenza ucraina a Mariupol si è sempre più ridotta e dagli almeno 3.500 uomini stimati ancora attivi contro le forze di Mosca ai primi di aprile 2022, si sarebbe scesi ormai a 1.500 o anche meno, asserragliati soprattutto nell’enorme complesso delle acciaierie Azovstal e in piccoli scampoli del porto, ma forse anche in alcune aree del quartiere Primorskye.
Le due formazioni principali sono la 36a Brigata della Fanteria di Marina ucraina, in pratica i “marines” di Kiev, equipaggiati anche con autoblindo BTR-80 di cui non si sa quante ancora funzionanti, e il noto “battaglione” Azov, d’ispirazione neonazista, che a dispetto del suo nome originario è da tempo assurto al rango di reggimento strutturato su due battaglioni di fanteria e un battaglione corazzato con carri armati T-64.
Il 12 aprile le fonti ucraine hanno parlato di una “operazione speciale” tramite la quale una parte della 36a Brigata avrebbe rotto l’accerchiamento riuscendo a congiungersi con il reggimento Azov, rinforzandone quindi la sacca, ma la situazione resta disperata. Infatti la stessa 36a Brigata ha reso noto in quelle ore su Facebook: “Le nostre munizioni stanno finendo. Sarà la morte per alcuni e la prigionia per altri. Stiamo scomparendo e non sappiamo cosa accadrà, ma vi chiediamo di ricordarci con una parola gentile. Per 47 giorni abbiamo combattuto senza rifornimenti di munizioni, senza cibo, senza acqua, facendo il possibile e l’impossibile. Il nemico ci ha circondato e ora cerca di distruggerci”.
E’ interessante come i “marines” ucraini abbiano espressamente criticato i loro stessi vertici politico-militari, accusando Kiev di non averli aiutati abbastanza, se non a parole: “Ci sono state solo promesse non mantenute e nessuno vuol più comunicare con noi perchè siamo tagliati fuori”.
Il comandante in capo delle forze armate ucraine, generale Valery Zaluzhny, ha negato che i difensori di Mariupol siano stati abbandonati, limitandosi a dire: “Il collegamento con le unità che presiedono eroicamente Mariupol è stabile”. In realtà è noto come non esista alcuna possibilità pratica per il grosso delle truppe ucraine di soccorrere l’ultimo baluardo nella città costiera.
Una testimonianza molto interessante sulla situazione a Mariupol attorno a metà aprile, è quella di un italiano residente da anni a Donetsk, diffusa su Telegram, e raccolta da media come l’agenzia di stampa ADN Kronos.
Si tratta del reporter Vittorio Rangeloni, originario di Lecco, che da anni vive nel Donbass. “L’80-90% di Mariupol, il cuore della città e la maggior parte dei quartieri, sono sotto stretto controllo dell’esercito russo e delle milizie popolari. Le ultime sacche della resistenza ucraina si concentrano nell’Azovstal, l’acciaieria più grande d’Europa a ridosso del porto, e nella zona vicina allo stadio a 200-300 metri dall’ospedale pediatrico numero 3, quello bombardato a metà marzo”. Rangeloni è stato uno dei primi a ricordare come l’area della Azovstal costituisca una sorta di fortezza urbana che per la sua conformazione può moltiplicare la forza di pochi difensori, essendo anzitutto l’impianto siderurgico più grande d’Europa il cui complesso copre una superficie totale, compresi i vasti scali ferroviari, ampia oltre 11 km quadrati.
Una città nella città, insomma, che cela nelle sue viscere un dedalo di gallerie che offrono rifugio contro bombardamenti e cannoneggiamenti, ma anche numerose vie alternative che consentono ai militi ucraini di spostarsi rapidamente da una casamatta all’altra, cambiando continuamente posizione di tiro ed evitando di soffermarsi in postazioni vulnerabili. Inoltre le aree ferroviarie attorno al complesso rendono difficile alle fanterie russe e filorusse avvicinarsi senza farsi avvistare da lontano.
