La corsa all’Artico (navigabile): conseguenze geopolitiche e strategiche
di Bruno Santorio -Centro Studi di Geopolitica e Strategia Marittima (CeSMar)
L’Artico sta tornando al centro del dibattito geopolitico e delle considerazioni strategiche delle potenze mondiali, come testimonia il numero di libri bianchi e strategie declaratorie in proposito rilasciate dai governi di Russia USA e Cina negli ultimi cinque anni, e in particolare recentemente rinnovate (2018-2021). La regione artica è per la natura ineludibile della sua geografia destinata nel lungo periodo ad essere una arena di competizione tra le attuali potenze del pianeta, perché linea di faglia tra i teatri operativi dell’Indopacifico, dell’Heartland e dell’oceano Atlantico-Boreale, ma su che scala è difficile da stabilirsi. La sua importanza era stata parzialmente trascurata con la fine della guerra fredda e per qualche tempo lo spazio artico è rimasto secondario.
I tre fattori determinanti per la rinnovata centralità sono:
- il ristabilirsi della Federazione Russa dopo la crisi degli anni novanta e la sua conseguente rinvigorita velleità di potenza;
- la crescita della Cina come rivale designato dell’egemonia statunitense accompagnata dalla manifestazione di interesse di Pechino per l’area;
- l’indebolirsi di quella che gli americani amavano chiamare “la sentinella non pagata” del nord: il ghiaccio.
Infatti, secondo la NASA, vi è stato un calo della copertura glaciale in media dell’13,5% ogni dieci anni tra il 1979 e il 2012 con una riduzione complessiva di circa il 40% nelle ultime quattro decadi (Arctic Sea Ice Minimum | Vital Signs – Climate Change: Vital Signs of the Planet (nasa.gov).
Andamento dello scioglimento dei ghiacci artici. Confronto tra le situazioni nel 1979 e nel 2020 in milioni di metri quadri di ghiaccio; se nel 1979 erano 2.7, oggi dobbiamo constatare che sono rimaste aree pari a 1.5. Ciò indica un declino pari al 44% della superficie ghiacciata dal 1979 al 2020.
Una tendenza che sembra avvicinare a grandi passi la realtà di un “blue artic”, navigabile per la maggior parte dell’anno. Quanto vicina davvero sia questa possibilità e quali saranno le sue conseguenze reali è un dibattito che divide gli esperti, tuttavia un’autorevole pubblicazione del 2017 dell’organo di studio statunitense sul cambiamento climatico (USGCRP – US Global Change Research Program – USGCRP Indicator Details | GlobalChange.gov.) prevede entro gli anni quaranta tarde estati sostanzialmente prive di ghiaccio.
Il potenziale è dunque rilevante, perché un Artico navigabile connetterebbe il 75% della popolazione mondiale attraverso rotte marittime più brevi di migliaia di miglia di quelle attualmente in uso, e permetterebbe di evitare i punti di passaggio obbligati che determinano il commercio mondiale presente, come il canale di Suez, lo stretto di Malacca o Bab el-Mandeb, riducendo anche di quindici giorni i tempi di transito.
Attualmente sono identificate tre rotte principali nell’artico, la rotta con passaggio a Nord-Ovest (NWP), la rotta con passaggio a Nord-Est (NEP o NSR) e la rotta Transpolare (TSR). Di queste la NWP è sotto il controllo del Canada, che la considera nelle proprie acque interne; essa presenta maggiori difficoltà tecniche sia per la conformazione dei fondali che per la presenza di ghiacci più vecchi, spessi e resistenti allo scioglimento estivo.
La NEP, tranne la porzione inerente ai paesi scandinavi e in particolare alla Norvegia, è sotto il controllo Russo, che similmente al Canada la considera situata nelle proprie acque interne, ma a differenza di quest’ultima insiste per una maggiore partecipazione sul passaggio commerciale, per esempio richiedendo l’uso di propri piloti e rompighiaccio, o la necessità di richiesta formale per il transito; la rotta è più praticabile sia per via di fondali meno insidiosi sia per la minor presenza di ghiaccio: se la tendenza allo scioglimento dovesse proseguire come previsto sarà la prima ad essere navigabile.