Narra Rangeloni: “L’acciaieria presenta una fitta rete di tunnel sotterranei di epoca sovietica costruiti per far fronte a eventuali attacchi con bombe atomiche che rendono difficile l’operazione di bonifica da parte dell’esercito russo. L’area della fabbrica è molto grande, c’è anche una stazione ferroviaria. Alcuni militari russi sono riusciti a entrare, ma si parla di ostaggi tra i civili e tra i marinai di diverse imbarcazioni che si trovavano nel porto di Mariupol. Si dice che la resistenza più forte si concentri proprio a ridosso di questo impianto perché potrebbero esserci istruttori NATO tra i militari ucraini”. La presenza di elementi occidentali fra gli ultimi difensori di Mariupol, come vedremo, è stata poi accreditata da varie fonti.
Rangeloni aggiunge inoltre dettagli interessanti. “Sono anche stati trovati due camion della Croce Rossa internazionale che si diceva fossero stati catturati da russi e invece si trovano nella struttura controllata dal reggimento Azov.
Alcuni militari ucraini cercano di forzare il fronte a bordo di carri armati e veicoli militari, sui quali viene disegnata la ‘Z’ per confonderli con quelli russi. Altri con abiti civili, molti quelli vengono scoperti ai posti di blocco. In questi ultimi tre giorni (si riferisce al lasso dal 10 al 12 aprile, n.d.r.), ogni giorno un centinaio di militari ucraini depongono le armi. Quattro giorni fa 273 fanti della 36° Brigata si sono consegnati in un’unica tranche”.
Per quanto riguarda poi l’aspetto delle perdite civili, aggiunge: “Ci sono cadaveri di civili per le strade, ho visto fosse comuni nei giardini e nelle aiuole. Ma a Mariupol la situazione non è come quella ritratta a Bucha.
I cadaveri di civili che si vedono per le strade non sono tutti di persone morte per i bombardamenti. Piuttosto sono morti di infarto, fonte primaria dei decessi in età avanzata, per la totale assenza di cure mediche. E sono stati portati fuori dalle case per essere sepolti. Ci sono morti causate dall’incoscienza. Forse sembrerò cinico, ma credo che le persone abbiano abbassato la guardia rispetto ai bombardamenti e si spingano un po’ troppo a cercare cibo e acqua con poca cautela. Ho visto con i miei occhi civili in bicicletta sfilare davanti a carri armati pronti al combattimento.
Questi atteggiamenti portano a un aggiornamento costante delle vittime. Posso smentire che la città di Mariupol sia completamente distrutta. Non è così, ci sono quartieri che sono stati solamente sfiorati dai bombardamenti. Palazzi rimasti in piedi, ai quali magari manca solo un balcone e dove la popolazione continua a vivere. Non è vero che tutti gli edifici sono stati colpiti dalla guerra, alcuni quartieri sono stati solo sfiorati di striscio, centinaia di palazzine hanno solo qualche balcone colpito”.
Vietato arrendersi
Nei giorni di lunedì 18 e martedì 19 aprile il complesso Azovstal ha subito nuovi pesanti bombardamenti russi, mentre il comandante filorusso Eduard Basurin, vice capo del dipartimento della milizia popolare della Repubblica Popolare del Donetsk, dichiarava che “è stato trovato ucciso il comandante della 36a Brigata ucraina, Volodymyr Baranyuk”.
Gli ultimi resistenti, forse un migliaio o poco più non danno ancora segno di voler deporre le armi, nonostante gli appelli dei giorni precedenti. E nel pomeriggio del 19 il vice comandante del battaglione Azov, Sviatoslav Palamar, è riuscito a testimoniare a Radio Svoboda: “Lo stabilimento dell’acciaieria Azovstal è praticamente distrutto. Sull’acciaieria sganciano delle pesanti bombe e sotto le macerie ci sono tante persone”.
E’ stata di certo appurata la presenza di civili insieme ai militari nei bunker del colossale stabilimento. Lunedì, infatti, il capo della polizia di Mariupol, Mykhailo Vershinin ha dichiarato che “centinaia di civili” si sono rifugiati nell’acciaieria. Secondo lui “questi civili non si fidano dei russi, hanno visto cosa sta succedendo in città ed è per questo che hanno deciso di restare all’interno dell’acciaieria”.
Lo stesso comandante del reggimento Azov, Denis Prokopenko, comunicava su Telegram: “In questo momento, a Mariupol, centinaia di civili si stanno rifugiando presso l’acciaieria Azovstal. Tra loro ci sono persone di tutte le età, donne, bambini, famiglie di difensori di Mariupol, che hanno trovato qui l’unico rifugio disponibile accanto ai soldati ucraini, che stanno ancora difendendo la città dagli invasori. I russi utilizzano bombe aeree e tutti i tipi di artiglieria, sia terrestre che navale, per attacchi indiscriminati”. Il 19 aprile la quantità di civili rifugiati nella Azovstal veniva stimata in circa mille persone.
E perciò nella mattinata di martedì è stato diffuso un nuovo ultimatum del Ministero della Difesa di Mosca, che invitava i civili a uscire dall’acciaieria, e i militari a cessare la resistenza: “A tutti coloro che depongono le armi sarà garantita la vita se uscirete tra le 14.00 e le 16.00 ora di Mosca (in Italia fra le 13.00 e le 15.00, n.d.r.) senza eccezioni, senza armi e senza munizioni”. Sempre nella giornata del 19 aprile “oltre 120 civili”, come dichiarato dai russi e come confermato da immagini eloquenti, hanno in effetti approfittato della momentanea tregua per lasciare l’acciaieria e subito dopo sarebbero ripresi i bombardamenti.
E’ certo curioso che anziani, donne e bambini scelgano di loro iniziativa di andare a ficcarsi in una sicura trappola, cioè l’ultimo consistente calderone di combattimenti tuttora in atto nella città portuale.
Ricorderemo come pochi giorni fa Rangeloni avesse evocato dicerie su presunti “ostaggi civili” catturati dai militi dell’Azov. Ovviamente non si può dire con certezza se una parte di questi civili siano davvero ostaggi, oppure se in realtà siano tutti, o in maggioranza, parenti dei difensori. Il fatto che Prokopenko abbia chiesto “l’istituzione di un corridoio verde” per evacuarli e la successiva uscita di circa 120 di essi sembrerebbero smentire l’ipotesi ostaggi, ma restano dubbi e incertezze sulla vicenda e non si sa nemmeno quanti altri possano essere presenti nei bunker.
E’ da giorni, comunque, che i russi intimano più volte la resa a ciò che resta delle forze ucraine che continuano a resistere, anche perchè il presidente Zelensky ha in pratica proibito loro di alzare bandiera bianca.
Da Kiev si considera questo episodio come un corrispettivo moderno delle Termopili, utile politicamente e sul piano della propaganda come esempio di eroismo e per spronare gli alleati occidentali a inviare ancora più armi. Oltre al fatto di tenere impegnate consistenti forze russe e filorusse in città. “La distruzione delle nostre forze nella città costiera metterà fine ai negoziati con la Russia”, ha detto Zelensky fin dal 16 aprile.
“Se i nostri uomini dovessero alzare bandiera bianca potrebbero essere vittime della ritorsione dei russi ed essere uccisi. Non scambiamo i nostri territori e la nostra gente”. Incurante della sorte dei propri militari, e forse dei civili eventualmente presenti con essi nei bunker del complesso siderurgico, il governo ucraino vuole farne un mito, pensando probabilmente a un parallelo con l’antica guerra fra i Greci e i Persiani, quando nel 480 avanti Cristo il re spartano Leonida si sacrificò con 300 guerrieri al passo delle Termopili per ritardare il più possibile l’avanzata persiana.
Negando la possibilità di una resa, il presidente ucraino ha così rigettato una pur velata richiesta in tal senso che pareva essergli giunta il giorno prima dal maggiore Serhy Volyna della 36a Brigata, intervistato dalla Ukrainska Pravda: “Sbloccate Mariupol il prima possibile, militarmente o politicamente perchè sono in corso feroci combattimenti e i russi avanzano in modo aggressivo. La situazione è critica, non abbiamo intenzione di arrenderci, ma la situazione sta precipitando”.
Molti difensori, tuttavia, hanno già deposto le armi. Il 13 aprile il generale russo Konashenkov annunciava che nelle ore precedenti si erano arresi “1.026 elementi della 36a Brigata, fra i quali 162 ufficiali”.