La rotta Transpolare al momento è sostanzialmente teorica, perché praticabile per pochissimi giorni all’anno e solo con l’utilizzo di efficaci mezzi rompighiaccio; a causa della quantità e resistenza del ghiaccio potrebbe diventare percorribile molti anni più tardi delle altre due rotte.
Conseguenze
Le ripercussioni geopolitiche di un cambiamento delle rotte marittime del commercio sono di estrema rilevanza e sono tra i fattori di maggiore impatto sugli equilibri mondiali, basti pensare, per fare degli esempi tra i tanti, alle conseguenze dell’apertura della rotta per il Capo di Buona Speranza o del canale di Panama. L’importanza delle rotte commerciali, oggigiorno via mare si muove quasi il 90% del traffico di merci, è inoltre destinata ad aumentare ulteriormente in futuro, con un previsto raddoppio del tonnellaggio nei prossimi quindici anni.
La seconda conseguenza di un eventuale blue artic sarebbe l’accesso, almeno teorico, alle sue risorse, come uno stimato 30% delle riserve di gas naturale non scoperte, il 13% delle riserve di petrolio, e vasti depositi sia di metalli cosiddetti vili (quali alluminio, ferro, rame, nichel e stagno), sia metalli nobili (oro, platino e argento), nonché riserve minerarie di uranio e grafite. Inoltre, forse ancor più importante per una società sempre più digitalizzata, terre rare, fondamentali per la micro-componentistica, usata nelle tecnologie più svariate, dall’industria aeronautica ai cellulari.
Alle risorse energetiche e minerarie si aggiungono quelle alimentari: una popolazione mondiale in aumento costante mette sempre più spesso nell’agenda dei decisori politici il tema della food security. Nel caso di un artico navigabile si tratterebbe naturalmente dello sfruttamento ai fini di pesca di una zona del pianeta che fino ad ora è stata quasi del tutto ignorata dall’industria alimentare, e inoltre sembrerebbe che i grandi bacini di pesca si stiano spostando sempre più a nord a causa del riscaldamento delle acque.
Non va poi dimenticato che le questioni legate ai diritti di pesca sono state già in passato funzionali a obiettivi strategici, e la Cina in particolare ha utilizzato questo tipo di approccio per guadagnare influenza in aree ben lontane dalle sue Zone Economiche Esclusive (ZEE).
Infine vi è l’aspetto militare vero e proprio. L’Artico è per la sua natura particolare una regione che si presta soprattutto alla difesa, ma è contemporaneamente una potenziale piattaforma di proiezione di potenza. È suscettibile di rapidi cambiamenti della dinamica geopolitica a causa di fattori chiave quali la scarsità di popolazione, la forte presenza governativa e una significativa militarizzazione. Questo rende più semplice la modificazione dello status quo, particolarmente mediante il sistema del “fait accompli” e risulta dunque attraente per le grandi potenze, in quanto vi è una possibilità maggiore per benefici significativi a costi inferiori che in altre aree del pianeta.
Russia in vantaggio?
Le nazioni con diritti territoriali sull’Artico sono otto: Canada, Danimarca (in rappresentanza della Groenlandia), Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia e Stati Uniti. Insieme formano un organo ad hoc, il Consiglio Artico, in cui la Cina nel 2013 ha ottenuto lo status di osservatore, dichiarandosi successivamente una “nazione vicina all’artico”. Dei membri del consiglio tutti, meno naturalmente la Russia, fanno parte della sfera di influenza statunitense, e la maggior parte (tranne Svezia e Finlandia) sono anche membri dell’Alleanza Atlantica e spesso hanno condotto esercitazioni militari congiunte.
In un certo senso si ripresenta dunque nell’artico lo stesso senso di accerchiamento che caratterizza la Federazione Russa in Europa, con tre fondamentali differenze.
Innanzitutto in questo contesto la Russia è lo stato nettamente più grande sia per estensione che per popolazione oltre il circolo polare. Conseguentemente le sue ambizioni territoriali sono marcate e per la maggior parte supportate dal diritto internazionale; nel 2015 ha ampliato le proprie rivendicazioni che ora si estendono a 463.000 miglia quadrate di fondale, in concorrenza con simili rivendicazioni di Canada e Danimarca, con le quali tuttavia sono in corso negoziati bilaterali nell’ambito della convenzione Onu sul diritto del mare (UNCLOS, che però non è riconosciuta dagli Stati Uniti).