Pare molti di essi appartenessero a un distaccamento che occupava un’altra acciaieria della città, assai più piccola della Azovstal, l’impianto Ilyich. I russi hanno dichiarato anche la zona del porto commerciale “completamente liberata dai membri del battaglione Azov, di cui erano stati liberati marinai stranieri presi in ostaggio sulle navi ormeggiate”.
Il 16 aprile, ancora la Difesa russa dava per “ripulita l’intera area urbana di Mariupol”, esclusa la Azovstal. “La loro unica possibilità di salvare le loro vite – incalzava Konashenkov – è quella di deporre volontariamente le armi e arrendersi”. Secondo i russi, fino a quel momento si erano arresi a Mariupol 1.464 militari ucraini, mentre il totale delle perdite ucraine nella città era valutato sui 4.000 uomini.
Il 15 aprile il generale russo Mikhail Mizintsev, capo del Centro di gestione della difesa nazionale e considerato il responsabile delle operazioni a Mariupol, ha invitato una volta di più i difensori ad arrendersi: “Tutti coloro che deporranno le armi avranno salva la vita”.
Lo stesso giorno, per la prima volta, l’aviazione russa impiegava anche bombardieri pesanti Tupolev Tu-95, Tu-160 e Tu-22M3 per attaccare le ultime sacche con missili da crociera che gli aerei avrebbero sganciato mentre si trovavano in volo sopra la regione di Krasnodar, stando al portavoce del Ministero della Difesa ucraino, Oleksandr Motuzianyk.
Riguardo ai bombardamenti, nella mattinata del 19 aprile il servizio d’informazione ucraino SBU ha anticipato l’uso sull’Azovstal di pesantissime bombe antibunker, citando come fonte l’intercettazione di una telefonata fra militari russi.
Secondo l’SBU: “Nonostante il numero superiore, gli occupanti russi vogliono radere al suolo l’acciaieria Azovstal, dove i nostri combattenti tengono la difesa. Gli occupanti trascurano il fatto che anche dei civili si nascondono nell’impianto. I russi stanno preparando bombe da tre tonnellate dal cielo”.
Si tratterebbe delle grosse bombe a caduta libera FAB-3000, 3mila chili di peso totale, di cui 1400 della sola carica esplosiva.
Ordigni di origine sovietica già utilizzati negli anni Ottanta in Afghanistan contro i mujhaeddin e in grado di penetrare nel sottosuolo grazie al massiccio involucro, per poi esplodere nei bunker.
Avrebbero un raggio letale di circa 46 metri dal punto dell’impatto e tipicamente verrebbero trasportate nella stiva dei Tupolev Tu-22M3, che evidentemente dovrebbero sorvolare Mariupol per sganciarle sulla verticale della Azovstal, dato che non si tratta di ordigni autopropulsi. Si è anche parlato dell’utilizzo di lanciarazzi campali TOS-1 con testate termobariche, per “ammorbidire” il coriaceo obbiettivo.
Dal 17 aprile, fonti dello Stato Maggiore ucraino hanno diffuso la voce secondo cui “i russi starebbero preparando un’operazione di paracadutisti” sull’Azovstal. Che i bombardamenti, aerei o con artiglierie, costituiscano il fuoco preliminare per un successivo colpo di mano dei reparti parà russi, inquadrati nella storica formazione VDV (Vozdushno Desantnye Voyska, alias Truppe Aviotrasportate) è possibile, sebbene non ci siano prove a riguardo.
Storicamente, si può dire che la discesa di truppe dal cielo può essere risolutiva quando sono in gioco fortificazioni ben munite in grado di infliggere gravi perdite ad attaccanti che avanzino da un campo aperto. Lo si vide per esempio nella Seconda Guerra Mondiale, quando, il 10 maggio 1940, i parà tedeschi (Fallschirmjaeger), attuando un piano concepito personalmente da Hitler, atterrarono con alianti direttamente sul tetto della fortezza belga di Eben Emael, piazzando cariche esplosive e sgominando così la guarnigione nemica.