In secondo luogo la Federazione Russa vanta il maggior numero di personale militare nell’area e una lunga tradizione operativa nelle condizioni climatiche estreme dell’artico, cosa che contribuisce a rendere credibile il rinnovato impegno delle sue forze nella regione.
Infine, nell’area artica la Russia confina direttamente con la potenza rivale statunitense e quindi gli sforzi di ricostituire la propria posizione militare, pur in un’ottica difensiva, con lo scopo cioè di difendere i propri interessi territoriali e proteggere le proprie capacità di second strike (assoluta priorità strategica), inevitabilmente si tramutano in una possibile minaccia offensiva al territorio statunitense ed europeo e in una relativa capacità di proiezione di potenza.
L’interesse strategico Russo per l’area è ulteriormente aumentato dopo l’annessione della Crimea nel 2014: le correlate sanzioni economiche imposte dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti e in generale la tensione nei rapporti con l’occidente, come pure la pressione percepita da parte di una Nato ormai confinante, ha indotto il Cremlino ad investire per potenziare la propria presenza artica sia in ottica anti Nato che in ottica economica, cercando cioè di avvicinare il proprio asse commerciale all’Asia.
Nel 2014 dunque la Russia ha riorganizzato le proprie forze nell’area, creando un Comando Artico con lo scopo di proteggere le strutture militari esistenti e quelle programmate in futuro. È stata creata anche una brigata artica e a gennaio la Flotta del Nord è stata designata come quinto distretto militare russo. Nella storia russa è la prima volta che ad una flotta viene dato eguale status di un distretto militare di terra, il che sottolinea la priorità che gli apparati russi hanno attribuito al loro fianco settentrionale.
Alla Flotta del Nord, con base nella nevralgica penisola di Kola, appartengono sette sottomarini con missili balistici nucleari su undici totali. A partire dal 2017, ha iniziato a concretizzarsi un vasto ammodernamento delle forze, con l’aggiunta di unità di superficie di recente costruzione, quattro nuove brigate artiche (tra personale aereo, di terra, missilistico e di artiglieria) e una brigata motorizzata.
Il governo russo ha investito più di un miliardo di dollari nella ristrutturazione di tredici aeroporti e nel potenziamento delle stazioni radar con il sistema Sopka-2, che si trova impiegato ad esempio sull’isola di Wrangler, a sole trecento miglia dall’Alaska.
Questi sistemi vanno a creare una sorta di campana protettiva che permette alla Russia una copertura completa della sua costa settentrionale ed acque adiacenti. Anche i sistemi missilistici hanno visto una crescita, con un maggior numero di S-400 schierati in tutto il teatro (e di cui è stato annunciato un ulteriore incremento) e lo schieramento di Bastion-P e Panstair-S1 sull’ Isola Kotel’nyj e l’arcipelago di Novaja Zemlja.
Tutto ciò contribuisce a creare un complesso e stratificato sistema difensivo che mette in evidenza le capacità russe di area denial (cioè l’abilità di impedire o ridurre la capacità di manovra avversaria in un teatro) lungo tutta la sua linea costiera. A ciò si aggiungono gli investimenti per potenziare le infrastrutture esistenti e costruirne di nuove e, non da ultimo, per la costruzione di navi rompighiaccio a propulsione nucleare, di cui è prevista una flotta di circa cinquanta unità.
Già ora nell’artico si concentra il 20% del PIL russo, il 22% delle sue esportazioni e circa il 10% di tutti gli investimenti effettuati sul suolo russo. Circa il 75% del petrolio russo e il 95% del gas naturale si trovano nel Nord. Un’importanza che è destinata solo ad aumentare nei prossimi venti-trenta anni: per la Russia l’artico è una zona di interesse vitale, dove la difesa e il controllo del proprio territorio (comprese le acque) e delle sue risorse è condizione essenziale per la sopravvivenza economica dello stato e il mantenimento del ruolo di grande potenza cui aspira.
Ciò indipendentemente dalla relativa crescente accessibilità, che rende solo più percorribile una traiettoria di per sé necessaria. Tuttavia, la situazione di crisi economica prolungata non permette alla Federazione Russa di attuare tutti gli investimenti che sarebbero necessari per realizzare i propri programmi; svariati progetti di investimento civile, soprattutto infrastrutture per l’estrazione di risorse naturali e per il trasporto marittimo, sono dipendenti da capitali stranieri, in particolare cinesi.
L’interesse cinese
La Cina ha infatti aumentato il suo interesse per l’area, e il principale obiettivo di breve periodo è quello di normalizzare la propria presenza nella regione. Nel suo libro bianco del 2018 si è dichiarata stato vicino all’artico (“Near-Artic Nation”), e si è potuto osservare una crescita notevole delle attività legate alla presenza cinese, sia in ambito scientifico, con svariate spedizioni e con la costruzione di una base scientifica permanente sull’isola di Svalbard in Norvegia (Artic Yellow River Station), sia attraverso investimenti economici di varia natura. L’interesse dichiarato da Pechino è per l’accesso a risorse naturali e per le opportunità offerte dalle rotte marittime.
La strategia di soft-power delle “Vie della Seta” è stata implementata nell’artico con una “Via della Seta Polare” (Polar Silk Road Initiative), che si declina in investimenti infrastrutturali e di sviluppo delle comunità locali, attraverso la convergenza di capitali, tecnologie e conoscenze cinesi.
Il governo di Pechino ha inoltre espresso interesse per la costruzione e posa sul fondale artico di cavi dati per il trasferimento ad alta velocità, in modo da migliorare la comunicazione digitale tra Asia ed Europa.
A ciò si aggiunge lo sforzo in ambito navale: la Cina sta costruendo navi rompighiaccio a propulsione nucleare, nonché petroliere e navi cargo pensate per la navigazione polare. È evidente come gli sforzi della Cina mirino a creare una sua influenza nella regione artica, possibilmente attraverso una presenza fisica, su cui costruire negli anni a venire.
Per ora il partner principale è la Russia, la quale ha riorientato le proprie esportazioni energetiche e minerarie verso l’Asia a partire dal 2014, e si rivolge a Pechino come fonte a lungo termine sia di capitali sia di tecnologie per lo sviluppo infrastrutturale del settentrione russo, in cambio soprattutto di risorse energetiche, fondamentali per il consumo e la diversificazione negli approvvigionamenti cinesi.
Un esempio è lo Yamal LNG project, un investimento da 27 miliardi di dollari per estrarre, processare e trasportare gas naturale nella penisola di Yamal, frutto di una joint venture tra la CNPC cinese e la russa Novatek.
La congiuntura tra crescenti ambizioni economiche e militari russe nell’Artico e la volontà cinese di avere una presenza nell’area sembra soddisfare le reciproche necessità nel breve-medio periodo, resta da vedere se le individuali visioni strategiche per la regione resteranno compatibili nel tempo.
Usa e NATO
Resi inquieti dalle attività di Russia e Cina, gli Stati Uniti hanno a loro volta aggiornato la propria strategia di medio e lungo periodo nell’Artico. Di questa gli aspetti fondamentali sono tre: la difesa del territorio, il mantenimento di un equilibrio di potenze favorevole nell’area e l’accento su spazi condivisi liberi ed aperti. Per quanto concerne il primo elemento, in maniera del tutto speculare alla Russia, gli Stati Uniti vedono nell’artico una possibile linea di attacco al loro territorio.
Considerano dunque fondamentale mantenere e incrementare le proprie capacità di area denial a tale scopo investendo nei sistemi radar (per loro stessa ammissione il North Warning System accusa lo scorrere del tempo e l’avanzamento delle tecnologie) e in quelli missilistici. A questo si aggiungono la necessità di una deterrenza credibile anche in termini di forze convenzionali, sia navali che terrestri che aeree: il focus è sulla flessibilità operativa e l’approccio unificato da parte di tutte le Forze Armate.
Il Dipartimento della Difesa statunitense ha rivalutato solo in tempi recenti il proprio approccio all’Artico, in virtù dei mutamenti ambientali in corso e della rinnovata attenzione russa, e deve investire copiosamente per portare le proprie forze all’altezza delle sfide che un quadro così complesso presenta. Non a caso il documento relativo dell’Esercito è intitolato “Riguadagnare il dominio nell’artico” (Regaining Artic Dominance) mentre l0’ultima pubblicazione dottrinale della Marina riguarda la strategia artica: US Navy Arctic Strategy: New Challenges in a “Blue” Arctic (highnorthnews.com).