Già il 17 aprile Konashenkov ribadiva l’ultimatum: “Al gruppo di forze ucraine, accerchiato e bloccato nell’acciaieria, è stato offerto di deporre volontariamente le armi e di arrendersi per salvare le loro vite, ma Kiev ha proibito al reggimento Azov di negoziare la resa. Se continuano a opporre resistenza, saranno tutti eliminati”.
E il capo della Repubblica popolare filorussa di Donetsk, Denis Pushilin, aggiungeva, parlando al canale Rossiya 24: “Quei membri dell’esercito regolare, come i marines che avete visto, che sono pronti ad arrendersi si sono arresi. Ma i membri dei battaglioni nazionalisti (Azov, n.d.r.), a quanto pare non hanno intenzione di arrendersi, ecco perché devono essere eliminati”.
Il ruolo delle milizie filorusse di Donetsk a Mariupol è molto importante dato che negli ultimi giorni, avanzando da Nord verso il porto, hanno occupato le caserme della 12a Brigata della Guardia Nazionale ucraina, oltre a una stazione di polizia. Per giunta, Pushilin ha aperto in città un ufficio del partito Edinaja Rossija (Russia Unita) di Putin, il che, secondo il consigliere del sindaco di Mariupol, Petro Andryushenko, “indica che si preparano a governare direttamente la città”.
Combattenti stranieri in prima linea
Proprio gli ultimi combattimenti a Mariupol sarebbero una delle “spie” della presenza di militari stranieri, soprattutto di paesi occidentali, nelle file ucraine, almeno a dar retta a quanto dichiarano i russi. Il che rende sempre più plausibile quello scenario, da noi paventato già nei mesi scorsi, della guerra in Ucraina come possibile corrispettivo moderno della guerra civile spagnola del 1936-1939, quando i due schieramenti, quello franchista e quello repubblicano, si avvalsero rispettivamente, il primo di contingenti italiani e tedeschi inviati da Mussolini e Hitler, il secondo di un contingente sovietico mandato da Stalin.
E così come la Spagna fu per molti aspetti “banco di prova” per la Seconda Guerra Mondiale, anche l’Ucraina, come abbiamo visto, è teatro dello scontro “indiretto” fra NATO e Russia.
Confermata la cattura di due britannici a Mariupol che combattevano nelle file ucraine, per la precisione nella 36a Brigata. Arresisi fra il 14 e il 16 aprile, Aiden Aslin e Shaun Pinner (nelle foto sotto) sono stati mostrati come trofei il 19 aprile dalle telecamere della tv Rossija 1, occasione in cui Pinner ha parlato a nome di entrambi chiedendo di essere liberati tramite scambio col politico ucraino filorusso Viktor Medvedchuk, agli arresti a Kiev da alcuni giorni perchè considerato un traditore da Zelensky.
A quanto si sa, Aslin, 28 anni, originario di Newark, nel Nottinghamshire, era già stato volontario in Siria per combattere contro l’Isis nel 2015, per poi spostarsi nel 2018 in Ucraina e lì arruolarsi col nome di battaglia “Johnny”. Già il 12 aprile aveva diramato via Twitter ai suoi parenti e amici la sua intenzione di arrendersi dato che aveva finito viveri e munizioni. Pinner, più maturo, è un ex-soldato di 48 anni del reggimento Royal Anglian, al che il Ministero degli Esteri britannico si è preso la briga di diramare esso stesso un commento dalla famiglia.
“E’ un uomo divertente, molto amato, ben intenzionato e considera l’Ucraina suo paese di adozione. E’ stato un soldato rispettato all’interno dell’esercito britannico in servizio nel Royal Anglian Regiment per molti anni. Ha prestato servizio in molte zone, tra cui l’Irlanda del Nord e con le Nazioni Unite in Bosnia. Nel 2018 Shaun ha deciso di trasferirsi in Ucraina per utilizzare la sua esperienza e il suo addestramento all’interno dell’esercito ucraino. Negli ultimi quattro anni Shaun ha apprezzato lo stile di vita ucraino e ha considerato l’Ucraina come il suo paese d’adozione. Durante questo periodo ha incontrato sua moglie, ucraina, che è molto concentrata sui bisogni umanitari del paese. E’ diventato un membro orgoglioso dei marines ucraini”.