In che modo verranno esattamente allocate le risorse economiche disponibili per la regione deve essere ancora stabilito, ma è evidente che vanno colmate delle lacune principalmente in termini infrastrutturali, di mezzi (navi con capacità operativa nell’artico e rompighiaccio) e addestramento del personale.
L’Esercito ha proposto l’implementazione delle Multi-Domain Task Force (MDTF), un approccio interforze in sperimentazione da pochi anni, ma non ancora entrato nella dottrina militare americana, che potrebbe trovare nella regione artica una conferma della sua validità.
Va tuttavia considerato che gli Stati Uniti dispongono di un grosso vantaggio strategico nell’Artico che è dato dalla rete di paesi partner e alleati che condividono interessi nazionali nell’area, da cui l’importanza attribuita all’equilibrio favorevole.
La cooperazione con gli alleati Nato consente a livello operativo l’appoggio a una rete infrastrutturale migliore: l’artico europeo in particolare è già nettamente meglio servito che quello americano o canadese, è dotato di ottimi sistemi radar e di sorveglianza, e non rende così urgenti e così radicali simili investimenti interni, che possono essere meglio ponderati e diluiti nel tempo.
In termini di addestramento del personale, in un contesto dove storicamente il vantaggio tattico è dato dalla qualità degli individui, gli USA possono avvalersi di esercitazioni congiunte con forze armate che, seppure piccole, coltivano unità di élite con grandissima esperienza nel duro contesto ambientale, un aspetto che gli statunitensi hanno sfruttato sin dal secondo dopoguerra per professionalizzare rapidamente le proprie forze.
Anche il controllo del GIUK gap, che permette l’accesso dall’Artico all’Atlantico, si avvale tradizionalmente della collaborazione Nato, e le capacità sottomarine e aviatorie della marina statunitense sono sempre state mantenute ben affilate.
È chiaro dunque perché gli USA pongano un così forte accento sul mantenimento dello status quo, che li avvantaggia: sei degli altri sette paesi artici sono loro alleati stretti, e un approccio condiviso alla sicurezza della regione rallenta e dissuade tentativi di cambiare l’ordine esistente, che è mutualmente riconosciuto come soddisfacente.
In questo contesto si inseriscono l’esplicito rigetto, nei documenti del Congresso, della formulazione cinese di “Near-Artic Nation”, che non viene riconosciuta, e la definizione di Cina e Russia come minaccia per la sicurezza e la prosperità della regione.
Proprio in ottica di conservazione di una posizione di vantaggio gli Stati Uniti, e la Nato in generale, devono riuscire a vedere oltre la retorica aggressiva Russa. Infatti, posto che un conflitto aperto nell’Artico non resterebbe regionale, ed è quindi uno scenario non auspicabile, bisogna evitare che le minacce percepite alla reciproca sicurezza tra paesi Nato e Federazione Russa portino ad una escalation in nome della ricerca di sicurezza stessa.
Questa responsabilità pesa maggiormente sulle spalle di chi è in questo momento in condizioni più favorevoli: le provocazioni russe nascondono la grande asimmetria tra le sue ambizioni e la realtà di una potenza in enorme difficoltà. Le infrastrutture che la Russia sogna sono lontanissime dall’essere realizzate al punto da potersi considerare utilizzabili, e le difficoltà e costi per portarle a termine saranno immensi.
Le prospettive
Per il momento dunque, pur dimostrando risoluzione e fermezza nella difesa dei propri interessi e nel contenimento di eventuali pretese russe non giustificate, contemporaneamente è necessario che la Nato non reagisca esageratamente alle provocazioni, le quali sono manifestazioni della ricerca di simmetria tradizionale della politica estera russa, e a sua volta eviti proattivamente di mettere la Federazione Russa all’angolo, non minacciandone direttamente gli interessi vitali.