La cattura dei due inglesi potrebbe essere la punta di un iceberg, dato che il ruolo di truppe occidentali, come i Berretti Verdi americani e forse le SAS britanniche era stato acclarato per quanto riguarda l’addestramento delle truppe di Kiev appena prima del conflitto.
Ma che molti militari o ex-militari occidentali siano rimasti nel territorio ucraino, come consiglieri o anche come truppe combattenti, pare plausibile. Certo, la valenza di “volontari” o “mercenari” che li qualifica tenderebbe a escludere che essi stiano combattendo nelle file ucraine su ordine dei propri governi, ma lo si diceva anche di molti “volontari” inviati in Spagna nel 1936 su ordini superiori e poi camuffati dietro false generalità.
Comunque, il 17 aprile Konashenkov ha dichiarato che “secondo i militari ucraini che si sono arresi, fino a 400 mercenari stranieri sono parte del gruppo ucraino sono ora circondati sul territorio dell’impresa Azovstal e la maggior parte di loro sono cittadini di paesi europei e canadesi”. Può darsi che la cifra di 400 militari stranieri nella sola acciaieria Azovstal sia esagerata dalla propaganda, ma la cattura dei due inglesi è un fatto confermato e rende fattibile che, pochi o tanti che siano, anche combattenti volontari provenienti da paesi NATO siano presenti nei bunker. Se poi allarghiamo lo sguardo alle altre zone dell’Ucraina, è possibile che gli stranieri arruolati con le truppe ucraina possano ammontare anche ad alcune migliaia.
Già il 15 aprile, del resto, il parlamentare russo Andrei Klimov, vice presidente della commissione per le relazioni internazionali del Senato, aveva detto all’agenzia di stampa RIA Novosti: “Abbiamo già prigionieri tra il personale militare dei Paesi Nato, mostreremo tutto questo quando condurremo i processi e il mondo intero vedrà cosa davvero è successo”.
Secondo Klimov i mercenari nell’esercito ucraino proverrebbero da Gran Bretagna e Stati Uniti, ma anche da Asia e Africa. Sempre Klimov ha chiosato: “L’operazione militare speciale russa terminerà molto presto, non la allungheremo deliberatamente. Non appena renderemo l’Ucraina sicura per la Russia, la fase militare si fermerà”.
Quasi a ribadire che, dipendesse dalla Russia, la guerra finirebbe al più presto, mentre è proprio il continuo rafforzamento esterno dell’Ucraina a protrarre lo spargimento di sangue. Lo stesso giorno, il Ministero della Difesa russo sosteneva che l’esercito di Mosca aveva bersagliato con missili tattici una vera e propria compagnia di ventura polacca operante sul fronte di Kharkiv, portando all’uccisione di ben 30 mercenari polacchi in un colpo solo.
Così la TASS: “Un attacco lanciato dalle forze missilistiche ha ucciso un’unità di mercenari di una compagnia militare privata polacca a Izyumske, nella regione di Kharkiv. Fino a 30 mercenari polacchi sono morti”.
Appena l’indomani, 16 aprile, una fonte britannica autorevole come il Times scriveva della presenza di militari di Londra in Ucraina, ufficialmente per scopi addestrativi, ma che, intuibilmente, potrebbero anche aver partecipato, o partecipare tuttora, alla lotta.
Stando al giornale inglese “le forze speciali britanniche sono in Ucraina ad addestrare i militari locali a Kiev e nei dintorni della capitale”. Fonti sarebbero i comandanti ucraini di due battaglioni addestratisi nei giorni precedenti con gli inglesi. Il capitano Yuriy Myronenko, acquartierato col suo reparto a Obolon, a Nord di Kiev, ha riferito che i militari britannici hanno insegnato a lui e ai suoi uomini l’impiego dei missili anticarro NLAW (Next generation Light Anti-tank Weapon), ordigni spalleggiabili sviluppati in collaborazione dalla svedese Bofors e dalla britannica Thales che sarebbero stati forniti all’Ucraina in numero di ben 3.600 già entro metà marzo, ai quali starebbe seguendo un nuovo pacchetto da ben 6.000 esemplari.