Gli sforzi dell’Alleanza dovrebbero essere diretti:
- Al miglioramento delle proprie capacità artiche, singole ed interforze, in particolare in termini di unità di superficie, sia navali che terrestri;
- Al potenziamento delle infrastrutture, a partire da quelle legate alle comunicazioni, ma anche basi ed aeroporti, in modo da mantenere una credibile capacità di deterrenza;
- All’impiego di mezzi senza pilota, sia UAV che UUV, indiscutibilmente vantaggiosi in un ambiente così ostile per l’uomo;
- Al contenimento della Russia, in modo che non travalichi lo spettro dei suoi interessi legittimi e soprattutto
- A mantenere il più possibile, e proattivamente, la potenza cinese fuori dal teatro, il vero possibile fattore di rottura dell’equilibrio.
Infine bisogna attentamente considerare che il potenziale di sviluppo che l’Artico presenta è controbilanciato da diversi elementi semi-permanenti di difficoltà:
- anche con un mare navigabile le condizioni sarebbero estremamente avverse, un clima comunque molto duro, imprevedibile; la presenza di iceberg e la difficoltà di copertura satellitare evidenziano notevoli rischi per mezzi ed equipaggi, come pure difficoltose, rischiose e costose le operazioni di salvataggio;
- la citata assoluta carenza di infrastrutture di base come porti, aeroporti, collegamenti stradali e ferroviari, che dovrebbero essere realizzati ex novo in condizioni ambientali estremamente sfavorevoli rende poco credibile un futuro a breve termine di traffico navale portacontainer su vasta scala. È più probabile che le rotte artiche vedano il loro utilizzo nel trasporto di risorse grezze, con navi ed equipaggi altamente specializzati;
- la lontananza da fonti di approvvigionamento di base, come carburante o semplicemente cibo, rende la permanenza di esseri umani logisticamente complessa, e lascia poco spazio per errori oltre che elevarne il costo;
- lo sfruttamento delle risorse minerarie sottomarine avrebbe a sua volta delle difficoltà tecniche considerevoli, in cui il rapporto rischi-costi-benefici appare quasi sempre, per il momento, sfavorevole.
Non rappresentando l’Artico, come per la Russia, un interesse assolutamente vitale immediato, i paesi Nato possono permettersi di gestire la competizione, allocando risorse per mantenere il vantaggio tattico, senza spiralizzare in una deleteria corsa agli armamenti.
Allo stesso tempo è fondamentale non cadere nell’illusione che sia un dossier di cui ci si possa dimenticare per lunghi periodi di tempo, come sostanzialmente hanno fatto gli Stati Uniti tra il 1989 e il 2010: le capacità di dissuasione credibili sono fondamentali per mantenere la regione pacifica. Rafforzando la collaborazione dei paesi Artici, la Russia può essere contenuta abbastanza facilmente nelle sue ambizioni a quelle che sono le sue effettive competenze, delle quali va riconosciuta l’esistenza e la portata, scoraggiando espansioni non giustificate.
Grande attenzione invece dovrebbe essere rivolta alle manovre cinesi: è mutuo interesse un mantenimento di relativa stabilità nell’area, e l’ingresso di una potenza con le capacità che ha dimostrato di avere la Cina, sarebbe indubbiamente deleterio per gli equilibri regionali ed extraregionali. Poiché la collaborazione sino-russa è più una conseguenza della spinta occidentale, piuttosto che un matrimonio basato su condivisi interessi strategici, lo spazio per ridurne l’efficacia esiste.
Alle citate necessità di deterrenza vanno accompagnati pragmatici approcci sul lato diplomatico: l’aspirazione della Russia all’essere riconosciuta come interlocutore alla pari può assistere nel compito di instaurare un dialogo costruttivo. Vi sono temi di interesse comune, come la gestione dei problemi ambientali, quelli relativi alla pesca o la sicurezza in mare, che possono essere funzionali a una comunicazione efficace su più livelli.
In conclusione l’Artico ha sì un potenziale affascinante, ma il suo sfruttamento è tutt’altro che scontato e si tratta di una direttrice di lungo periodo: tuttavia le decisioni prese ora sono quelle che contribuiranno a definire lo stato dell’area nel prossimo futuro, e vanno ponderate attentamente.
Foto: US Navy, Ministero della Difesa Russo, Lockheed Martin e Xinhua