Il secondo comandante ucraino sentito dal Times, noto col soprannome “Skiff”, ha detto che il 112° Battaglione era stato addestrato dai britannici: “Erano bravi gli inglesi. Ci hanno invitato a far loro visita quando la guerra sarà finita”.
Il 17 aprile, il Ministero della Difesa russo ha quantificato il numero totale di “mercenari stranieri” arruolati dall’esercito ucraino in ben 6.824 uomini, provenienti da 63 nazioni diverse. “Il loro numero è in costante calo”, dice Mosca, secondo cui 1.035 sarebbero i mercenari/volontari direttamente eliminati in combattimento dai russi a partire dall’inizio della cosiddetta “operazione speciale” mentre 912 si sarebbero rifiutati di combattere in prima linea e avrebbero lasciato il paese: resterebbero quindi “4.877 mercenari stranieri attualmente (metà aprile, n.d.r.) in attività”.
Per la Difesa russa: “Il gruppo più numeroso è quello dalla Polonia con 1.717 persone. Sono arrivati circa 1.500 mercenari da Stati Uniti, Canada e Romania. Fino a 300 persone dalla Gran Bretagna e altrettante dalla Georgia. Sono invece 193 quelli provenienti dalle zone della Siria controllate dalla Turchia. La stragrande maggioranza dei mercenari è ora distribuita nelle città di Kiev, Kharkiv, Odessa, Nikolaev e Mariupol”.
Poco meno di 5.000 combattenti stranieri in servizio nelle forze armate ucraine (ma Koev aveva riferito prima di 12mila e poi di 20mila volontari stranieri) non sono un’enormità, ma non sono nemmeno pochi, potendo rappresentare circa un 2% del totale delle forze ucraine di prima linea.
Inoltre, nel caso in cui si tratti non di soldati semplici, bensì di ufficiali e sottufficiali con esperienza operativa negli eserciti di provenienza, specie in missioni internazionali degli scorsi anni, la loro importanza ne risulterebbe moltiplicata al di là del mero fattore numerico, data il contributo in addestramento, organizzazione e perfino comando in azione che possono portare agli ucraini.
Il 19 aprile il governo della Romania ha negato decisamente la presenza in Ucraina di suoi cittadini in armi. E’ stato il ministro della Difesa rumeno, Vasile Dincu, a dire alla tivù Digi 24 che si tratta di “propaganda, una falsa informazione. Possiamo verificare quanti romeni hanno attraversato il confine con l’Ucraina. Non possiamo verificare se ci sono cittadini stranieri in Russia o Ucraina. Non possiamo sapere chi è arrivato lì e per quale scopo. Conosciamo il flusso verso l’Ucraina e non ci sono persone che si sono recate in Ucraina durante questo periodo, abbiamo statistiche accurate. Sono informazioni per l’opinione pubblica non specializzata. Vogliono dimostrare di avere dati molto accurati. E’ un tentativo di dimostrare che è presente una coalizione mondiale contro la Russia ed è per questo che in Ucraina non stanno riuscendo a ottenere risultati”.
E’ abbastanza ovvio che i governi stranieri tendano a negare la presenza di propri cittadini schierati a combattere in Ucraina contro la Russia, dato che già il crescente flusso di armi per Kiev costituisce un potenziale casus belli col Cremlino.
A gettare benzina sul fuoco ha provveduto il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione russa Dmitry Medvedev che a una riunione del Presidium del Consiglio per la scienza e l’istruzione, ripreso dalla TASS, ha parlato del rischio concreto di un’aggressione della NATO alla Russia.
“Stiamo parlando principalmente di un tentativo di espandere la presenza della Nato vicino ai nostri confini. E questa non è più una figura retorica oggi, questo non è un insieme di minacce standard. Dobbiamo essere preparati per quelle azioni aggressive che potrebbero accadere. E’ importante costruire un sistema che permetta di fornire al Paese le armi più moderne. Ciò richiede attrezzature affidabili, ad alta tecnologia e potenti, sia militari che a duplice uso”.
Foto: Ministero della Difesa Russo, Ministero della Difesa Ucraino, Twitter, Ministero Difesa Britannico e US DoD